Riportiamo su SassiLive una “proposta a bruciapelo” di Franco Palazzi già inserita sul sito materano profumodisvolta.it sul tema “Cultura e partecipazione a Matera” scaturita da un dibattito promosso nelle scorse settimane proprio sul nostro portale a seguito della lettera inviata alla nostra redazione da Giuseppe Cicchetti, studente universitario materano. Di seguito la nota integrale.
Nel tentativo di stimolare ulteriormente il dibattito già in corso sulla promozione della cultura a Matera – in vista della candidatura a Capitale Europea e non solo – in questo articolo provo a sviluppare un approccio dinamico al concetto in questione, accostando “cultura” e “partecipazione”. Propongo quindi un possibile modo per favorire contemporaneamente, nella città dei Sassi, il soddisfacimento dei bisogni culturali e di quelli di carattere più concreto della cittadinanza, utilizzando la cassetta degli attrezzi della democrazia partecipativa; in particolare, considero l’eventualità di adottare il bilancio partecipato, un processo che coinvolge in modo determinante i cittadini nell’ allocazione di parte delle finanze pubbliche locali.
In una bella lettera di qualche giorno fa al direttore di SassiLive.it, l’amico Giuseppe Cicchetti tracciava un quadro preoccupato delle abitudini culturali dei lucani, rilevando che tendenzialmente molti di loro non leggono, non si informano, non frequentano cinema e musei, sperimentano sulla propria pelle l’anacronismo di un sistema in cui l’offerta culturale non è economicamente trainante e l’istruzione pubblica naviga ormai nelle secche della rassegnazione a livelli calanti di risultati e servizi. Un lettore, forse pessimista ma sicuramente attento, gli obiettava, citando Maslow, che prima di potersi dedicare al soddisfacimento di bisogni immateriali – come possono essere, appunto, la lettura o in generale la partecipazione a mostre, proiezioni ed eventi di natura simile – bisogna aver messo a tacere quelli di carattere più concreto – legati ad una dignitosa sopravvivenza economica. L’idea, di per sé, non è nuova – in varie forme si trova già in Feuerbach e in tutta la letteratura socialista, della quale è di fatto uno dei postulati di fondo; allo stesso concetto ha fatto riferimento Ronald Inglehart per spiegare l’ondata di partecipazione giovanile di fine anni Sessanta, che per la prima volta aveva per oggetto principale non rivendicazioni di carattere squisitamente material-reddituale, ma “valori postmaterialisti” come l’autorealizzazione nella sfera privata, l’espansione della libertà di opinione, della democrazia partecipativa e dell’autogoverno nella sfera pubblica. Quello che mi preme è indicare, a partire da una simile constatazione, piuttosto che ulteriori motivi di sconforto, una strada – faticosa – per, come si suole dire, prendere due piccioni con una fava.
Ciò da cui credo si debba ripartire è un approccio dinamico alla nozione di “cultura”; la cultura non è un fatto meramente iperuranico, l’intima contemplazione di un Caravaggio o l’ascolto della sinfonia Jupiter. Certo, a livelli elevati di fruizione è anche quello; ma nel momento in cui Goebbels dichiarava “Quando sento la parola cultura, imbraccio la mia pistola” non era alle Affinità elettive di Goethe che stava pensando. Quello che il gerarca nazista stava involontariamente mettendo in luce è l’intimo legame tra cultura e praxis, tra riflessione ed azione.
Le prime analisi sulla partecipazione politica nei Paesi democratici, risalenti a circa un cinquantennio fa, evidenziavano come le dimensioni del fenomeno fossero modeste, e la sua distribuzione assai ineguale all’ interno della popolazione: tra gli individui maggiormente partecipi c’erano coloro che si distinguevano per un grado elevato di istruzione. Nello stesso periodo, Almond e Verba individuavano sotto la definizione di “cultura civica” l’insieme di valori (dal moderato impegno civile alla fiducia nel proprio ambiente sociale passando per una vivace attività politica) che ponevano le migliori basi per lo sviluppo di un regime democratico. Un decennio più tardi, Robert Dahl sottolineava, nel medesimo rispetto, la centralità della diffusione di istruzione e strumenti di comunicazione – oltre che l’assenza di diseguaglianze economiche estreme. Senza alcuna pretesa di precisione, si può affermare che alcune di queste categorie confluiscano, a livello locale e non solo, nella definizione di capitale sociale elaborata da Putnam: nel tentativo di spiegare – siamo nel 1993 – il diverso rendimento istituzionale delle regioni del Nord Italia rispetto a quelle del Meridione lo studioso chiamava in causa quelle “caratteristiche dell’organizzazione sociale – reticoli di relazioni, norme di reciprocità, fiducia negli altri – che facilitano la cooperazione per il raggiungimento di comuni benefici”. All’interno di tale analisi rivestivano particolare importanza fattori come la presenza di associazioni, la tendenza ad informarsi sulle vicende politiche, il rifiuto di contatti personalistici con gli amministratori. Tutto questo per dire che molti elementi che potrebbero tranquillamente rientrare in una definizione ampia di “cultura” fanno spesso la differenza dal punto di vista politico.
Osservata in questo contesto, l’inattività culturale di molti lucani assume connotati allo stesso tempo più comprensibili e maggiormente preoccupanti: essa è in parte sia causa che risultato di un processo di partecipazione politica avvertito di frequente come non del tutto soddisfacente da loro stessi. Non si tratta di qualcosa che ha a che vedere direttamente con la specifica composizione di una giunta o il colore politico di una maggioranza, quanto piuttosto, per dirla con Tarrow, dell’ assenza di un’ adeguata “struttura delle opportunità politiche” con cui le istituzioni aprano canali di accesso che incoraggino la partecipazione dal basso.
Ma, ancora, se il problema, in tempi di crisi, è per molti sbarcare il lunario, come promuovere sensatamente, passando al contesto specifico di Matera, un obiettivo meritorio come la candidatura a Capitale Europea della Cultura senza passare dal livello più basso di bisogni? Più che impelagarsi in una soluzione in due tempi – prima ampliamo sensibilmente la gamma di servizi a disposizione dei cittadini, specie quelli appartenenti alle categorie socialmente più vulnerabili, promuoviamo poi la diffusione della cultura nelle sue tradizionali manifestazioni come festival, concerti e spettacoli o, viceversa, prima diventiamo Capitale Europea, poi attendiamo i ritorni in termini economici e sociali nel medio-lungo periodo – o in un’improbabile asimmetria – parafrasando Woody Allen, “Siamo poveri ma colti, ma decisamente poveri” – , si potrebbe forse provare ad affrontare i due aspetti contemporaneamente (posto che i contenuti che stanno emergendo nel corso della preparazione del dossier di candidatura sono spesso già “culturali” in un esempio molto ampio e concreto del termine).
Senza pretese di annunci profetici, né di scientificità inoppugnabile, passo a delineare quello che a mio avviso potrebbe essere un modo per centrare l’obiettivo di una città profondamente immersa in una cultura non meramente astratta, ma costruttivamente legata alle sorti della comunità.
Nel suo viaggio del 1831 negli odierni Stati Uniti, Alexis de Tocqueville notò come la virtuosa autonomia amministrativa di comuni e contee si basasse sull’assunto “che ognuno è il miglior giudice di quello che lo riguarda direttamente, il più qualificato a provvedere ai suo bisogni particolari”. Chiunque abbia vissuto per qualche tempo a Matera sa bene che forse non c’è convinzione più radicata di questa nella popolazione locale: come sfruttare una risorsa simile? Volendo fare una proposta a bruciapelo, uso due parole: “democrazia partecipativa”; per chi le trovasse troppo evanescenti, dico anche “bilancio partecipato”. Di cosa si tratta? Iniziamo con due definizioni:
[…] bilancio partecipato significa che i cittadini decidono l’allocazione delle finanze pubbliche locali, soprattutto le decisioni d’investimento. Il bilancio partecipato può assumere forme diverse, ma generalmente è un processo continuativo con numerosi incontri che comprendono una qualche forma di deliberazione spesso all’interno di un framework prestabilito. Gli incontri possono essere […] di quartiere o assemblee tematiche, possono svolgersi a porte chiuse o essere pubblici […] e vi possono essere delegati o meno. Le discussioni possono essere informali o strutturate da regole specifiche, possono o non possono essere coinvolti dei mediatori, si possono applicare misure […] per garantire la partecipazione di gruppi politicamente marginalizzati […]. (Geissel 2008, 376)
[…] il bilancio partecipato consente la partecipazione di cittadini non eletti nell’ideazione e/o nell’allocazione delle finanze pubbliche. Per fornire una definizione più precisa del processo, devono essere aggiunti cinque criteri: (1) la dimensione finanziaria e/o relativa agli stanziamenti deve essere discussa; il bilancio partecipativo comporta perciò avere a che fare con il problema delle risorse limitate; (2) bisogna coinvolgere il livello [ amministrativo] cittadino […] (il livello di quartiere non è sufficiente); (3) deve essere un processo ripetuto nel tempo (un unico incontro o un singolo referendum su materie finanziarie non sono esempi di bilancio partecipato); (4) il processo deve includere alcune forme di deliberazione pubblica all’interno di una struttura di specifici incontri/forum […]; (5) è richiesta una certa accountability rispetto ai risultati. (Sintomer, Herzberg e Rocke 2008, 168).
Il bilancio partecipato nasce alla fine degli anni ’80 a Porto Alegre, in Brasile, dove ha portato migliaia di persone, specie di estrazione sociale medio-bassa, a prendere parte alla gestione di una quota delle finanze comunali con degli ottimi risultati a livello di crescita della società civile, migliore gestione della spesa, riduzione delle pratiche clientelari ed aumento di servizi per la cittadinanza. In particolare, il sistema sperimentato nella città carioca è fondato su tre principi: democrazia popolare (assemblee cittadine in 16 distretti che, sulla base della regola “una testa, un voto”, individuano le priorità di spesa; discutono le linee guida per la realizzazione di politiche municipali in ambiti come istruzione, salute, cultura; eleggono i delegati che seguiranno lo sviluppo dei suggerimenti espressi), giustizia sociale (i fondi disponibili per ogni area d’investimento vengono ripartiti tra i vari distretti considerandone il numero di residenti, il livello di infrastrutture e servizi già presente e le rispettive priorità) e controllo dei cittadini (tramite apposite commissioni elette da loro a livello distrettuale) (Sintomer, Herzberg e Rocke 2008, 167).
Ovviamente, replicare i tratti salienti di un’esperienza simile in una realtà molto diversa da quella sudamericana non costituisce un passaggio scontato – l’ostacolo più evidente sta nel fatto che la presenza di un livello nettamente superiore di servizi erogati dal settore pubblico e di una qualità della vita complessivamente più elevata fa venire a mancare un forte stimolo alla partecipazione. Tuttavia, si tratta di difficoltà tutt’altro che insuperabili: sono ormai centinaia la città europee che ricorrono a forme di bilancio partecipato più o meno vicine all’ originale, e dal 2012 tra di esse vi sono tutte le amministrazioni locali del Regno Unito – dove entro il 2018 bambini e ragazzi decideranno direttamente del 25% del budget loro assegnato.
Un esempio per alcuni aspetti vicino a Matera è quello della cittadina canadese di Guelph, di circa 115000 abitanti, che si è trovata a fronteggiare, sul finire degli anni ’90, forti tagli alle risorse comunali e, anche in conseguenza di questo, una crescente diseguaglianza economica (Pinnigton, Lerner e Schugurensky 2009, 461-462). E’ in un contesto del genere che primi esperimenti di associazionismo, volontariato e attivismo di quartiere condotti di concerto con le amministrazioni cominciano a prendere piede circa vent’anni fa, fino a che il comune, visti i risultati incoraggianti, ritiene opportuno creare una struttura organizzativa formale che nel 1999 inizia ad operare propriamente un bilancio partecipato, cominciando con la gestione di una cifra assolutamente modesta e tutt’altro che difficile da reperire: 25000 dollari (Pinnigton, Lerner e Schugurensky 2009, 464-466).
Alla luce di tutto questo, credo che Matera possieda alcune caratteristiche favorevoli alla sperimentazione di un sistema più democratico di gestione della finanza pubblica:
– se il bilancio partecipato esiste oggi nei piccoli paesi come nelle metropoli, Matera presenta delle dimensioni ideali in tal senso: è abbastanza grande da avere una buona quantità di risorse umane cui fare ricorso in un processo simile, ma non così grande da rendere complesso e dispendioso il coordinamento tra varie assemblee cittadine di quartiere;
– posto che una delle sfide cruciali nelle iniziative di democrazia partecipativa è coinvolgere i gruppi più marginali e/o minoritari dal punto di vista socioeconomico (su questo ritornerò in chiusura), Matera ha una popolazione piuttosto omogenea, con poche minoranze etniche non particolarmente numerose e sostanziale assenza di tensioni tra queste e gli autoctoni – nonché di fenomeni come l’immigrazione clandestina;
– negli ultimi anni, la realtà associativa cittadina è in forte crescita, così come l’intraprendenza del mondo studentesco;
– la presenza massiccia, percentualmente parlando, di pensionati e studenti delle scuole superiori può fornire facilmente quel minimo di personale volontario, fornito di un po’ di tempo libero, necessario ad assicurare il corretto funzionamento della struttura di partecipazione;
– diverse attività promosse dal Comitato Matera 2019 stanno già andando in direzione di un maggiore coinvolgimento della cittadinanza.
Detto questo, resta da chiarire quali obiettivi l’introduzione di un bilancio partecipato permetta di raggiungere e quale sia la sua rilevanza in un discorso che miri a fondere cultura e partecipazione per andare incontro alle necessità sia materiali che immateriali della popolazione materana.
Cominciamo dalle ricadute “culturali”:
– contribuire all’elaborazione di un bilancio partecipato permette ai singoli di acquisire conoscenze e sviluppare abilità che li rendono cittadini migliori;
– porta a sviluppare un approccio allo stesso tempo più critico e maggiormente realistico nei confronti dell’operato degli amministratori locali, ponendo le loro scelte sotto gli occhi di tutti e chiedendo in un certo senso al cittadino di metterci del proprio nel tentativo di fare di meglio;
– incoraggia (ci dicono i dati su alcuni esperimenti condotti sinora) persone lontane dalla gestione della cosa pubblica a fare la propria parte;
– promuove la formazione di un clima pluralistico e di dialogo, portandoci ad ascoltare istanze diverse dalle nostre direttamente dalle parole degli interessati;
– conduce alla nascita di una mentalità civica che pone le condizioni per la sperimentazione di altre forme di innovazioni democratiche, che non si limitano affatto al bilancio partecipato (Geissel 2008, 366);
– consente ai cittadini di essere promotori – e non semplici fruitori – dell’offerta culturale della propria realtà locale, portandoli a scegliere tra le varie attività in un’ottica comunitaria di costi/benefici ed identificandosi maggiormente con quanto alla fine sarà messo in atto;
– rende la popolazione stessa immediatamente responsabile per una gestione finanziaria che, dati certi vincoli di bilancio, non attribuisca sufficiente importanza all’investimento in istruzione e cultura.
Verrebbe da dire, a questo punto: belle parole, ma come la mettiamo con i bisogni materiali? Va bene gestire meglio ed insieme il bilancio, ma se le casse piangono cosa possiamo fare? Tutto questo ci conduce alle ricadute più concrete. Premesso che queste ultime sarebbero, probabilmente, non altrettanto facili da raggiungere delle precedenti, mi vengono in mente alcune idee:
– pratiche come il bilancio partecipato portano a ridurre voci di spesa eventualmente viste come “sprechi” agli occhi della maggioranza della popolazione, riallocando risorse preziose;
– in un’epoca di tagli crescenti alla macchina amministrativa locale, permettono ad essa di gestire meglio il sovraccarico di domande in una serie di attività quali la pianificazione degli investimenti, l’elaborazione di progetti di spesa e l’implementazione (in determinate sue fasi) delle politiche pubbliche (contenendo in tal modo alcune voci di bilancio e liberando fondi per altri fini);
– premesso che in materia fiscale l’autonomia dei comuni è molto limitata, i cittadini riuniti nelle assemblee potrebbero decidere di sfruttarla al massimo per promuovere, a livello locale, obiettivi di maggiore giustizia sociale – che gli stessi amministratori locali probabilmente faticherebbero a perseguire senza una legittimazione popolare forte perché diretta;
– una gestione finanziaria trasparente, sottoposta al vaglio costante dell’opinione pubblica cittadina, dovrebbe tendenzialmente incoraggiare gli investimenti e le donazioni da parte di privati – a cominciare da quella componente della popolazione in possesso del capitale necessario -, che potrebbero così star certi che i loro danari avranno buone chances di produrre utili e di non andare sprecati (con questo non intendo minimamente affermare che la gestione pubblica tradizionale sia per forza sinonimo di sprechi, ma che in ambiti come questo il fattore percezione è fondamentale – e spesso nel nostro Paese, a torto o a ragione, la macchina pubblica viene vista come poco efficiente dai privati);
– in un contesto in cui la possibilità di usufruire di fondi europei è piuttosto elevata – e dove invece spesso il problema sta nel riuscire a presentare, anche solo per motivi logistici e di personale, buoni progetti per spenderli – avere persone disposte ad investire parte del proprio tempo su questo fronte potrebbe costituire per le amministrazioni un’ottima risorsa per incrementare il proprio margine di spesa.
Vengo, infine, a due difficoltà di carattere tecnico.
In primo luogo, già immagino l’obiezione di qualche elitista che, citando lo stesso Tocqueville, potrebbe ricordarmi che “il popolo, più che ragionare, intuisce” – ovvero: il cittadino medio magari non sa neanche cosa sia un bilancio, figuriamoci se possa riuscire a stilarne uno. Questo mi permette di sottolineare il ruolo che il personale tecnico-amministrativo deve ricoprire per dare una possibilità di successo ad ogni esperimento di bilancio partecipato: la sua presenza nelle assemblee cittadine ha la funzione di fornire a tutti i partecipanti le conoscenze minime per procedere alla discussione all’ordine del giorno, senza sfruttare per questo i maggiori livelli di competenza per distorcere il processo deliberativo in direzione dei propri interessi di parte. A fronte probabilmente del sacrificio di qualche ora del proprio tempo libero, i funzionari pubblici avrebbero in tal modo la possibilità di instaurare un rapporto diretto e mutuamente vantaggioso con l’utenza che altrimenti potrebbe essere difficile da instaurare.
In secondo luogo, non faccio fatica a figurarmi anche l’obiezione di segno ideologico opposto: il bilancio partecipato non farebbe che aumentare la partecipazione – e l’influenza – dei soliti noti, a scapito di una massa di cittadini sempre più estranea ai processi di deliberazione. Per scongiurare questo rischio, basta strutturare bene il nostro esperimento democratico. Per fare qualche esempio:
– la partecipazione delle madri di famiglia – che nel nostro Paese ancora si fanno carico di una quantità assolutamente iniqua di lavoro domestico e cura di figli e parenti anziani – potrebbe essere incoraggiata da servizi volontari di baby-sitting e assistenza alla terza età;
– molte categorie, tra loro eterogenee, potrebbero beneficiare dell’utilizzo di nuove tecnologie (assemblee cittadine in diretta streaming con possibilità di interazione, creazione di una community online, podcast degli incontri precedenti, schede illustrative e brevi video per acquisire il necessario bagaglio di conoscenze minime);
– utile potrebbe rivelarsi la somministrazione di appositi questionari a tutta la cittadinanza;
– le decisioni delle assemblee cittadine potrebbero venire sottoposte a referendum comunale;
– per spingere gli studenti volenterosi a dare il proprio contributo si potrebbe fare ricorso a piccoli incentivi su beni e servizi per loro strategici, nonché provare a sviluppare un sistema sul modello di quello britannico di cui sopra (il tutto magari facendo appoggio su moduli di educazione civica curricolari svolti con un occhio alla democrazia partecipativa a livello locale);
– i componenti delle minoranze etniche statisticamente più restie alla partecipazione sarebbero probabilmente incoraggiati dalla presenza di interpreti e mediatori culturali, oltre che, almeno nelle prime fasi, di modesti gettoni di presenza.
Tutto questo per dire che, in ultima battuta, l’utilità del coinvolgimento diretto dei cittadini nelle decisioni politiche dipende da una serie di caratteristiche della comunità locale – che a me, ripeto, sembra presente nel nostro caso – tanto quanto dalle modalità con cui tale coinvolgimento viene realizzato (Irvin e Stansbury 2004).
L’analisi condotta sin qui, da sola, non dimostra molto, né affronta o risolve tutti i problemi che instaurare processi di bilancio partecipato a Matera potrebbe incontrare. Tuttavia, indica – credo con qualche buon argomento – una strada che potrebbe valere la pena percorrere (non in esclusiva, ma necessariamente insieme ad altre che andranno o sembrano già andare nella stessa direzione). Perché, allora, non cominciare a parlarne?
Franco Palazzi su profumodsvolta.it
Riferimenti
Geissel, B. (2008), “Migliorare la qualità della democrazia a livello locale: esperienze innovative di democrazia partecipativa in Germania”, Rivista Italiana di Scienza Politica XXXVIII/3, pp. 365-392.
Irvin, R.A. e J. Stansbury (2004), “Citizen Participation in Decision Making: Is It Worth the Effort?”, Public Administration Review 64.1, pp. 55-65.
Pinnington, E., J. Lerner e D. Shugurensky (2009), “Participatory budgeting in North America: the case of Guelph, Canada”, Journal of Public Budgeting, Accounting & Financial Management 21(3), pp. 455-484.
Sintomer, Y., C. Herzberg e A. Rocke (2008), “Participatory Budgeting in Europe: