Profumo di svolta pubblica un articolo che affronta le tematiche della responsabilità di politica e cittadini, della legalità e dell’onestà dal punto di vista della scienza politica. Di seguito il testo integrale.
Così fan tutti – parte prima
Da qualche settimana, ormai, i componenti di Profumo di Svolta si interrogano su un tema delicato: si può tagliare un traguardo senza passare dalla partenza? (Tradotto: possiamo avere istituzioni migliori senza cittadini migliori?). Mi sembra abbastanza chiaro che la risposta debba essere negativa. Se, in ultima analisi, le istituzioni sono fatte dai cittadini per i cittadini, non si potranno registrare, in termini assoluti, miglioramenti a livello collettivo che non siano in qualche misura anche miglioramenti individuali. Per il momento uso “migliore” in un’accezione volutamente generica, che ha qualcosa a che fare col senso civico e qualcos’altro a che vedere con la consapevolezza.
In un’assemblea pubblica (www.profumodisvolta.it/assemblea2-1), parlando delle accuse rivolte ad alcuni componenti della giunta regionale, un passante ha riproposto con forza una questione sempre attuale:
“Anche io rubo. Anche io non sono corretto nei confronti della comunità in cui vivo. Quando accompagno mio figlio a scuola, arrivo con la macchina quasi fin dentro il portone. Quando vado a comprare le sigarette parcheggio dove non si può parcheggiare e lascio le quattro frecce. Tutti nel nostro piccolo siamo ladri, non soltanto chi si impossessa illecitamente di denaro pubblico. Quando un’illegalità non è grave e soprattutto siamo sicuri di non essere rimproverati da altri, oppure sappiamo che gli altri si comportano o si comporterebbero come noi, siamo i primi a compierla”.
Testimonianze come questa aiutano a tenere i piedi per terra, portano chiunque voglia realizzare qualcosa per gli altri a fare i conti con le mille contraddizioni della realtà, a sporcarsi la mani – che poi, parafrasando Bernard Williams, è sempre meglio che tenerle in tasca. Tuttavia, per coglierne le implicazioni non possiamo considerarle come sfoghi di un singolo o esempi della mentalità di una popolazione, ma occorre inserirli all’interno di categorie precise, che ci permettano di comprenderne nessi e sottointesi. La sfida sta nel farlo senza astrarre troppo, o male. Rinunciando da subito ad ogni pretesa d’ impeccabilità, è quello che vorrei provare a fare, in due tempi. In questo articolo proverò ad analizzarne brevemente le ricadute socio-politiche, lasciando – spero – per un prossimo un’indagine di tipo più profondo, che chiami in causa la morale e l’etica pubblica.
Per prima cosa partirei dal perché. Perché molti di noi, cittadini, elettori, sono portati a minimizzare i comportamenti disonesti della classe dirigente? Occorre notare che l’atteggiamento del passante – che poi spesso è anche il nostro – non è improntato ad una qualche forma di garantismo, a dubitare legittimamente delle accuse mosse a determinate persone (contro le quali questo neanche commento è una requisitoria); tutt’altro: esso registra immediatamente il dato come certo, mettendolo a confronto con fatti sicuramente accaduti perché narrati in prima persona(parcheggiare in divieto di sosta e simili).
Credo che molti siano portati a pensare che, date le alternative, tentare di “essere ladri” per quanto possibile sia la cosa più razionale da fare. Assumendo come ideale lo scenario in cui tutti si comportano onestamente ed io sono l’unico “ladro”, che può agire impunemente da free rider, in un mondo in cui comunque alcuni ruberanno, tanto vale che lo faccia anche io – sto semplificando, ma un ragionamento di questo tipo è alla base del Dilemma del Prigioniero (plato.stanford.edu/entries/prisoner-dilemma) nelle sue varie forme. Messa così, la confessione del nostro cittadino è l’emblema di quello che nelle scienze sociali si definisce approccio “rational choice”, per il quale le collettività sono la semplice somma degli individui che le compongono e ogni azione è spiegabile in base al comportamento di singoli che esprimono consapevolmente il loro essere razionali nella massimizzazione della propria utilità. Questo approccio, notoriamente, presenta dei lati negativi. Uno di essi può essere osservato quando abbiamo a che fare con dei beni comuni; si tratta del noto schema della “tragedy of the commons” (qed.econ.queensu.ca/pub/faculty/garvie/eer/hardin.pdf): data una risorsa a disposizione di una certa collettività, ogni membro di quest’ultima sarà portato, sulla base della propria razionalità individualistica, ad estrarre la massima utilità possibile da quella, con la conseguenza che un tale comportamento, una volta generalizzato, possa mettere in pericolo la sopravvivenza del bene stesso. Ovviamente si tratta di una conclusione evitabile, almeno in teoria: basta mettere in piedi un sistema di incentivi lungimirante che miri a preservare la risorsa nel tempo limitandone l’accesso che ogni singolo può rivendicare – è uno dei motivi per cui nessuno di noi si reca agli Uffizi tentando di appropriarsi del maggior numero possibile di capolavori.
Certo, questo spiega in parte il ragionamento “siamo tutti ladri”: nel nostro Paese manca un sistema di incentivi e disincentivi che scoraggi tutti o quasi dall’intraprendere determinati comportamenti antisociali, come frodare il fisco, appropriarsi per scopi personali di risorse pubbliche eccetera.
Eppure non ci dice ancora tutto: nonostante la mancanza di premi e punizioni efficaci, per il cittadino medio una visione cinica della cosa pubblica non è affatto razionale. Questo si può dedurre semplicemente confrontando le accuse mosse ai consiglieri regionali e l’oggetto della confessione del passante: vale davvero la pena chiudere un occhio sulla cattiva gestione di ingenti risorse della comunità per approfittare di una mentalità un po’ lassista che ci lascia parcheggiare in doppia fila? Il profondo senso civico che spinge un comune cittadino a sentirsi “ladro” per dei comportamenti in fondo banali e scusabili – come entrare con l’auto nel cortile della scuola dei propri figli – viene in un qualche modo gettato alle ortiche quando la stessa persona ci suggerisce che è tutto un fatto di posizioni più o meno dominanti all’interno della società: l’occasione fa l’uomo ladro – anche se personalmente continuo a preferire la versione un po’ severa di Frish: “Il successo non cambia l’uomo, lo smaschera”. E’ davvero razionale un mondo in cui pochi possono tentare di rubare molto e di farla franca, mentre moltissimi si devono accontentare al massimo di litigarsi gli spiccioli? Proviamo per un attimo a chiederci a chi rubino i primi e quante cose diano per scontate i secondi.
Per dirla con Bourdieu, che lo vogliamo o meno la percezione della realtà che consideriamo nostra non è meramente descrittiva, ma prescrittiva; non è una semplice fotografia, ma una narrazione che spesso tende ad autorealizzarsi. Il mio modo di vedere la società non è indipendente dalla struttura oggettiva che essa possiede e in un qualche maniera mi impone; il capitale (economico, sociale, culturale, simbolico) di un individuo condiziona la sua visione del mondo. Non si tratta di un processo deterministico – come pensava Marx – che neghi la possibilità di una retroazione del livello soggettivo su quello oggettivo, ma di uno schema di comprensione dal quale in una certa misura ci si può – e ci si deve – smarcare. Tuttavia, uscire dal “misconoscimento” della struttura di ciò che ci circonda richiede fatica.
Non è scontato che chi occupa posti di responsabilità debba abusare della propria posizione, che poiché qualche affamato ruba per mangiare un altro che si trovi diversi piani più in alto sulla piramide dei bisogni vada perdonato con leggerezza se si diverte con l’insider trading. Una volta preso atto di questo, possiamo capire quanto il paradigma della scelta razionale risulti riduttivo: l’individuo astratto su cui esso si basa non esiste, è un puro esercizio concettuale; e ci sono molte cose, nella vita di ogni giorno, che non sono spiegabili con una logica rozzamente utilitaristica (uso questo avverbio perché l’utilitarismo inteso come scuola filosofica presenta in certe sue declinazioni ben altra profondità della caricatura che spesso ne adoperano le scienze sociali). Prendiamo un esempio banale: andare a votare alle elezioni politiche. In una situazione in cui la competizione non è particolarmente tirata e l’esito del voto nella nostra circoscrizione è piuttosto prevedibile, recarsi alle urne appare sostanzialmente irrazionale – una perdita di tempo. Come ha messo in luce ormai trent’anni fa Alessandro Pizzorno, però, la costruzione di un’identità collettiva costituisce un presupposto di ogni calcolo delle utilità; quello che in un’ottica particolare appare un semplice costo, in chiave identitaria può costituire un beneficio intrinseco: sentirsi parte di una comunità.
Ecco spiegato perché aspettare di avere dei dirigenti migliori senza essere disposti a migliorare noi stessi in quanto cittadini sarebbe molto probabilmente tempo sprecato. Non si tratta di uno sforzo altruistico, ma di un tentativo di vivere in una società più soddisfacente.
Mai come in questo caso, la diagnosi ci fornisce un suggerimento sulla terapia: non possiamo lasciare chi ruba nella tendenziale sicurezza di “non essere rimproverato dagli altri”. Senza moralismi farisaici, senza puntare il dito con intenti persecutori, costruire una comunità sempre più accogliente, ma non meno attenta alla propria gestione è quello che con Profumo di Svolta vorremmo contribuire a fare. Con l’aiuto di tutti.
Franco Palazzi (profumodisvolta.it)