Riceviamo e pubblichiamo il contributo dell’architetto Renato D’Onofrio sulla Casa Cava di Matera, interpretazione di un reperto archeologico.
Apparentemente il tema può sembrare banale perché, si sa, tutte le case sono cave, anzi per una nutrita corrente di pensiero, è proprio l’interna spazialità una delle essenze dell’architettura quando ad essa si associa una dichiarata componente estetica. Qui le cose stanno in altro modo: la casa non è cava semplicemente perché esprime spazio; essa è cava o meglio, è diventata cava, perché un tempo ha fornito materiale da costruzione, cioè è stata una cava da cui si estraeva calcarenite, il cosiddetto tufo materano. Ma il gioco con le parole può continuare: una cava offre materiale per costruire case e, in virtù di tale sfruttamento, diventa essa stessa casa, appunto la casa – cava.
Certo non è la prima volta che Matera offre la suggestione di entrare nelle proprie viscere ma la situazione è diversa dal solito perché singolare è stato l’intervento di Renato Lamacchia, non nuovo a simili opere.
L’architetto ha interpretato il luogo come un objet trouvé, un oggetto che si fa riconoscere quale capolavoro accidentale e perciò suggestivo ai suoi occhi. In questo caso non è stata solo la natura a rendere attraente “l’oggetto”, ma soprattutto la semplice operazione dei cavatori che certo non immaginavano di restituire uno spazio interessante per il XXI secolo, epoca in cui tra i vari linguaggi architettonici vi è l’informale, il neo-espressionismo, il decostruttivismo e persino una sorta di ruinismo che si manifesta anche con il “non finito”. “Ismi” che questo spazio, ottenuto per sottrazione, esprime da se. Il riconoscimento di questa ricchezza linguistica ben ibridata, ha portato Lamacchia ad intervenire in maniera essenziale e la scelta di lasciarla quasi inalterata è già operazione progettuale, probabilmente la più difficile perché richiede maturità e umiltà al tempo stesso. L’architetto si è mosso con rispetto senza farsi prendere la mano, senza apportare modifiche a tutti i costi che sarebbero state inutili e dannose. Tuttavia, l’atteggiamento conservativo di Lamacchia, non è da confondere con quello di taluni che in maniera acritica conservano tutto ciò che giunge dal passato; la conservazione è stata dettata dalla interpretazione critica del luogo, non da una fede ideologica. Egli ha visto ciò che non tutti avrebbero visto proprio come quando uno scultore, trovando per caso una pietra, un pezzo di legno o di ferro, intravede una forma che porta alla luce con pochi colpi di scalpello, d’ascia, con un rapido raddrizzamento o addirittura con una semplice illuminazione su un piedistallo. La casualità delle cose, sintetizzata da Picasso con la celebre frase “Io non cerco. Trovo”, ritengo sia appropriata per capire la genesi della casa – cava in cui l’architetto realizza opere per ottenere un luogo adatto alla musica, vocazione che egli riconosce sin dal primo momento. Lamacchia pavimenta con una resina monocromatica che si armonizza al colore della calcarenite e, in corrispondenza di una cavità, realizza un plan de verre che gli consente, tra l’altro, di mettere in evidenza l’antico piano come fosse un pregiato pavimento antico; illumina le membrature “architettoniche” dopo averle pulite con spazzole e con le luci gerarchizza i luoghi enfatizzando quello centrale già segnato dalla vertiginosa altezza della copertura a “imbuto”; qui, per migliorare l’acustica, appende delle vele che contribuiscono alla bellezza estetica della “caverna”.
Nello spirito della minima interferenza, progetta poltroncine con sedute ribaltabili contenenti l’impianto di riscaldamento ventilato, discrete anche quando ospitano gente che qui si reca per ascoltare concerti musicali.
Il pavimento di resina, quello di vetro, le luci, le poltrone, ecc. sono tutti elementi minimi che contribuiscono alla caratterizzazione estetica della “caverna”, senza i quali sarebbe rimasta una interna spazialità non annoverabile tra le architetture.
Bizzarro destino quello della casa – cava che da luogo massivo e buio è diventato luogo leggero e luminoso, da luogo rumoroso e di fatica è stato trasformato in luogo musicale ed edonistico. Non è forse questa una delle tante magie dell’architettura? Non è forse questo un felice esempio di progetto quale strumento di conoscenza che, elaborando dati e idee, trasforma una cosa in un’altra, prima sconosciuta?
Architetto Renato D’Onofrio