Sabato 10 maggio 2014 alle ore 18.30 presso Casa Cava in via S. Pietro Barisano, 47 a Matera si inaugura la mostra “MATER(I)A” dell’artista Marco Palmieri. La mostra resterà aperta fino al 21 giugno 2014.
MATER(I)A è un lavoro fotografico dell’artista Marco Palmieri che presenta una serie di stampe a getto d’inchiostro, su carta cotone Hahnemuhle, montate su alluminio Dibond, dai diversi formati.
La serie MATER(I)A è pensata ad hoc per essere presentata nella complessità storico-urbana di Matera.
Il suo sviluppo si svolge in un panorama metaforico simile a quello della Città dei Sassi per complessità e stratificazioni. Il tema della serie è la ricerca su di un tipo di materia dall’apparenza granitica, ma nella realtà di forte caducità, creata ad arte, come una maquette, dall’artista-architetto.
L’utilizzo della fotografia, qui come in altri lavori di Palmieri, è finalizzato al raggiungimento di un significato diverso dalla raffigurazione del reale. L’allestimento di un set fotografico, con luci ed ombre proiettate su volumi realizzati dall’artista, trasporta il lavoro verso una ricerca sulle preminenti qualità di spazio e di relazione
fra le parti messe in scena. La fotografia è funzionale alla restituzione ad immagine dello spazio plastico conformato dall’autore. La trasformazione di superfici piane in volumi e la loro successiva riduzione a stampe bidimensionali aumenta il senso di precarietà e di continua mutabilità dell’opera in fieri.
Il rimando a Matera è forte, in particolare alla sua architettura basata su sottrazioni, innestate da piccole ma significative addizioni, insieme alla continua commistione fra vernacolare e monumentale, che lascia pensare all’idea di un’archeologia fuori dal tempo, anche alla base del lavoro di Palmieri.
CasaCava, situata nel Sasso Barisano, è stata pensata e ristrutturata come Centro di produzione culturale in uno spazio ipogeo all’interno di un’antica cava a pozzo per l’estrazione del tufo. Quest’ultima attraverso una serie di cavità laterali si riconnette attraverso dei vani con una corte che ne segna l’accesso. Nell’auditorium,
allestito all’interno dell’invaso della cava, sono ancora distinguibili i segni dei piani di taglio della pietra, eseguiti in maniera visibilmente manuale nel corso dei secoli [foto in allegato: Piermario Ruggeri].
La mostra presso CasaCava a Matera si prefigge di compiere un ideale passo di avvicinamento fra Matera e l’Europa in previsione della candidatura di Matera a Capitale Europea della Cultura 2019.
Il tema dell’urbanistica europea è molto vicino al lavoro di Palmieri che compie un’indagine sulla materia dell’abitare. Le realtà puntiformi del viversi accanto e dell’unirsi in piccole realtà a grappolo diffuse nel territorio, indagate nel lavoro dell’artista, sono cifre caratteristiche del tessuto urbano europeo. L’attuale evoluzione
dell’Europa tende verso una visione d’insieme in cui le singole città incominciano ad essere percepite non più come monadi, o unità autonome, ma come parte di una fitta rete. La facilità di movimento permette un cambio di scala che fa percepire l’insieme dell’Unione Europea come un corpus unico paragonabile ad un’enorme area metropolitana caratterizzata da singoli “quartieri/città”.
Marco Palmieri, artista e architetto napoletano, vive e lavora a Milano. La sua formazione dopo gli studi a Napoli, la pratica professionale a Parigi, l’insegnamento a Dublino, si completa a Milano come ultimo e più stretto allievo di Ettore Sottsass.
Palmieri inizia ad esporre le sue opere nel 2008 a Milano nella galleria d’arte di Antonia Jannone, per poi proseguire a Parigi alla Galerie du Jour di agnès b., a Napoli con una mostra presso il Castel dell’Ovo, a Bologna nell’ambito di Arte Fiera e in altre sedi, raggiungendo così un sempre più vasto pubblico di critici e collezionisti che segue attentamente il suo lavoro.
Simulacri di teatralità
“Ad Argo c’era un tale, seduto nel teatro vuoto, ad applaudire, immaginando di vedere mirabili tragedie”. Scrive più o meno così Orazio, che cito a memoria: il teatro di cui racconta era però collocato, se non ricordo male, in un “campo per malati”, ovvero in un ospedale, un luogo di purificazione dal malessere, un “sanatorio” senza medicine, dunque. Un tempio della catarsi, al pari del teatro, come bene ci ha fatto comprendere Aristotele: il teatro di Argo, vuoto di attori, contribuiva a guarire il malato; qui il cittadino di Argo partoriva dalla sua psiche le visioni malsane che ne turbavano l’equilibrio interiore.
Dunque, lo spettatore proietta sul palcoscenico vuoto i propri dilemmi, i propri sogni. Così non è soltanto il palcoscenico a produrre visioni, esse sono create e “portate” anche dallo spettatore. Ed è da questo incontro che sboccia, potente, quell’esperienza che da duemilacinquecentoepassa anni chiamiamo Teatro. Teatro come occasione di conoscenza, esperienza di vita che fiorisce nel confine, in quella zona limine, fra pieno e vuoto, vita e nulla, cielo e terra, fra verità e finzione – finzione che è poi a sua volta verità, ovvero lacerto di realtà al quadrato, se così possiamo dire: l’attore vivente dà vita a un personaggio, ovvero a un altro essere umano vivente, “attore” a sua volta sulla scena della vita, comparsa del Teatro del Mondo.
I piccoli ambienti teatrali, miniature di scene, immaginati da Marco Palmieri – così drammaturgicamente votati al teatro, simulacri di teatralità –, rendono tangibile il senso più intimo dell’affaire teatro. Giocando con misure quasi millimetriche, questo artista-architetto, poeticamente visionario, con piglio spiazzante proprio perché naturalmente semplice, crea ambienti essenziali, scarni, vuoti. Epperò significanti. Vuoti al tal punto da catalizzare la nostra tensione, la nostra attenzione, facendo sbocciare da questo incontro fra occhio e ragione, visione e sentimento, un fluire libero di associazioni.
Gli incastri di piani grigi, bianchi, neri; i tagli di luce e ombra; gli ambienti quasi metallici, plumbei, e allo stesso tempo diafani e metafisici ci chiedono di essere riempiti di vita. Fosse soltanto la vita offerta dal nostro sguardo e dal nostro respiro. Ecco, io percepisco subito l’aria in questi ambienti vuoti. Da qualche parte essa, il soffio della natura, il refolo del fuori, vi penetra. Vi aleggia.
Trattasi pienamente di Specie di Spazi, per dirla con Georges Perec, che immagino abitati da personaggi creati dalle penne di Samuel Beckett, Heiner Müller, Thomas Bernhard, autori di opere in cui il Silenzio, la Sospensione, l’Immobilità, il Vuoto, il Nulla, rappresentano principi fondanti le rispettive drammaturgie – metafisiche, feroci, vibratili, sorprendenti, potentissime epifanie.
Sentite cosa annota Müller in Traumtext. La notte dei registi: “L’ultima immagine è una camera sepolcrale su cui cade dall’alto una luce polverosa, alle pareti scaffali con cassetti, nei quali sono stipati uomini, nudi. Donne in grigio vanno dall’uno all’altro masturbandoli, come si mungono le mucche…”. Bunker, nosocomio, cimitero, stalla, prigione, lager o cos’altro ancora?
Nella mia mente questi lirici spazi scenici fatti di poco, creati con nulla, figli di un gioco tanto puro quanto pieno di senso, si trasfigurano anche in ambienti che riverberano della scrittura lancinante di Sarah Kane, e perché no, andando un secolo addietro, di Ibsen o del nostro Pirandello. Spazi di senso, che parlano, che significano di per sé. Gabbie neutre e all’apparenza leggere che amplificano parole, azioni, presenze. Solitudini, certo, di esseri muti o monologanti; ma anche dialoghi ghiacciati e velenosi, scariche elettriche che saettano nel vuoto fra un personaggio e l’altro, dando consistenza all’aria e al vuoto.
Riaffiora dalla memoria l’atmosfera inquieta di Nella solitudine dei campi di cotone di Bernard-Marie Koltès, e a seguire la mirabile regia e interpretazione di Patrice Chéreau, colonne del teatro francese degli ultimi decenni, entrambi scomparsi troppo presto. E, ancora a seguire, il Teatro dei Satiri di Roma ribaltato da Arnaldo Pomodoro in un eloquentissimo non-luogo per lo spettacolo diretto da Cherif nel 1992: spazio di inquietudine metafisica, ring per il “finale di partita” fra due uomini, venditore e cliente di non si sa quale trattativa.
Accogliendo il flusso delle associazioni, le stanze di Palmieri, evocano inoltre le scenografie di Richard Peduzzi per tanto teatro, anche lirico; le scene di piani in chiaroscuro di Maurizio Balò; i ritratti fotografici in bianconero di tanto, certo teatro realizzati da Maurizio Buscarino.
E che direbbe Pina Bausch di questi microambienti che evocano quelli creati per lei da Peter Pabst?
Cafè Müller naturalmente, ma anche la balera di Kontaktof, ma anche le pareti-prigione di Barbablù, con le sue donne immolate, in sottovesti e dai capelli sciolti, appese a vertiginose pareti.
Ebbene, è questa la funzione di queste opere, impressioni fotografiche di ministanze abbandonate dalla vita, sepolcri vuoti, o pronti a riaccogliere nuovamente la vita con altre presenze, altre storie, altri abbracci o abbandoni o scontri fisici violenti e furiosi: evocare.
Possono essere anche considerate ambienti-celle per esperimenti, come fossimo in un laboratorio scientifico nel quale indagare l’esistenza degli esseri umani; e, ancora, architetture d’interni da vedere attraverso prospettive assonometriche molteplici, dall’alto, di lato, da sotto, grazie a pareti di vetro, o diaframmi dissolti per scrutarvi ciò che agli uomini accade.
“Se guardo a volo d’uccello nel suo insieme e ingenuamente l’istituzione teatro, osservo questa stranezza: degli uomini, che tutto il giorno partecipano alla vita, tutte le sere, a migliaia, si radunano per vedere com’è la vita, per vedere quel che loro avviene”, annotava un secolo fa l’ungherese Béla Balàsz.
Sono dunque e infine Teatrini Metafisici queste creazione di Palmieri: emblemi potenti del vuoto, del nulla, dell’assenza, eppure tracce e simboli d’esistenza. Minuscole, essenziali, minimali scene di vita in potenza. Semi di visioni ulteriori.
Bene, ora, gentile visitatore, caro spettatore, complice lettore, tocca a te giocare a questo benefico esercizio di proiezione, di fantasia, di visione. Lasciati smarrire in questi piccoli ambienti, così chiusi in sé che subito dopo ci lanciano nella più piena libertà di un fuori, di un altrove, che è potentemente un dentro. Un dentro di senso. Il nostro.
Antonio Calbi