Un viaggio nel passato per ricostruire la propria storia letteraria e per riflettere sulla propria scrittura. Un pubblico numeroso ha ascoltato con grande empatia la testimonianza di Raffaele Nigro, ospite nella Casa delle Muse di Leonardo Sinisgalli, a Montemurro, durante la presentazione de Il custode del museo delle cere (Rizzoli, Milano 2013). A discuterne con l’autore, il giornalista Rai, Rocco Brancati, e il direttore della Fondazione, Biagio Russo.
Il viaggio nel percorso personale e letterario di Nigro è scaturito proprio dal suo legame con la Basilicata, «una terra che si ama davvero solo quando da essa ci sia allontana, quando cadono le ragioni per non amarla e si innescano invece i ricordi ancestrali». Una terra che è stata il cuore della Magna Grecia, che ha dato i natali a grandi poeti come Sinisgalli, Pierro, Scotellaro, Trufelli, che è abitata da genti il cui tratto distintivo è l’onestà (sebbene oggi sembra che essa vada un po’ scemando a causa della cultura imperante dell’usa e getta). Su questa terra, così come sul valore e il senso dell’esistenza intera, Raffaele Nigro si è interrogato attraverso lo strumento della scrittura narrativa, dando vita a dei testi che mirano a ritagliarsi uno spazio nella storia della letteratura.
I fuochi del Basento sconfessarono l’immagine statica della Basilicata tratteggiata da Levi, quella di una società eternamente bloccata da un feudalesimo intramontabile, mostrando invece il salto dal proletariato a una nuova condizione sociale, frutto delle rivolte dei contadini che occuparono le terre e convinsero i politici a fare la riforma fondiaria. Con Viaggio a Salamanca – continua Nigro nella disamina – la riflessione si incardinò su come la letteratura profonda potesse entrare nel cuore di uomo e cambiargli i connotati, divenendo quasi un fantasma cui aggrapparsi. In Ombre sull’Ofanto si cercò di rappresentare una ricostruzione antropologica dell’avvento della camorra in territorio lucano. Malvarosa fu invece il tentativo di evidenziare una certa forma di delinquenza latente che si annida nel fondo dell’animo del lucano e che si trasforma in familismo e clientelismo. La baronessa dell’Olivento rappresentò metaforicamente la lotta di una vita intera contro un destino che alla fine si fa beffa anche dell’eternità. Dio di Levante dipinse l’uomo come una specie di “loculo vivente” nel quale confluiscono tutte le esperienze e gli insegnamenti di coloro con cui è stato in contatto il genere umano.
Rispetto alle opere passate, invece, Il custode del museo delle cere rappresenta un nuovo punto di approdo della riflessione esistenziale di Raffaele Nigro: nasce, infatti, dall’unione di vari monologhi destinati a finalità diverse e incentrati su singoli personaggi storici, accomunati da un senso tragico della Storia. L’elemento unificante fra i vari monologhi diventa la riflessione sulla fine di un’era: l’opera è, infatti, pervasa dall’interrogativo su cosa possa accadere in futuro e quale sarà l’atteggiamento delle giovani generazioni. Il dilemma è eterno: conservazione del passato o completa rottura con esso?
Per rappresentare questo tema Nigro ha scelto due metafore molto esplicite: il museo delle cere, dove grandi personaggi del passato tentano ancora di raccontare la loro storia, sebbene siano delle statue destinate prima o poi a sciogliersi, e l’anziano nonno del giovane protagonista, ex socialista, militante in gioventù e grande idealista, che costringe il nipote distratto dai suoi impegni ad accompagnarlo nella visita al museo.
È l’immagine del ricambio generazionale e più in generale dell’alternarsi nel corso dei secoli delle società. Questa trasformazione porterà un arricchimento o un impoverimento per l’umanità? Per Raffaele Nigro la risposta è che l’utopia non deve mai morire: il mondo si rinnoverà sempre grazie a chi verrà dopo e riuscirà a salvare ciò che è stato prima. Anche se l’eternità, forse, non esiste.
Lug 26