Riportiamo di seguito una nota di Teresa Russo sul tema “caldo” affrontato dal Governo Renzi: job act, art 18 di e i modelli economici a cui fa rifermento.
Il job act proposto dal governo Renzi, per far ripartire il mercato del lavoro, è solo l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di riforme e “contro riforme” che negli ultimi anni hanno reso il mercato del lavoro italiano un ginepraio di norme incomprensibile ai più , tanto per i datori di lavori quanto per i lavoratori, rendendolo di fatto non adeguato ai cambiamenti sociali e dell’apparato produttivo – la quantità di valore aggiunto prodotto in un’ora di lavoro è inferiore ad altri paesi – e dall’altra eccessivamente ingessato e istituzionalizzato – alta protezione dell’impiego, per alcune categorie e ruolo eccessivo di una burocrazia lenta e demotivata.
La crisi economica ha avuto un impatto notevole sul mercato del lavoro italiano rendendo necessarie una serie di misure che, in qualche modo, potessero favorire crescita occupazionale, ciò è stato determinato dalla incapacità di una governance miope ai cambiamenti strutturali e alla opposizione delle organizzazione dei lavoratori.
Quello che si più messo in discussione è stata la modalità di licenziare più di quella di rendere appetibile assumere. Con molta probabilità, il ragionamento è stato questo: un mercato del lavoro con una elevata flessibilità in uscita ha maggiori possibilità di creare posti di lavoro.
Oggi scontiamo una riforma del mercato del lavoro che è stata interessata da vari interventi legislativi nel tempo, tanto da creare un mostro bicefalo, perché una parte dei lavoratori è iper protetta ed un’altra priva di qualsivoglia tutele, costruita cercando convergenze condizionate con altri sistemi economici e sociali e, cosa ancor più pericolosa, tentando di costruire un nuovo modello economico e sociale sulle fragili gambe di walfare state imploso.
Il governo cerca di imitare il modello tedesco e danese come se fosse la giusta soluzione per superare l’inadeguatezza storica del nostro mercato del lavoro e ridare vitalità un mercato asfittico e stagnante. Spesso, però, non si tiene conto del fattore antropologico proprio di ogni paese e della sua organizzazione del lavoro.
Tanto la Germania quanto la Danimarca, paesi a cui l’Italia guarda con attenzione, hanno cominciato un proprio percorso di riorganizzazione del mercato del lavoro quando noi Italiani ancora non sapevamo che la nostra crescita economica fosse basata sul forte indebitamento dello Stato.
Così oggi ci ritroviamo a pensare che, probabilmente, la rimodulazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e, una revisione complessiva dello stesso, sia la chiave di volta che può tenedere insieme le riforme strutturali che, complessivamente, dovrebbero dare nuove gambe all’Italia per ripartire.
Spesso è stato riportato con eccessiva approssimazione che il problema del mercato del lavoro italiano sia legato ad un’eccessiva protezione all’impiego, e l’art 18 rientra nel novero di queste tutele oltre ad avere un valore simbolico, non per i sindacati.
L’art 18 costituisce anche la linea di demarcazione tra lavoratori delle piccole e medie imprese VS grandi imprese, nuovi assunti e precari VS lavoratori a tempo indenterminato.
Modificare l’articolo 18 vuol dire quindi intervenire su uno dei tre pilastri della flexicurity.
Il sistema delle tutele è il secondo e fondamentale elemento. Su questo il mercato del lavoro italiano è fortemente duale, perché prevede la Cassa Integrazione per gli occupati delle imprese con almeno 15 dipendenti e modesti sussidi per tutti gli altri.
Ed oltre ad essere duale, il sistema è anche poco avanzato, nel senso che il sussidio non è vincolato alla ricerca attiva di un lavoro o di una formazione, così come avviene in Danimarca.
Secondo, dati OCSE infatti, l’Italia è il paese in cui queste forme di controllo sono meno sviluppate. In paesi come la Danimarca invece, è obbligatorio per il disoccupato stilare insieme al job counsellor ( Consulente degli uffici del lavoro) un progetto di ricollocamento sul mercato, progetto che prevede un monitoraggio periodico con tanto di presentazione di prove dell’avvenuta ricerca di lavoro.
L’importazione della flexicurity passa quindi attraverso la semplificazione dei contratti e delle tutele tramite la creazione di un sistema omogeneo: contratto unico e sussidio unico, sussidio tra l’altro vincolato alla formazione o alla ricerca di una nuova occupazione.
Da questo punto di vista, la negoziazione tra le parti sociali potrebbe essere incredibilmente semplice: si tratta non tanto di ridurre le protezioni sul lavoro, ma di ridistribuirla più equamente tra tutti i lavoratori, ottenendo in cambio forme di tutela del reddito universali. In altri termini non difendere il “posto fisso” ma la sicurezza di un reddito e di trovare un altro lavoro.
Sulla questione della tutela dell’occupazione si innestano le politiche attive, terzo elemento della ricetta danese. L’obbiettivo delle politiche attive è di facilitare la transizione disoccupazione-lavoro attraverso diversi tipi di interventi: job sharing, training creazione diretta di posti di lavoro, incentivi per le assunzioni e per la creazione di imprese.
Questo è anche lo scoglio più grande per l’Italia, per due motivi. Da un lato la mancanza di risorse: la spesa per politiche attive in Italia è di 2,600 euro all’anno per disoccupato, contro una media danese di 14,800. Ma questo non è neanche lo scoglio più grande. La vera sfida è in realtà trasformare i Centri per l’Impiego (i vecchi Uffici di Collocamento) in vere e proprie agenzie capaci di: monitorare la domanda di lavoro locale; Aiutare i disoccupati a inserirsi in questa; E dove l’inserimento non è possibile perché le competenze del disoccupato sono obsolete, organizzare formazioni in accordo con le imprese.
Da ciò si capisce che discutere solo di articolo 18 decontestualizzandolo da un sistema di riforme più complessivo è, quindi, totalmente fuorviante. Così come è interessante oltre che fuorviante voler innestare nel nostro sistema sociale parte del modello organizzativo tedesco, perchè dal punto divista delle politche del lavoro il sistema italiano ha arretratezza che potrebbe essere paragonabile a quello della Grecia che alla germania o alla danimarca.
E’ innovativo il confronto e quindi il job act, complessivamente inserisce regole che dovrebbero tendere a semplificare l’inserimento lavorativo non ha scapito della tutela dei lavoratori. Di contro deregolamentando troppo il mercato del lavoro, c’è il rischio concreto di indebolire la posizione del lavoratore nella ricerca di una occupazione.
Quindi, oltre al modello danese e il modello tedesco, ai quali si ispira il primo ministro Renzi,con la fallace idea che il job act potrà avere nell’economia italiana lo stesso risultato della riforma Hartz, che ha avuto in Germania nel 2005, momento in cui la situazione economica dell’area euro era completamente diversa, dobbiamo valorizzare le nostre peculiarità nazionali.
La Germania, inoltre, è stata interessata da una profonda ristrutturazione del sistema delle protezioni sociali e delle politiche attive per il lavoro, con conseguente calo della disoccupazione.
Il calo della disoccupazione è da ricondurre direttamente all’organizzazione del lavoro stesso, alla riduzione delle riserve di manodopera e ad un rallentamento della nello sviluppo della produttività e la riduzione delle ore di lavoro tra più persone. Questo modello organizzativo, a cui si aggiunge, la riforma dell’età pensionabile, con l’abbassamento dell’età per andare in pensione, vi è un sostanziale indebolimento della contrattazione collettiva a favore di una contrattazione decentrata.
Per quello che riguarda la flessibilità del lavoro nel sistema tedesco, in termini di licenziamento e reintegro, il sistema tedesco non appare meno protettivo di quello italiano, anzi , a prima vista sembra addirittura più protettivo , anche se c’è una maggiore discrezione decisionale del giudice nel dichiarare se un licenziamento è illegittimo o meno. E, anche nel caso di vittoria del lavoratore, è sempre del giudice la decisione in merito al reintegro o meno del lavoratore, a cui poi spetta un indennizzo monetario..
Da qui si evince che pur mutuando il modello tedesco, questo non può ritenersi completamente appropriato a ciò che succede in Italia poiche le controversie giudiziarie in Germania non durano mai più di 12 mesi e, difficilmente, superano il terzo grado di giudizio. Tuttavia, in caso di ricorsi al tribunali non giustificati i costi posti a carico dei lavoratori sono pesanti, infatti si privilegia di più l’arbitrato che il processo. Ed è questa la strada da intraprendere.
Teresa Russo