Giovedì scorso presso Palazzo Lanfranchi è stato promosso un incontro inaugurale di possibile percorso per Matera 2019 e per l’Europa e il Mediterraneo. Linguaggi, comunità, narrazioni e futuro sono le parole chiave dell’incontro denominato “Parole che feriscono..parole che curano”.
Si partirà dalla memoria (quelle tragiche recenti dei fatti di Parigi, ma anche quelle del giorno della Memoria del 27 gennaio) per arrivare al futuro. In una conversazione con Federico Faloppa, linguista dell’Università di Reading e autore di ‘Razzisti e parole’ (Laterza), ci interrogheremo, attraverso anche una serie di letture con ragazze e ragazzi, sui nostri linguaggi e le nostre relazioni di comunità.
Da qui, insieme alle scuole, alle associazioni che si occupano di migranti (Lunaria, Tolbà, Il Sicomoro, Osservatorio Migranti Basilicata), di letteratura (Energheia, Matera Letteratura), di giornalismo (Federazione Nazionale Stampa Italiana) e librai (Libreria dell’Arco), vogliamo iniziare un percorso per ripensare e costruire la comunità attraverso le parole.
Riportiamo di seguito il commento filosofico di Franco Vespe, che ha partecipato giovedì scorso all’iniziativa “Parole che feriscono..parole che curano”.
Sconcertanti sono stati i contenuti trasmessi del Prof. Falloppa nell’evento di giovedì sscorso. Voleva essere una manifestazione in favore del dialogo e dell’apertura culturale fra i popoli anche alla luce degli ultimi avvenimenti tragici di Parigi e, soprattutto, una prima tappa di un percorso in vista di Matera2019 che avesse il grande pregio di andare a rafforzare il dossier CEC proprio per gli aspetti multi-culturali non adeguatamente sviluppati, come ha fatto rilevare il rapporto della Commissione Europea. La discussione ovviamente è caduta sulla negatività delle identità basate su fattori etnico razziali e sulle parole che si usano per veicolare le alterità. Fino a qui le cose dette si sono mantenute accettabili e condivisibili. Le cose sono precipitate invece quando si è passati a demolire il senso e l’opportunità di avere identità collettive: ogni forma di identità. Il sillogismo francamente nient’affatto condivisibile è quello che la colpa di ciò che è successo a Parigi è della cultura e degli interessi del mondo occidentale che inasprisce lo scontro identitario (razzista) con le altre culture. Condita questa tesi con un florilegio di rozze citazioni leghiste (non ci vuole molto a far bella figura e sentirsi buoni rispetto agli imbecilli!). Ergo demoliamo ogni forma di identità, ogni mito “del confine” da proteggere e rendere inviolato che è alla base di questo percepito conflitto con altre culture dichiarato dalla illuministica, oscurantistica, giudaico-cristiana cultura europea. Ovviamente questo sul suolo europeo. Non sia mai detto esigerlo anche nei paesi nei quali la rivendicazione identitario-religiosa è disposta a ricorrere con disinvoltura alla violenza giureconsulta Mufti. Arriva l’ineffabile a citare brani di “guerra santa”, simmetrici a quelli contenuti nel Corano (Se lo leggessero per bene. Capirebbero che appaiono conseguenziali le cattive interpretazioni in chiave fondamentalista ) proferiti da cristiani europei contro gli islamici quasi a comprovare la simmetricità delle due culture; salvo poi ad ammettere a denti stretti che sono frasi risalenti al XIII secolo (ad occhio circa mille anni fa). Tesi raccapricciante quella della destrutturazione delle identità delle diverse comunità che cancella, ignora o nega ideologicamente ciò che la socio-economia Weberiana ha permesso di acquisire in questo ultimo secolo. Secondo questa dottrina il successo economico di una società è legato a quel complesso di valori etici, culturali religiosi condivisi, sui quali si fonda la sua convivenza e la sua identità. Oggi si ama efficacemente chiamare questo bagaglio etico-valoriale risorsa sociale. Chi parlava evidentemente ignora che l’unica difesa rispetto a quei processi omologanti propri della globalizzazione in atto guidata dalle grandi multinazionali interessati a disgregare la risorsa sociale, è proprio quella di rendere maggiormente resilienti le identità e le diversità fra i popoli. La frammentazione dell’identità di una persona si chiama schizofrenia. La frammentazione identitaria di una società produce una schizofrenia sociale ancora più devastante. Per esempio Pino Aprile con i suoi libri Terroni ha ampiamente dimostrato quali sono stati i terribili guasti che quei meccanismi psico-sociali di frantumazione dell’identità del Mezzogiorno hanno prodotto dall’unità d’Italia ad oggi. Una chiosa particolare va fatta sulla riflessione fatta dal Prof. Emmanuele Curti. A corroborare la tesi che la responsabilità primaria della creazione di fondamentalismi (islamici) nel mondo siano dovuti alle società occidentali, a suo dire, c’è quel selfie serale fatto dal terrorista che poi il giorno dopo occupò il supermercato ebreo. In quel selfie c’è tanto di occidentale a suo dire. Ha perfettamente ragione. Pochi si sono soffermati a riflettere che probabilmente il motore che ha portato a quelle stragi è proprio il disagio sociale che si sta amplificando nelle “banlieue” parigine. Quartieri senza alcuna identità, nei quali la frantumazione sociale è sempre più devastante ed i processi di appartenenza sempre più labili. Nel film “un boss nel salotto” Rocco Papaleo si finge appunto boss della Camorra. Spiega poi questa finzione ammettendo che, abbandonato da tutti e da tutto, voleva comunque appartenere a “qualcosa”. Quei terroristi cresciuti nelle Banlieue volevano dimostrare di appartenere a qualcosa. Questo deve far capire a Falloppa & C. che la soluzione non può essere la frantumazione delle identità. Anzi! Occorre rafforzarle e valorizzarle. Certo bisogna educarle al dialogo (ma vale per quelle non europee!), renderle disponibili a “perdere” qualcosa per conseguire un bene più grande. Contaminarsi senza paure e tensioni. Ma pretendere che arretrino unilateralmente o si sottraggano al dialogo scomparendo, come auspica Falloppa, è una schizofrenia assolutamente da evitare.