Il giornalista materano Nino Grilli torna ad occuparsi di un problema che affligge anche la giustizia italiana, quello legato alla durata dei processi. In proposito Grilli propone un’analogia tra il caso che riguarda l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia e una vicenda giudiziaria tutta materana che ha coinvolto la redazione de “Il resto”.
Da Perugia a Matera, per la giustizia cosa cambia?
Nino Grilli
Correva l’anno 2007 quando scoppiò un caso eclatante a Perugia con l’omicidio di una giovane studentessa. Era il mese di novembre di quell’anno. Dopo circa otto anni i presunti colpevoli sono stati assolti. La giustizia ha trionfato? Oppure no? E’ difficile dare una risposta a questo interrogativo. Di certo c’è che la giustizia nel nostro Belpaese lascia sempre penosi strascichi e parecchi dubbi e perplessità. Era il mese di luglio di quello stesso anno quando a Matera si verificò un episodio piuttosto eclatante per una piccola realtà cittadina. Squadre di poliziotti fecero irruzione nelle case di alcuni giornalisti, di alcuni loro parenti e nella redazione di un settimanale (Il Resto) . Altre squadre furono impegnate anche nella vicina Altamura e persino nella redazione della Rai 3. Perquisizioni a tappeto, sequestri di attrezzature e materiale informatico (poi immediatamente restituito) con un’azione condotta in maniera piuttosto spregiudicata se non addirittura invadente (manco ci fosse stato da incastrare mafiosi del calibro di Riina o Provenzano), manco si trattasse di sottoporre a perquisizione veri e propri delinquenti e chissà per quale recondito reale motivo. In realtà il tutto scaturì da un provvedimento giudiziario, emesso da un PM del tribunale di Matera (Annunziata Cazzetta), che conteneva attribuzione di gravi presunti reati: associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa, al fine di contrastare la candidatura di Emilio Nicola Buccico a sindaco della città di Matera. A sostenere e lamentarsi delle ipotesi di accusa era stato infatti l’avvocato materano che si era sentito leso nella sua illustre figura dal contenuto di diversi articoli pubblicati sul predetto settimanale. Ma non solo, la stessa PM, all’interno dello stesso provvedimento formulò anche altra accusa ancor più grave: minaccia a mano armata nei riguardi sempre dello stesso personaggio querelante. Nel frattempo sono trascorsi otto anni in cui i giornalisti, definiti come appartenenti a un’associazione a delinquere di diffamatori a mezzo stampa, definiti allo stesso modo da una compiacente stampa locale, sono stati costretti a difendersi in aule di tribunali di quasi tutto il Centro sud d’Italia. In verità non è stato il solo procedimento giudiziario che hanno dovuto affrontare. Anche altri emeriti personaggi, tra cui politici e magistrati hanno rivolto accuse, di tipo similare, in contemporanea, quasi come si fosse trattato di un’azione convenuta tra di essi, ai giornalisti in questione, evidentemente ritenuti oltremodo scomodi, con procedimenti, tutti di matrice penale, in quantità piuttosto considerevole e in maniera così copiosa, per presunto detrimento alle loro esimie personalità e alle illustri pubbliche funzioni che esercitavano. Vennero così fuori fior di querele e conseguenti processi che nemmeno i due succitati Raffaele Sollecito e Amanda Knox hanno dovuto affrontare nella loro triste vicenda per giungere al recente verdetto finale. E dopo circa otto anni (per i giornalisti) la vicenda non può considerarsi ancora conclusa, sebbene molte cose sono cambiate a loro favore, pur se tristemente etichettati come “delinquenti e diffamatori”. E’ stata, infatti, sentenziata come del tutto inesistente l’accusa di associazione a delinquere, mentre la famigerata accusa di minaccia a mano armata è stata sentenziata come del tutto improponibile. In particolare la vicenda, molto grave nella sostanza, della cosiddetta minaccia a mano armata, nella sua formulazione redatta dal PM Cazzetta è stata oggetto di vera e propria derisione, oltre che incredulità, da parte degli organi giudicanti, in qualsiasi aula di tribunale in cui è stata esaminata nel merito. Decine di volte, inoltre, nelle varie aule di tribunale le sentenze emesse di volta in volta, per ogni singolo procedimento, hanno continuamente scagionato i giornalisti dalle accuse mosse nei loro confronti. In buona sostanza dopo circa otto anni ci si ritrova al cospetto di accuse inesistenti e addirittura improponibili. Situazioni queste che, pur così definite, non hanno mai trovato alcun riscontro nell’informazione locale. Diversamente da quelle note infamanti, oltre che assolutamente fuori tempo e luogo, proposte e sposate in pieno da alcuni compiacenti quotidiani locali, con pubblicazione di pagine intere e locandine affisse nelle edicole, a sostegno degli esimi querelanti e a evidente nocumento per i giornalisti. La differenza sostanziale tra il delitto di Perugia giunto a una conclusione definitiva e quella dei giornalisti, così definiti “diffamatori” è che in terra umbra c’è stato un omicidio, mentre nella vicenda materana si continua a ragionare e a tenere sotto accusa i giornalisti sul “nulla”. Il “nulla” fin dal primo momento, da quando cioè i solerti poliziotti furono spediti inopinatamente nelle case e nelle redazioni all’inizio della vicenda; il “nulla” dagli oramai numerosi esiti dei procedimenti giudiziari condotti finora a termine; il “nulla” nella consistenza degli addebiti mossi; il “nulla” da parte dei quotidiani locali nell’interesse e a difesa della libertà d’informazione; il “nulla” anche da parte dell’Ordine di giornalisti della Basilicata che non ha mai inteso nemmeno prendere in considerazione un minimo di tutela (non di difesa intesa come giudiziaria) nei riguardi di suoi iscritti. Rimane, invece, del tutto palese e in bella vista la penosa suscettibilità di coloro che, credendosi intoccabili, in maniera piuttosto misera, credono di poter soggiogare la pubblica opinione alle loro millantate autorevolezze. Credendosi vanitosamente importanti, non riescono a comprendere di essere solo dei semplici e comuni mortali. Ricorrendo a ingannatrici melliflue azioni riescono a far credere quello che in realtà non sono affatto, anche se nella realtà virtuale riescono a emergere per la limpidezza dei loro ingannevoli comportamenti. Beata ingenuità, a tal proposito, di chi preferisce farsi circuire da coloro che immeritatamente si fanno credere limpidi e onesti e non riescono a comprendere chi, senza tema di smentita, magari portando prove e fatti incontestabili, dimostra di esserlo veramente. Intanto non rimane che congratularsi con Raffaele e Amanda. Per loro lo stillicidio giudiziario sembrerebbe giunto al termine. Per il giornalisti il “nulla” continua a pesare non solo sui loro pensieri, ma anche sulle loro scarse risorse economiche. La battaglia, intanto, prosegue. Non bisognerà mollare mai! La verità trionferà? Chissà!