Matera piange la scomparsa di Giacinto Padula, che si è spento all’età di 92 anni. L’imprenditore legato ad una storica famiglia materana è conosciuto nella città dei Sassi per il suo investimento nel campo molitorio e per la produzione della “Pasta Padula”. La famiglia guidata da Giacinto Padula ha gestito lo stabilimento del Mulino Alvino dal 1936 al 1946. Suo fratello Francesco è stato anche sindaco di Matera. I funerali di Giacinto Padula si terranno alle ore 10,30 nella chiesa di San Francesco.
Alla famiglia di Giacinto Padula le condoglianze della redazione di SassiLive e del direttore responsabile Michele Capolupo.
Mercoledì 20 maggio alle ore 13 Roberto Linzalone nel corso dello spettacolo intitolato “A pane e acqua”, nello spazio espositivo della Regione Basilicata all’Expo 2015 di Milano, renderà omaggio proprio a Giacinto Padula, “il re pastaio” che ha portato gloria e onore da Matera nel mondo.
Cordoglio di Confapi Matera per la scomparsa di Giacinto Padula. “Non siamo stati in grado di salvare l’industria molitoria, né di preservarne la memoria”.
Confapi Matera esprime cordoglio e commozione per la scomparsa di Giacinto Padula, novantaduenne imprenditore della pasta e ultimo esempio vivente dell’industria molitoria a Matera.
Proprio mentre si festeggia la proclamazione della città come capitale europea della cultura per il 2019, Matera mette una pietra tombale su quella che un tempo era una florida attività economica e imprenditoriale, che per tanti anni ha caratterizzato l’economia materana.
La cessione a Barilla, la conseguente chiusura dello stabilimento di via Cererie e, nel corso degli anni, lo smantellamento di tutti i vecchi mulini di Matera, quasi a volerne cancellare definitivamente la memoria, erano appena rischiarati dall’esistenza in vita di Giacinto Padula, quasi a monito dei fasti di un tempo.
Adesso, la scomparsa del “re pastaio” lascia una scena vuota e desolata, dove si è consumata una storia gloriosa che tutti quanti noi, indistintamente, non abbiamo saputo rinnovare dal punto di vista imprenditoriale, né eternare conservandone la memoria nei manufatti – i mulini – dove essa si è compiuta.
Confapi Matera porge le condoglianze alla famiglia di Giacinto Padula.
Tonio Acito ricorda Giacinto Padula
Ho conosciuto Giacinto Padula e del verbo “conoscere” faccio, in questo caso, una declinazione un po’ speciale perché io ho incontrato Don Giacinto in due momenti importanti della mia vita di uomo e di architetto.
Il primo vero scambio di esperienza di vita l’ho avuto quando lui e suo fratello Francesco (già Sindaco di Matera), mi hanno “convinto” ad acquistare la casa avita di Via Ridola perché il loro sogno era di vederla aperta alla visita, almeno di chi avrebbe frequentato il mio studio di architettura. Mi hanno parlato della loro infanzia, del gioco dell’uovo sotto i lampioni esterni, delle zone “paurose” della loro casa da bambini (una soffitta stenditoio).
In quei giorni, in questo loro palazzo c’era ancora l’ufficio che “sapeva di farina”, dove custodivano fatture e documenti di quella che era stata la fantastica azienda pastaia “Padula pasta di Matera”. Mi parlavano della loro epopea, dei successi e, con le lacrime agli occhi, della vendita a Barilla: fatti e misfatti liberamente narrati da Giacinto, più veemente del prudente fratello.
Io sono rimasto sempre affascinato dal suo racconto e, in occasione dei miei studi sul Mulino Alvino, ho voluto fermare in immagini e in narrazione autografa una storia, un tempo, una pagina materana. Ne faccio dono ai lettori perché oggi che anche lui non c’è più, mi pare giusto lasciarla come testimonianza.
Lo incontravo spesso su Via Ridola e non c’era giorno che non mi diceva “spicciamoci a fare di nuovo la Pasta di Matera, perché ormai sono grande e non ho molto tempo…”.
Il suo tempo sulla terra è finito e spero tanto un giorno di portare lì dove ora riposa, un pezzetto di una Pasta di Matera che, lo so già, non sarà mai buona così come poteva farla lui.
Giacinto Padula rimarrà sempre un monumento di sapienza.
LA STORIA DELLA PASTA PADULA E DEL SUO STABILIMENTO: INTERVISTA-RACCONTO DI GIACINTO PADULA.
A cura di Tonio Acito e Cristina Ventura.
Giacinto Padula (ovvero don Giacinto per quanti gli vogliono bene), nasce a Matera il 20 gennaio 1923.
Dopo gli studi liceali, intraprende quelli universitari di Ingegneria Meccanica e Industriale a Bari. L’esperienza precoce e costante nello stabilimento di famiglia gli consente di mettere in pratica tutte le conoscenze teoriche e di acquisirne altre direttamente sul campo.
La sua vita dedita interamente all’attività molitoria e di pastificazione e il suo instancabile desiderio di conoscere e sperimentare sempre ogni cosa in questo campo, gli fanno guadagnare a buon diritto il titolo di “architetto della pasta
Sentir parlare don Giacinto della storia della sua famiglia e dell’azienda creata dai suoi uomini è un’esperienza che non sazia mai abbastanza perché ogni volta ti regala qualcosa in più da apprendere o su cui riflettere.
E’ un racconto sempre lucido, vivo, carico di passione ed emozione, nonostante la sua veneranda età.
Il timbro della voce di don Giacinto che ti cattura e tiene sempre desta la tua attenzione, le pause nell’esposizione dietro le quali talora si celano amare riflessioni, la consapevolezza e la franchezza delle parole pronunciate da una persona che non ha nulla da temere, il continuo monito affinchè il passato sia maestro per costruire un futuro sano e genuino, ti rapiscono e ti trasportano in una realtà passata che improvvisamente sembra palesarsi nitidamente davanti ai tuoi occhi e nella tua mente.
Quanto rispetto, poi, verso la famiglia e verso chi per primo intuisce come progredire nell’attività economica: quel nonno Giacinto che con un cavallino cieco si reca nelle limitrofe terre pugliesi per capire dove la produzione lucana può sopperire ai bisogni di quelle terre.
Sicuramente il grano del materano e del suo hinterland, quel prezioso “dono divino”, rappresenta la chiave di volta, il punto di partenza di un’attività che gli eredi del “trainiere” riescono ad ampliare e a rendere tale da recare benefici a tutta la comunità materana.
Impostata sui valori del lavoro, dell’onestà, del rispetto, della crescita professionale ma anche umana, della tutela della produzione di qualità “costi quel che costi”, l’attività della famiglia Padula ha accompagnato un bel pezzo della storia economica e sociale della comunità materana dandosi e dandole lustro con la sua pasta nella nazione ma anche oltre oceano.
Infine, emoziona la straordinaria fede che condisce le parole di don Giacinto, una persona ormai novantenne che ha sempre messo nelle mani di Dio il suo agire e che in un certo momento del suo lavoro, sa di essere stato tradito dagli uomini e dalle istituzioni da loro rappresentate, ma oggi vive sereno nella consapevolezza che alla fine la verità su quanto è stato viene fuori e nelle persone che veramente hanno condiviso quella laboriosa storia di grano, farina e pasta si conserva la gratitudine e la stima verso degli imprenditori onesti e generosi.
La vostra esperienza molitoria e pastaria ha inizio presso il Mulino Alvino; perché successivamente decidete di fare il vostro Stabilimento?
Nel 1935 eravamo presso l’opificio Alvino di cui avevamo in fitto mulino e pastificio; era una struttura molto bella e perfetta per l’epoca: ricordo bene i disegni dell’impianto molitorio della Buhler del 1935.
Mentre eravamo lì, scoppiò la guerra; nel frattempo, papà e zio avevano acquistato il vecchio mulino e pastificio di Lamacchia-Tortorelli all’inizio della salita di via Lucana. I vecchi proprietari avevano litigato tra loro, lasciando il mulino in una condizione di abbandono; per mio padre e mio zio fu facile acquistarlo.
Senonchè, la guerra ne impedì l’uso perché in quel periodo il grano veniva fornito ai mulini in quantità razionate per la macinazione e la produzione della pasta, che era pure controllata. La quantità ricevuta, però, non era sufficiente per entrambi gli impianti. Allora, bloccammo quello di via Lucana e continuammo a lavorare solo al Mulino Alvino.
Finita la guerra, si pensò di fare il nuovo mulino in via Lucana.
In verità, papà aveva chiesto ai proprietari dello stabilimento Alvino (Manfredi, Giura Longo, Tortorelli e Volpe) il costo della vendita che apparve subito esagerato rispetto alle possibilità della mia famiglia. Del resto, va tenuta presente una verità sacrosanta: noi non abbiamo mai fatto un grammo di mercato nero, quindi, non avevamo soldi disponibili. Pertanto, papà e zio, sebbene dispiaciuti, dovettero prendere una decisione: lasciare il mulino Alvino per avviare quello di via Lucana.
In effetti, coloro che lo acquistarono, i signori Quinto e Manfredi (questi ultimi erano conoscenti dei primi perché nella loro famiglia vi era un ufficiale di marina a Taranto e i Quinto, originari di Bernalda, avevano rapporti di lavoro e commercio con Taranto), pagarono immediatamente la somma richiesta dai proprietari. Come avevano fatto quelli a fare tanti soldi non lo so!
Papà e zio decisero, quindi, di avviare l’attività in via Lucana, dove occorreva fare il nuovo mulino (quello esistente era piccolo, artigianale, senza una separazione e una produzione perfetta) mentre il pastificio era dotato di macchine idrauliche (meglio che ad Alvino dove c’erano i torchi).
Nel dopoguerra, tuo padre Giovanni e tuo zio Emanuele decidono di partire con la produzione.
Decidono di realizzare il nuovo mulino.
Un giorno, durante il montaggio, poiché servivano delle tubazioni speciali curve, il montatore che era pugliese consigliò di rivolgersi al mulino Tamma di Bari.
Papà che per attività commerciali conosceva benissimo molti mulini delle Puglie, mi incaricò di andare lì e di chiedere di don Francesco. Quando arrivai, mi presentai dicendo di essere il sig. Padula e che mi serviva quel particolare tipo di tubo.
Don Francesco, sentendo il mio cognome volle sapere se ero figlio di Giovanni o Emanuele. Quando dissi il nome di mio padre Giovanni, esplose in una bestemmia violenta, brutale. Di quello che avevo detto, non sapevo cosa potesse aver provocato una simile reazione. Forse diventai anche pallido per lo spavento (del resto ero giovanissimo). Poi si calmò e disse: “Sei figlio a Giovannino?”; gli risposi di sì ed egli continuò: “allora prenditi tutto il mulino, te lo puoi portare “. In quel momento, ricordo di essermi sentito rinascere.
Una parolaccia di benvenuto!
Uso e costume dei pugliesi!… Un po’ forte.
Allora, tornando alla storia, i Padula decisero di fare il nuovo stabilimento comprensivo di mulino e pastificio?
In verità, i lavori più consistenti riguardarono il mulino, cominciammo ad usare la macchina continua e ammodernammo il pastificio.
Naturalmente, queste nuove condizioni determinano un aumento della produzione?
Con il mulino partimmo con una produzione di 600 q.li nelle 24 ore e papà non ebbe difficoltà a diffondere il prodotto; del resto, il punto forte della nostra attività molitoria e pastificatoria era la specialità dei nostri grani che non esistevano da nessun’altra parte.
A tal proposito, mi piace ricordare il sig. Vallega (in spagnolo si legge Valiega) dott. in agraria, venuto dalla Spagna a Matera proprio per studiare la qualità del grano che era unica. Questi conosceva il mio nome e divenne un mio amico.
Addirittura, diventammo amici così intimi che dopo uno o due anni, si permise di dirmi: “Tu non hai capito una cosa: il Padre Eterno, quando creò il mondo, vide che era circolare e, non sapendo come fare a dare il grano, il seme migliore lo divise a metà: una metà la diede alla provincia di Lucania e l’altra all’Argentina; ecco perché il grano è buono, perché è voluto da Dio”.
Vallega ebbe due figli e a Matera creò un connubio tra il miglior grano materano e il miglior grano argentino producendo delle varietà.
Nel nuovo pastificio, ebbi l’occasione di collaudare i prodotti creati con queste nuove varietà e Vallega fu colpito dalla mia volontà di capire e di sperimentare. In realtà, una delle due varietà non era per niente buona ed io sospesi subito la lavorazione per non avere un prodotto scadente.
La qualità del grano ha rappresentato una base importante della nostra attività industriale e oggi sarebbe opportuno riprendere la produzione caratteristica della nostra zona, della Lucania intera.
Datevi da fare perché in giro non c’è altro seme simile a quello che produce la nostra terra. Certo, il grano lucano ha una resa inferiore (per questo non si produce più), ma la sua qualità (riconosciuta e affermata in tutta Italia ed anche all’estero) è notevolmente superiore. Le sue caratteristiche, ancora poco note, spiegano la continuità e la tranquillità (in termini di salute) della vita nel nostro territorio.
In che anno depositate il marchio Padula?
Nel 1948 Giovanni ed Emanuele cominciarono a commercializzare la pasta col marchio Padula, mentre prima vendevano quella dei pastifici a cui fornivano la semola.
Quante qualità di pasta si producevano?
Allora, la legge ne prevedeva cinque: la pasta extra, la pasta doppio zero, la pasta zero, la pasta uno e la pasta due. Quest’ultima era la peggiore, per quanto migliore di quella di oggi.
Quante trafile utilizzavate?
Una trentina. Col tempo ho avuto modo di conoscere molti trafilai e tutti i pastifici di Napoli che erano nostri clienti per l’acquisto della semola.
Anche Alvino, la cui famiglia era originaria del napoletano, aveva contatti con i pastifici di Napoli e dintorni. Lì dappertutto c’erano pastifici; anche nelle piccole abitazioni c’erano le macchine che producevano la pasta.
I napoletani erano appassionati della produzione artigianale di pasta, diffusa neanche tanto a Napoli ma, soprattutto, nei dintorni (Torre Annunziata, Torre del Greco, Gragnano). A Gragnano, per esempio, ho conosciuto alcuni pastifici tra cui quello di Lucio Garofalo.
I membri del Consorzio Cerere mi invitarono una volta a visitare il nuovo impianto di Garofalo.
Quando mi presentai al direttore, questi disse: ”Sig. Padula il suo nome qui aleggia”. Gli risposi: “No, non aleggia, sono io” e gli ricordai che con mio padre e mio zio avevamo collaborato col suo pastificio fornendogli la semola.
In effetti, me lo confermò dicendo che tutti ricordavano la pasta realizzata con la semola Padula di Matera.
Ma avete l’ambizione di diventare più grandi?
Appena papà e zio si resero conto che la qualità della loro semola era molto richiesta, gradualmente cominciarono a dare incremento alla produzione e, quindi, ampliammo il mulino fino ad arrivare alla produzione ultima di 1200 q.li al giorno in 24 ore.
In pratica, la raddoppiaste?
Il bravo tecnico che consultarono papà e zio ci consigliò di progettare e realizzare un ambiente idoneo a realizzare ampliamenti di produzione.
E così fu; infatti, alla fine dell’ultimo periodo, riuscivamo a produrre 1200 q.li di grano in 24 ore.
La movimentazione che avevamo raggiunto, sia come ingresso di grano sia come uscita di semola, era un po’ complicata. Eravamo su via Lucana pertanto i movimenti dei camion intralciavano il traffico e talora risultavano anche pericolosi considerando che l’uscita era in discesa.
Allora papà e zio decisero di fare un nuovo impianto.
Era il 1960.
Con il nuovo stabilimento si decide chiaramente di passare da una dimensione più artigianale ad una più industriale.
In realtà, una dimensione industriale già c’era nella macinazione; nella pastificazione, invece, avevamo un piccolo pastificio che produceva, con le macchine idrauliche e le prime macchine continue, all’incirca 30 q.li di pasta al giorno.
Si fa lo stabilimento.
Decidemmo di fare il nuovo stabilimento in via Cererie, su un terreno roccioso che terminava prima del dirupo della Gravina, di proprietà dei miei nonni materni (mia madre era una Fragasso, figlia dell’imprenditore edile Giovanni Fragasso, noto soprattutto per la costruzione di strade e ponti). Il pagamento era, quindi, facilitato.
Siamo andati lì anche perché mio padre e mio zio avevano capito che bisognava pensare al futuro e lì la superficie era enorme, quindi, c’era spazio per successivi ampliamenti.
Naturalmente, la costruzione del nuovo impianto non doveva fermare la produzione; per questo si pensò di realizzare prima il pastificio cosicchè man mano che cominciava la produzione nel nuovo pastificio, si portava a termine quella del vecchio.
Quindi, avete realizzato i due capannoni con le volte. Chi li progettò?
L’ing. Tommaso Buttiglione.
Lo stesso che ha realizzato i silos?
Sì, ne ha gestito la costruzione su progetto dell’impresa tedesca MIAG. L’impresa esecutrice, invece, era la Ravennate.
L’ing. Buttiglione è di Matera?
No, di Taranto, ma era un ingegnere ben visto a Matera.
E’ lo stesso che ha progettato il quartiere Bottiglione?
Proprio così, tant’è che si vantava di aver fatto gli appartamenti più belli.
All’inizio quante persone lavoravano nel nuovo stabilimento?
Più di cento tra mulino e pastificio. Gli operai, man mano che finiva la produzione in via Lucana, passavano al nuovo impianto.
Naturalmente, per la produzione di pasta nel nuovo pastificio era necessaria la semola e noi avevamo organizzato un sistema di trasporto dal mulino al pastificio con cisterne che pneumaticamente prelevavano la semola da via Lucana (cioè dal mulino) e la portavano al pastificio (in via Cererie) dove avevamo creato due piccoli silos in ferro. Non era, comunque, una soluzione ottimale perché bastava un niente e veniva a mancare la materia prima. Mio padre e mio zio non vedevano l‘ora di creare anche lì il mulino.
E le macchine?
In via Lucana, rimangono le vecchie; per lo stabilimento di via Cererie si acquistano nuove macchine.
Conoscete l’origine del nome di quella strada?
La zona in cui era collocata era al limite della Gravina ed i poveri proprietari di quei terreni potevano solo produrre il miele e la cera. Qui sorgeva una vera industria delle api ed uno dei proprietari era il sacerdote Casalini colui che mi ha fatto il catechismo.
Allora la cera era importante perché non esistevano le lampadine e le fabbriche che la producevano avevano un lavoro e un rendimento molto buoni. Alla morte di quei proprietari, tuttavia, questa particolare industria è scomparsa.
Intanto, comincia la produzione industriale e tu vieni messo a capo di quella struttura.
Esatto. Io conoscevo i pastifici di Napoli per via della consegna della semola e lì mi stimavano molto perché ero competente in materia mentre loro mi istruivano nella produzione di pasta.
Per farti capire (e non per farmene un vanto) quanto ero entrato nella loro familiarità, quanto mi volevano bene perché io ero in grado di capire certe cose e facevo il possibile per capire sempre di più, ti racconto della mia visita ad un pastificio di Salerno che stava producendo della pasta per l’Africa del Sud.
Per educazione, non salii sulla pressa essendomi reso conto che la pasta che usciva era nera e brutta. Nel frattempo, però, si trovò a passare il proprietario del pastificio che mi stimava molto e per questo mi lasciava libero di muovermi nell’impianto. Vedendomi lì fermo mentre non salivo sulla pressa, mi disse: “Non faccia il signore, vada sulla pressa, guardi come s’impasta e non si preoccupi perché lei deve capire che questa è pasta per i neri dell’Africa del Sud”.
Così, mi decisi a salire e mi resi conto delle caratteristiche d’impasto adatte e idonee a quelle popolazioni. Per realizzare quel tipo d’impasto non servono le stesse caratteristiche di menage industriale di quelle della semola, è un procedimento tutto diverso.
Infatti, quando con gli anni è arrivato il momento di produrre la pasta integrale, ho pensato a quella produzione e a un pastificio di Santeramo che intendeva fare una buona pasta integrale, proposi di richiedere al mulino un tipo di semola, non completamente prodotta a semola , ovvero la parte cruscosa interna del chicco. Si tratta cioè di una delle prime fasi di lavorazione della semola.
Il granellino di semola è composto di due sostanze, la semola e la crusca: la prima aspira l’acqua, la seconda la respinge cosicchè nello stesso granellino esiste questo contrasto. Occorreva superare questa fase e capire come fare. Ed io avevo capito, tant’è vero che noi cominciammo a fare la pasta integrale quando ancora non c’era la legge che lo consentiva.
Avendo inviato tutti i campioni a Roma (al centro d’indagine industriale), venne un dottore a prelevare alcuni formati di pasta integrale da noi prodotta ma non messa in vendita poiché non era consentita.
Gli esperti di Roma mi dissero: “Non si preoccupi, lei produca questa pasta, la metta in carta bianca e la riponga sullo scaffale scrivendo: pasta in via di sperimentazione; in questo modo nessuno potrà farle niente”. Così feci.
Eravamo nel 1963 e in quest’anno partimmo con il nuovo impianto di pastificazione al completo.
Nel ’63, quindi, era già pronto il nuovo stabilimento o meglio la prima parte di esso.
Man mano che si verificava questo sviluppo industriale del pastificio, aumentava la necessità di alimentarlo con la semola e questo era un problema. Cominciammo, quindi, a pensare al trasferimento del mulino che, però, non è mai avvenuto anche se eravamo sulla strada giusta.
Perché non è avvenuto?
Barilla ha voluto uccidere i Padula.
Andiamo per ordine.
Ci sono i due capannoni voltati, i primi ad essere costruiti, segue la palazzina uffici insieme al silos.
Inizia la produzione e la commercializzazione del prodotto, diventate più grandi e avete la necessità di realizzare in via Cererie il nuovo mulino.
Questo mulino era stato ideato contemporaneamente alla costruzione del silos?
Per quanto riguarda il silos, avevamo compreso quanto fosse necessario avere un ambiente ideale per l’agricoltura del grano. Serviva poter recepire in una maniera più rapida il grano che si raccoglieva nei mesi di giugno-luglio e conservarlo per tutto l’anno in condizioni ottimali attraverso adeguati controlli. Noi avevamo magazzini di grano diffusi in tutta Matera e questa dislocazione complicava l’attività.
Il silos, era funzionale in primo luogo alla ricezione del grano: l’agricoltore non doveva più scaricare un po’ alla volta i sacchi, ma il grano arrivava sfuso nei camion e lo scarico era rapido e facilitato. Questa situazione, inoltre, costituiva un grande vantaggio per chi aveva difficoltà a conservarlo visto che noi ci rendevamo disponibili a farlo. La conservazione, poi, avveniva in condizioni ottimali grazie al controllo automatico e sempre funzionante della temperatura, dell’umidità e della capacità di ogni cella.
Com’era possibile tutto ciò?
Lungo l’altezza completa del silos correva un cavo e ogni due metri un rilevatore che risentiva delle caratteristiche di temperatura ed umidità.
In questo modo, non si permetteva al grano di rovinarsi perché quando qualcosa variava in queste caratteristiche di conservazione, immediatamente si provvedeva al trasferimento da una cella all’altra fino alla soluzione del problema.
Avete realizzato prima il silos e poi l’ampliamento? In che anno siamo?
Vista la sua importanza, il silos l’abbiamo realizzato subito nel 1970.
Ho qui i disegni originali, le piante, i prospetti, le sezioni del silos realizzati dall’ing. Buttiglione autore del progetto.
Buttiglione era coadiuvato dai tecnici della ditta tedesca Miag (sorella della svizzera Buhler) e da mio padre e mio zio che davano delle indicazioni pratiche per evitare che il grano andasse in fermentazione.
Quanti anni avevano tuo padre e tuo zio in quel momento?
Mio padre aveva 78 anni circa.
Mi stupisce che una persona di 78 anni avesse ancora l’energia e la voglia di fare …
Perbacco, sapeva quanto fosse importante il modo di conservare il grano.
Mio padre e mio zio possedevano magazzini sparsi in tutta Matera. A questa esperienza diretta sul territorio, si affiancava la conoscenza di tutti gli ambienti della macinazione; non dimentichiamo che mio nonno Giacinto, in origine era commerciante di grano.
Quindi, la necessità del silos è determinata dall’esperienza personale, dall’esigenza del territorio e poi dalla conoscenza delle ultime tecnologie.
Sì, specialmente la tecnologia del controllo; quando papà vide che io avevo richiesto determinate attrezzature tecniche, mi disse: “Figlio mio tu conosci molte cose che noi non sappiamo”.
Esistevano silos simili al vostro? Dove si trovavano?
Non esistevano silos simili al nostro. Quello che un po’ si avvicinava si trovava a Bari presso il pastificio Tamma. Certo, a Bari la raccolta e la conservazione del grano era prassi già consolidata. Tuttavia, il silos dei Tamma era molto diverso e l’attrezzatura per il suo funzionamento era decisamente più vecchia.
In quanti anni costruite il silos?
Due anni.
Quando sono andato a visitarlo, mi sono chiesto dove producevate il cemento.
Visto che la quantità necessaria era notevole, lo producevamo sul posto.
Inoltre, quando la gettata cominciava, continuava poi ininterrottamente notte e giorno e avveniva in tre volte. Il cassero, la forma, era in basso e saliva molto lentamente. Una volta iniziato, il processo non si fermava.
Allora, chiaramente non c’erano le pompe e si procedeva cassone per cassone, secchio per secchio. Come si chiama l’impresa che costruisce il silos?
L’impresa è la Ravennate che papà conosceva benissimo in quanto lavorava in maniera molto seria.
La realizzazione della fondazione è relativamente facile perché sotto il terreno è roccioso e duro.
Esatto, anche se questo non escluse i controlli. Buttiglione arrivò a fare sondaggi a livelli molto bassi, fino a 1200 m. di controllo e chiamò dei tecnici che avevano fatto la stessa cosa a Taranto per L’ILVA.
Per fare i calcoli delle fondazioni, Buttiglione si avvalse di tecnologie in quel momento avanzate?
Non solo avanzate, ma quello in via Cererie fu l’unico controllo a certe profondità effettuato da quella ditta in Lucania.
All’ ILVA di Taranto i terreni erano soffici e questo era un problema perché, per il tipo di impianto da insediare in quel sito, occorreva andare in profondità; invece, da noi ci dissero che solo dopo 1200 m (1 Km e 200m) c’era un vuoto, un vuoto geologico, non pericoloso in termini di crollo.
La costruzione del silos si protrasse per due anni. Nel frattempo, cosa pensava la città e cosa dicevano le persone quando ti incontravano per strada?
Di sicuro, io pensavo a lavorare, soprattutto, durante la costruzione.
Naturalmente, gli agricoltori, quando constatarono l’efficacia del silos, mi dissero: ”avete fatto una santa cosa”.
Ne ero perfettamente consapevole perché io ero l’unico a far funzionare i silos in arrivo e venivo chiamato sempre compresi i giorni di festa . La festa della Bruna, naturalmente, coincideva con il periodo pieno della mietitura e i contadini, quando sentivano che potevamo ricevere, mi chiamavano la mattina presto verso le cinque, per chiedermi a chi potevano rivolgersi per la consegna del grano. Ed io rispondevo di essere l’unico.
Allora, riducevo la portata di entrata per evitare eventuali ingorghi e tante volte il pranzo della Bruna lo facevo alle tre del pomeriggio.
Sono stati gli agricoltori che mi hanno fatto capire che bisognava dare comodità al loro lavoro. Una cosa, invece, non siamo riusciti a realizzare: secondo me, gli agricoltori dovevano avere la possibilità di insilare ciò che producevano in un silos piccolo nella stessa azienda in modo da non doversi preoccupare di portarlo via subito. Avrebbero avuto così la possibilità di consegnarlo con calma dopo alcuni giorni. Purtroppo non facemmo in tempo.
In ogni caso, la soddisfazione era sentire la gratitudine dell’agricoltore per l’opera realizzata.
Possiedo una fotografia raffigurante l’ultimo traino che consegnò il grano e che io volli immortalare perché il guaio fu che il mulo che lo trainava non poteva uscire essendo rimasto incastrato lo zoccolo nella griglia. Volli fotografarlo perché era proprio l’ultimo traino.
Insomma, costruito il silos, cambia la tecnica di conservazione del grano a Matera.
Ho un manifesto di nostra reclamistica con la fotografia del silos sui Sassi.
Praticamente, terminato il silos, il grano arrivava non più con i traini ma tramite camion perché i contadini, dopo la mietitura, lo conferivano direttamente nel silos.
Chiaramente in un certo periodo dell’anno c’era un traffico micidiale!
Si cominciava alla fine di giugno e si andava avanti per tutto luglio e agosto con un notevole incremento del lavoro dei camionisti.
Chi era l’addetto al controllo del grano al momento della consegna?
Io adempivo a questo compito già in via Lucana.
E il fazzoletto rosso dove mettevi il grano lo conservi ancora?
I diversi colori dei fazzoletti, distinguevano le varie tipologie di grano.
Singolare era il modo di fare il nodo, vorrei mostrarvelo. Ho qui un fazzoletto pulito, bello grande. Lo si apre, al centro si pone il mucchietto di grano, poi si raccolgono i quattro lembi tra pollice ed indice; l’ultimo lembo si allunga, si gira intorno e si usa per fare il nodo.
Il grano, in questo modo non usciva più e quello era il campione che l’agricoltore consegnava
C’era anche uno strumento per pesare i camion con il grano?
Sì, c’era la pesa davanti agli uffici.
La Ravennate, quindi, realizza i silos e gli uffici? Con questa impresa lavoravano anche uomini materani?
Certo uno di loro mi saluta e mi abbraccia ogni volta che mi vede. Questo signore è in una delle foto del cantiere del silos.
Il ciclo di lavorazione era di 24 ore?
Certo, era un ciclo continuo e quando, una volta si verificò un guasto, il calcestruzzo si indurì e cambiò colore nonostante si lavorasse alacremente per risolvere il problema. Il tempo in più impiegato produsse una fascia di colore diverso ben visibile sulle foto che sembrava umidità, ma non lo era.
Dopo la costruzione del silos e degli uffici, voi pensate di ampliare lo stabilimento?
Sì, l’impresa Fabrizio realizza l’ampliamento necessario a creare uno spazio destinato ad impiantare altre macchine per impacchettare.
Evidentemente, la produzione andava bene, ma occorreva impacchettare e mandare via in tempi più celeri.
Sì, infatti, comprammo delle nuove macchine.
Ricordo bene un episodio che voglio raccontarvi. Avevamo una macchina molto importante che preparava trenta pacchi di spaghetti al minuto.
Un giorno si ruppe l’elettronica ed io mi preoccupai tempestivamente di contattare la ditta a Bologna dove mi risposero che occorreva sostituirla con una nuova e questo richiedeva almeno venti giorni.
Per me era impensabile stare venti giorni senza questa macchina. Chiesi aiuto all’elettricista, gli dissi di seguirmi, di prendere tutti i contatti, di procurarsi una tavola bella grande (lunga circa 4 m.), di tirare fuori tutti i cavi dell’apparecchiatura riportando per ognuno la potenza.
Dopo aver eseguito tutto, telefonai alla Siemens di Bari e chiesi di prepararmi gli interruttori necessari, circa 35-40. Quando tornammo, feci tutti gli opportuni collegamenti. L’elettricista, stupito della mia bravura, mi chiese come avrebbe funzionato.
Gli risposi banalmente che la mia operazione avrebbe consentito il funzionamento con la corrente elettrica, al posto dell’elettronica. Naturalmente, il risultato sarebbe stato inferiore.
Così dai trenta pacchi al minuto ottenuti con l’elettronica, riuscimmo a passare a tre pacchi al minuto con la corrente elettrica.
Allora l’elettricista colse appieno il vantaggio dell’elettronica che altro non era che la corrente elettrica resa possibile con una velocità di arrivo completamente diversa grazie ai materiali impiegati per portare la corrente.
A che anno risale l’ampliamento? Probabilmente dopo il 1986.
Sì, forse negli anni ’85-’86.
L’ing. è sempre Buttiglione?
Sì, Buttiglione continuò ad essere il nostro ingegnere mentre l’impresa era Fabrizio.
Quando l’’impianto di via Lucana viene disattivato, gli operai vengono tutti trasferiti in via Cererie?
Naturalmente ci riferiamo a quelli del pastificio; per il mulino era prevista la costruzione tra il silos e il capannone. Il silos fu concepito e realizzato in modo da servire il mulino, anch’esso già progettato. Ho i disegni del progetto del silos comprensivo del mulino ad esso affiancato.
Quanta gente lavora durante la vostra gestione nel nuovo stabilimento di via Cererie?
Più di cento contemporaneamente su tre turni.
Quindi, trecento persone…l’economia materana!
Non solo, c’erano due autisti e le macchine per il trasporto erano di nostra proprietà.
Chi sono i dirigenti di questa fabbrica?
Oltre al sottoscritto addetto alla produzione, c’era mio fratello Franceschino per la parte commerciale e amministrativa, poi c’erano i miei cugini, i figli di Emanuele Padula (mio zio), Giacinto amministratore e Giovanni che si occupava degli imballaggi.
Lavoravate bene insieme?
Sì, perché ognuno aveva i suoi compiti.
Occupandoti della produzione, le tue relazioni dovevano essere alquanto articolate: con l’agricoltore, con lo stabilimento e con le ditte da cui provenivano le macchine.
Certo, dovevo sempre essere sempre informato di tutto.
Per esempio, molte volte abbattevo la temperatura di essiccazione che la ditta dei macchinari m’imponeva di usare.
Dicevo di voler andare più lontano; quindi, avvalendomi delle analisi fatte da me stesso in laboratorio dove spesso lavoravo di notte, capivo di quanto dovevo aumentare il tempo di essiccazione. Sicuramente tempi di essiccazione più lunghi comportavano una riduzione della produzione giornaliera, però, il prodotto ottenuto era decisamente superiore grazie a quel tipo di grano unico, con delle caratteristiche differenti che ancora non riescono a definire o…forse non vogliono dire!
La differenza è nel chicco o nel terreno?
E’ il chicco del grano che ovviamente ha bisogno di un certo terreno per crescere in condizioni ottimali.
Quando Francesco diventa sindaco (1975-’78) prende le distanze, alleggerisce la sua presenza in azienda?
Solo un po’ perché lavorava ugualmente.
Come avete accolto il suo ingresso in politica?
Io soffrivo perché ero contrario.
Perché andò a fare il sindaco?
Era democristiano e fu pregato da Colombo, di cui era amico intimo.
Perché, se vi avesse lasciato in pace, se Franceschino non fosse andato a fare il sindaco, forse l’azienda…
Il fatto, poi, è perché è andato a fare il sindaco.
Fu eletto in una maniera anomala perché lo votarono tutti i comunisti.
Allora, lui disse: “Io sono democristiano, non sono comunista per cui me ne vado”.
Fu eletto dopo una votazione totale di tutti i comunisti. Ecco perché se ne andò; ma, in fondo, era una scusa perché non voleva fare il sindaco non essendo un politico.
Veniamo al periodo…
Succede che fornivamo la nostra semola a molti pastifici, anche al nord.
Vicino Milano c’era un pastificio che usava soltanto la nostra semola per la produzione degli spaghetti da mandare in Svizzera.
Il suo proprietario diceva: “Guardi che non posso usare altra semola se non la vostra”.
Allora, io cominciavo ad uscire nel senso che papà mi dava la possibilità di conoscere altri ambienti del nostro settore e, spesso, di assistere alla contrattazione condotta dal nostro commercialista, il Sig. Viglione. Questi, di solito, mi accompagnava nei pastifici importanti.
Quando, una volta fui chiamato da quello di Milano (di cui non ricordo il nome), papà mi disse: “Vedi che ti chiederanno qualcosa. Non preoccuparti, vai tranquillo”.
Infatti, dopo aver stipulato il nuovo contratto (ogni contratto della durata di 1-2 mesi era di circa 5000 q.li di semola), il proprietario mi chiamò e mi disse:
“Sig. Giacinto, adesso venga con me nel pastificio, le devo far vedere una cosa come ho anticipato a suo padre per telefono. Prego, si accomodi”.
Entrai seguito dal dott. Viglione. Arrivati alla porta per accedere nella sala macchine, il proprietario disse: “Prego, Sig.Giacinto” ed io passai.
Il Sig. Viglione si lanciò con me per entrare, ma venne bruscamente fermato da una mano che lo colpì sulla spalla: “No, lei no”.
I Milanesi !!! Capito, non volle.
Segreto industriale!!!
Il problema era la demiscelazione della nostra semola perché non riusciva a capire come mai alla fine del silos, quando cioè mancavano solo 5-6 q.li (per intenderci il cono), si accumulava tutta la semola più sottile o più grossa a seconda dei giorni.
Dopo avergli chiesto di quant’era l’uscita, capii subito qual era il problema: al posto di una sola uscita, occorreva realizzarne una mammellare, nel senso che tutta la superficie doveva essere in discesa, in uscita.
L’uscita si basa sullo spessore della soletta perché i chicchi più grossi e più pesanti scivolano in modo diverso creando una linea di grano più grosso, mentre quelli più sottili hanno un altro andamento.
Gli consigliai, quindi, di fare la mammellare e gli diedi pure i disegni.
Dopo aver applicato questo sistema, a distanza di una decina di giorni, il proprietario chiamò papà e gli disse: “Dica a suo figlio che è tutto perfetto e non ci sono più problemi di demiscelazione “.
Mio padre, dopo che gli ebbi raccontata la storia, si complimentò con me.
Bellissimo!!!
Questo per dire quanto è importante l’esperienza!
I silos non hanno tutti lo stesso diametro?
Sì, in più va detto che l’intercella era una cella vera e propria con le stesse caratteristiche di indagine e di controllo, cambiava solo la capienza: all’incirca 3000 q.li di grano per una cella, 1000 q.li. circa per l’intercella.
Era importantissimo avere le intercelle funzionanti affinchè potessero contenere delle qualità di grano più scadenti che non si dovevano miscelare. Avevamo così separazione di qualità e di caratteristiche similari.
Quindi, quando arrivava il carico di grano sul camion, tu decidevi dove destinare le diverse qualità?
Proprio così; infatti, io avevo le piante con le caratteristiche di tutti i silos puntualmente numerati e le intercelle funzionanti.
Era una tua invenzione?
No, funzionava così dall’inizio.
Arriviamo al momento della storia per voi più doloroso.
Immagino che vuoi sapere perché abbiamo cessato?
Indubbiamente avevamo spinto la produzione, ma non a scapito della qualità; ribadisco che, a parte la quantità, producevamo qualità, anche perché ci dava man forte la caratteristica dei nostri grani.
Infatti, una volta è successo che una nuova macchina acquistata dalla Braibanti, aveva la testata che non andava bene, nel senso che il prodotto usciva rovinato. Subito fermai la produzione e chiamai i tecnici.
Mi fu chiesto: “Ma lei cosa vuole? La quantità l’ha persa”.
“Ho capito, ma non va bene lo stesso” risposi.
“Ma come la vuole la nuova testata?”.
Di nuovo replicai: “Se attende almeno un’ora, le faccio il disegno”.
Il tecnico mi concesse il tempo necessario dicendomi che la sera, rientrando da Bari, sarebbe passato a prendere il disegno.
Così fece, venne, prese il disegno e se ne andò. Realizzarono la testata, la montammo ed era perfetta: il prodotto ottenuto era decisamente migliore.
Allora, telefonai in ditta dicendo che era tutto a posto e il capo-officina (ovvero il direttore delle officine Braibanti a Trento) venne subito a Matera per accertarsi di quello che gli avevo detto telefonicamente.
Quando gli raccontai ciò che era successo, rimase in silenzio limitandosi a guardare con insistenza. Ancora guardava il secondo giorno, cercando di capire ed esclamando nel suo dialetto: “Se non fossi venuto, non avrei mai creduto”.
Prima che partisse gli chiesi: “Cosa vuol dire questo? Non riesco a capirla…”.
Di contro, mi invitò a spiegargli come mai avevo richiesto quel tipo di testata, perché l’avessi voluta in quel modo e come ero arrivato a capire che proprio quella serviva per la nostra produzione”.
Gli spiegai che bisogna fare attenzione al grano ed il nostro possedeva delle caratteristiche uniche che, sia in fase di produzione che dopo, passavano nel prodotto ottenuto dalla semola. Quindi, sebbene le loro macchine più potenti producessero 10 q.li di pasta ogni ora, noi non superavamo i 7 q.li l’ora e l’essiccazione che con quelle macchine doveva durare 24 ore, da noi si protraeva per 40 ore.
Sempre a proposito dell’essiccazione, scoprii che per i formati grossi (come ziti e zitoni), l’umidità contenuta si riduceva alla fine di ogni piano stabilizzandosi solo al termine del quinto. Capii allora che occorreva rallentare il tempo di essiccazione arrivando a produrre alla perfezione dopo 40 ore contro le 12 che dicevano loro.
In seguito, vennero di nuovo dei tecnici per capire come mai non producevo nelle quantità che avrei potuto.
Spiegai loro che la nostra semola mantiene e sviluppa le sue proprietà, come glutinina, creatinina e altre ancora, attraverso la giusta quantità di acqua e un adeguato tempo di essiccazione per arrivare alla fine con un’umidità non eccessiva, ovvero un’umidità finale del 12% (si partiva da un tasso iniziale del 35% di umidità e si arriva al valore legale per la pasta del 12%).
Queste caratteristiche del nostro grano devono essere rese note per far capire che questa semola costa di più perché è migliore.
Insisto nel dire agli agronomi: “Non perdete, come, invece sta accadendo, una produzione caratteristica della nostra zona”.
Ma che diavolo succede? Possibile che a Matera sono diventati tutti ignoranti?
Qualcuno se n’è reso conto a Stigliano, a Genzano, a Palazzo San Gervasio ma si potrebbe fare meglio.
Nella Cerere, da cui ero spesso interpellato, in particolare dal dott. Valicenti dell’Ispettorato Agrario, la dottoressa in chimica che dirigeva il laboratorio dell’azienda sosteneva con me e alla luce dei suoi studi e dei suoi esperimenti, che la semola buona della nostra zona aveva delle caratteristiche non possedute dagli altri grani. Ricordo di averla incoraggiata a proseguire le sue ricerche.
Dopo diversi anni, però, è andata via da Matera passando al pastificio abruzzese La Molisana; anche qui lavora nel laboratorio e so che ancora si interroga sulle particolari caratteristiche che il grano di nostra produzione possiede.
Mentre gli altri facevano quantità, voi facevate quella qualità che vi premiava e vi faceva andare avanti.
Sì, andavamo avanti, tant’è vero che siamo arrivati all’esportazione: negli anni ’80-’90 approdiamo in America.
Probabilmente davamo fastidio perché conquistavamo i mercati.
Eravate sempre Giacinto Padula & Figli ?
Sì, il rappresentante americano (ma di origine italiana), mi mandò una volta una reclamistica, da lui voluta, in cui c’erano due individui che uscendo dal loro ufficio in senso contrario all’ora di pranzo, correvano e si salutavano rapidamente dicendosi “ciao, ciao”. Ma uno dei due, poi, si girava e aggiungeva: “buon appetito, però, con Pasta Padula”.
Una reclamistica che mi ha colpito molto perché in inglese aveva una bella musicalità; era una scena bellissima che alla fine esplodeva col nome Padula, l’unica parola che si riusciva a riconoscere in lingua italiana.
Avete continuato a crescere. Però, a questo punto, cosa succede?
Logicamente la qualità della nostra pasta dava fastidio; infatti, Barilla produceva malissimo, usava prodotti scadenti, il risultato era completamente diverso e naturalmente il paragone dava fastidio perché faceva perdere terreno.
Così Barilla si mise in testa di “aggiustarci per le feste” e cominciò prima di tutto ad acquistare da noi la semola per la loro pastificazione.
A quale stabilimento consegnavate la vostra semola, quello di Foggia o di Caserta?
Direttamente a quello di Parma dove, in effetti, ne riconoscevano la qualità.
Una sola volta una loro dottoressa mi telefonò per dirmi che le ceneri contenute nella farina erano in percentuali più alte. Le risposi che era l’annata di ceneri più alte contenute nel chicco di grano, ma, in ogni caso la percentuale era nei limiti stabiliti dalla legge.
Insomma, voi vendete la semola a Barilla…
Barilla che aveva cominciato col chiederci la semola entrò anche in termini commerciali nella nostra attività.
Noi, avevamo un nome affermato in tutti i pastifici d’Italia per via della vendita della semola, ma con la nostra pasta qualitativamente superiore, oscuravamo le caratteristiche degli altri marchi che non potevano vantare la stessa produzione di pasta di Padula. La loro era tutta diversa, più scadente, non solo, avevano sistemi di produzione…
Ecco, il sistema di produzione modernizzato andava contro la natura della pasta usando temperature altissime che distruggevano le sostanze vitali del grano contenute nella semola.
Loro distruggevano, io, invece, negli essiccatoi non superavo i 40C°.
Oggi arrivano a 120C°, tant’è che le caldaie sono impostate non alla temperatura massima di 90C°, ma di 130-140C°. Sono caldaie speciali per portare ad alti valori la temperatura dell’acqua per l’impasto.
La temperatura elevata, la velocità d’impasto, la granulometria utilizzata, distruggono ogni cosa.
In seguito, ho anche saputo che la nostra semola veniva macinata un’altra volta per renderla più sottile così da avere una produzione maggiore.
Come procede questo rapporto con Barilla?
Avanzarono la proposta di creare una società.
Iniziammo a discutere e contemporaneamente cominciarono anche gli scioperi; vi dico francamente che non erano affatto scioperi veri, si capiva erano tutti artefatti o meglio, pilotati da Barilla. Infatti, poiché gli scioperi aumentavano, ci inviarono due tecnici dell’ambiente sindacale che, in teoria dovevano aiutarci.
Ma quale aiuto! Erano proprio quelli ad organizzare il modo di reagire; infatti, quando dicevo a mio fratello di non esagerare, mi rispondeva: “No, è la Barilla che con i suoi soldi paga questi individui”.
Sono certo che gli operai sindacalizzati, i dirigenti di banca, i capi sindacali hanno intascato soldi.
Pure i crediti bancari cominciarono a ridursi; ci frenavano e noi non eravamo ricchi, non avevamo capitali personali perché non abbiamo mai fatto facili guadagni. La banca ci forniva l’aiuto finanziario che indubbiamente ritornava, nel senso che non era passività; però, i direttori di banca (sicuramente pagati) cominciarono a detrarre e a discutere.
Alla fine, quest’ambiente è quello che abbiamo lasciato.
Vi devo raccontare un episodio accaduto l’anno scorso. Ad un’operaio sindacalista pagato (Dio me l’ha fatto vedere, una sola volta), cadde l’assegno mentre scendeva le scale nella palazzina-uffici. Io riuscii a leggere la cifra che ammontava a dieci milioni. Quella persona è andata via da Matera perché intuì che io avevo letto.
Un altro episodio significativo è accaduto di recente. Uno dei capi sindacalisti materano, nostro dipendente, mi ha fermato in piazza e, dopo i classici convenevoli di saluto, ha detto di volermi confidare una cosa
Sono rimasto sorpreso del suo atteggiamento, perché non aveva mai avuto tutta questa confidenza, ma mi hanno stupito ancor più le sue parole:
“Se mi mettete il coltello alla gola per scannarmi, io non vi dirò di no”.
In quel momento, ho avuto paura di essere impazzito, ho temuto che stesse per succedermi una cosa grave.
“Cosa stai dicendo…” gli ho detto.
E ha cominciato a ripetere daccapo: “Se mi mettete il coltello alla gola per scannarmi, non vi dirò di no, ma io stesso vi aiuterò a scannarmi perché ho sbagliato tutto”.
Allora ho capito che non ero io ad avere qualche problema, ma lui.
Un’altra volta, di nuovo ebbi paura perché un operaio impugnò una chiave meccanica fissa di una certa dimensione, solitamente impiegata ogni dieci giorni per svitare le viti principali, e mise in contrasto il movimento dei telai attraverso il quale avveniva l’essiccazione della pasta laminata
Quando la macchina si fermò, fu proclamato lo sciopero e si arrestarono tutte le altre macchine in funzione; i danni furono enormi.
Uno dei pochi operai coraggiosi venne ad informarmi dell’accaduto.
Allora io, sebbene la temperatura fosse ancora alta (50C° circa), mi spogliai, entrai nella sala di essiccazione e rimossi la chiave, rendendo possibile la ripresa del movimento. Subito mi recai dal responsabile dell’incidente che non esitò ad ammettere la sua colpa dicendo che l’aveva fatto per farmi danno (in realtà, il danno lo faceva anche a se stesso).
Non vi nascondo che, in quel momento, mi venne la tentazione di colpirlo con quella stessa chiave…l’avrei ucciso. Per fortuna, mi fermai o meglio un angelo, forse mia madre, fermò la mia mano.
Era palesemente gente pagata da Barilla per compiere queste azioni.
Per quanti giorni si protraggono gli scioperi?
Ricordo solo che erano frequenti e improvvisi e che gli operai si appigliavano a motivazioni banali, perché certo non mancava loro lo stipendio. Nessuno ha mai protestato per non averlo percepito, al massimo poteva non essere corretto il conteggio delle ore di straordinario. Ma niente di importante.
Quando vi siete resi conto di questa manovra oscura della Barilla che vi stava mandando in crisi?
Dopo, a distanza di anni perché tutte le volte che si andava a chiedere aiuti, le risposte erano sempre negative. Perché?
Evidentemente le banche, i direttori di banca…
La Popolare?
Calma…Sì. Comunque, io so che uno di quelli stava per andare in galera.
Non è andato!
Quando parlate di Barilla, alludete proprio a Pietro Barilla? E’ lui che cerca di crearvi problemi e di comprarvi in qualche maniera? Quanto tempo resistete?
Solo pochi anni, fino al ’90-’95 perché Barilla fa proprio un’operazione di arretramento. Bestiale!…
Ma, a un certo momento voi gli chiedete aiuto?
Assolutamente no, dicemmo semplicemente: “Se volete, pagateci l’azienda e noi andiamo via”.
Decidete, quindi, di vendere l’azienda a Barilla…
Sì, infatti, noi non siamo falliti, abbiamo soltanto assolto ai pagamenti con i soldi della vendita.
In che anno siamo?
Verso il ’93-’94.
A quel punto la produzione si ferma completamente per un lungo periodo?
No, no, lungo no.
La pasta che si produce immediatamente dopo, porta ancora il marchio Padula o un altro nome?
In realtà, la produzione porta già un altro nome, anche se con le nostre trafile, con i nostri formati e con un sistema di produzione che cambiò completamente nel senso che non si realizzavano più i formati difficili.
Per un certo periodo voi avete lavorato con loro?
L’idea di partenza era di creare una società, ma non solo tra noi e loro perché si pensava di coinvolgere un gruppo di pastifici di varie regioni tra cui Puglia, Lucania e Abruzzo. Infatti, in quell’occasione ho ricevuto la visita di un pastificio di Genova, il Pastificio Agnesi.
Venne un suo ingegnere con un gruppo di pastai proprio mentre io stavo producendo uno dei formati più difficili: la tripolina ondulata a tre lati, non due. Per realizzarla mi serviva prolungare la produzione di almeno 24 ore, in sostanza si impegnava una linea soltanto per quel formato.
L’ingegnere osservò attentamente, controllò la temperatura e alla fine io gli chiesi cosa pensava. Alla mia domanda rispose:
“Lei, Sig. Giacinto non è un pastaio, è un architetto della pasta! Ha capito? E’ difficile quello che sta realizzando, bravo, congratulazioni!”.
Emozionato per quel complimento non potei che ringraziarlo.
Continuiamo a parlare dello stabilimento: quando Barilla arriva, realizza subito l’ampliamento?
Non subito. Dovette prima chiedere dei finanziamenti che tempestivamente ottenne: milioni, decine di milioni.
Con quei soldi realizzano lo stabilimento Barilla che conosciamo, quello attuale.
Avete visto, però, che pian piano hanno cessato la produzione e poi hanno venduto, perché la loro logica, il loro obiettivo non era portare ad incrementare l’azienda, ma a distruggere, ad uccidere.
Una volta mi hai raccontato di aver fatto un giro nello stabilimento o con Pietro Barilla o con qualcun altro, però l’hai “mandato per i campi”.
Raccontaci.
Sì, era quello di Parma che poi è stato arrestato, Calisto Tanzi. Tanzi sapeva che la Barilla doveva acquistare e voleva intromettersi lui, delinquente. Eravamo in un posto del pastificio, nell’interrato, quando mi chiese:
“Sig. Padula, è lei uno dei soci?”.
“Si”, risposi.
“Mi dica, quant’è il minimo che volete perché io per lei, poi, un bel regalo…”.
Io mi allontanai dicendo una bella parolaccia; sì, lo mandai a quel paese in maniera brutale e di corsa andai da mio fratello che gestiva questi incontri per dirgli quello che era accaduto e cosa mi era stato detto.
Mi chiese cosa gli avevo risposto e gli dissi che l’avevo semplicemente mandato a quel paese nella maniera più sonora possibile”.
Franceschino cosa ti disse? Ti rimproverò?
Abbia pazienza! Siamo fratelli nelle cose.
Quanto è durato questo periodo di corteggiamento da parte della Parmalat?
Durò poco perché evidentemente, quando si rese conto che Barilla intendeva acquistare e trasformare, allora smise di chiedere.
Però, poi, che coraggio…gente del nord… Noi siamo meridionali, razze diverse. Io dico: “vi rendete conto: noi non siamo assolutamente come quelli”.
Nel rispetto di quanto ci è stato raccontato, occorre smettere di parlare di area “ex Barilla “. Si deve parlare, invece, di “ex Padula”. Non è giusto, sentendo queste cose, si prova tanta delusione.
Ecco, questa è la storia dei Padula che non è risaputa, non è stata divulgata.
E’ una delle poche volte che io racconto come sono andate realmente le cose.
Io, però, ho incontrato alcuni operai e ho avuto modo di capire che conoscono la verità; dicono di sapere nome e cognome.
Certo che lo sanno, venivano pagati dalla Barilla.
Qualcuno di loro mi confidò: “Se avessimo saputo, li avremmo uccisi”.
“E va bene, li potevate uccidere” gli risposi.
Alla fine, però, la verità viene fuori. E sì… che poi gli operai lo sanno!
Nella foto Giacinto Padula in piazza Vittorio Veneto e nello studio di Tonio Acito