È stata coinvolgente l’eco diffusa da stampa e media in questi ultimi giorni per il drammatico allarme sulla situazione nel Mezzogiorno d’Italia – in particolare per i giovani alla ricerca di lavoro -, suscitato dall’annuale rapporto della SVIMEZ (acronimo per Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che, dal 1946, ha per statuto lo scopo di promuovere lo studio delle condizioni economiche del Mezzogiorno d’Italia). Il clamore per questa perdurante involuzione economica ha aggravato precedenti e mai sopiti timori ed ha finalmente richiamato l’attenzione del Governo centrale. Sono trascorsi circa 20 anni da quando un Esecutivo Nazionale ha posto mano ad un progetto qualificante per il Sud. Eppure nel Meridione della Penisola vivono quasi 21 milioni di persone rispetto ai 39 del Centro e del Settentrione. Il Sud, con un PIL cresciuto tra gli anni 2000-2013 in misura pari alla metà di quello oltremodo deficitario della Grecia, mostra le conseguenze di una programmazione nazionale verso territori e popolazioni, considerati marginali e lenti, nell’Italia impostata su due velocità: come se il Meridione si trovasse a dover competere con il monopattino contro un Nord dotato di un impianto aspirato a turbo compressore, che comunque si presenta affaticato e obsoleto per competere con il ritmo degli altri Paesi. La principale delle inefficienze che si oppongono allo sviluppo economico dei territori del Mezzogiorno, è costituita dalle infrastrutture, spesso carenti o addirittura assenti. Significative, a tal proposito, le parole di Michele Emiliano Presidente della Regione Puglia: … Si parla di TAV in Piemonte per migliorare di un’ora la percorrenza tra Torino e Lione, ma intanto a Matera, capitale europea della cultura, non c’è nemmeno la ferrovia. Pompare denaro in una direzione e toglierlo al Mezzogiorno, non funziona …
In questa ottica, proprio Matera con i suoi incomparabili e insostituibili panorami, ma anche con le sue indiscutibili e, purtroppo, altrettanto inamovibili contraddizioni può svolgere un ruolo socialmente didattico, per affrontare in maniera consapevolmente operativa quella dura realtà che attanaglia soprattutto le regioni meridionali.
Qualche settimana fa ho riproposto un servizio giornalistico del 1928 sui Sassi di Matera, che, in chiave di esaltazione dell’incipiente benessere fascista, descriveva in maniera cruda e sprezzante le miserevoli condizioni degli abitanti dei vecchi quartieri materani. Segue oggi un articolato reportage, anch’esso dedidicato agli antichi rioni di Matera, e relativo agli anni del loro ‘sfollamento’, il periodo del boom economico italiano! Il contributo, del 1966, è tratto da Lo Specchio, periodico indipendente di politica e di costume, in edicola fino al 1975, che fu tra i principali settimanali nazionali degli anni sessanta e tra i primi a pubblicare indagini giornalistiche sul modello del giornalismo d’inchiesta statunitense. L’inviato, con interviste a persone differenti per rango e condizione sociale, a quasi quarant’anni di distanza, descrive il medesimo scenario dei Sassi, connotandolo ancora una volta di miseria individuale e incapacità collettiva: ostacoli definitivi al superamento di condizioni di vita, in quel lasso di tempo concordemente rinvenibili solo nella lontana India. È interessante annotare come il resoconto contrasti, pur probabilmente traendone spunto, con l’irriverente collocazione in uno scenario umiliante e degradato di un riquadro della sezione Cittadini Stato e Chiesa, estratto da Made in Italy, film in episodi diretto da Nanni Loy; la pellicola, prodotta e distribuita nel corso del 1965, propone per le scene, ambientate nei Sassi di Matera con la sola presenza di comparse, un confronto amaro e deridente proprio con la situazione sociale Indiana.
Concludendo, in un momento storico, qual è quello che Matera sta attraversando con la nomina a Capitale Europea della Cultura per il 2019, occorre che la delicata congiuntura economica mondiale non faccia riaffiorare vetusti modelli di ambientazione sociologica per il Sud e per Matera, mettendo a frutto le doti naturali e caratteriali del territorio e dei suoi abitanti.
Lo Specchio – Anno IX – N.11 – Domenica 13 Marzo 1966 sondaggio
Se l’India ha fame, in Lucania gli uomini vivono come le bestie GLI INDIANI DI MATERA pagg. 28 e 29
Aiutiamo pure – quando occorre veramente – i popoli colpiti dalle calamità, ma non dimentichiamoci delle nostre disgrazie. I “sassi” del capoluogo lucano, un retaggio da nazione incivile, sono uno dei tanti esempi, forse il più drammatico d’Italia, dove la fame, la miseria e il dolore si curano con la morte.
Chi giunge da queste parti, da qualsiasi zona provenga, non può non constatare, con mal repressa indignazione il sottosviluppo cronico di questa terra. Il “boom” economico e sociale mentre bene o male è esploso altrove, non ha neppure lontanamente sfiorato questa città lucana. Addentrandosi poi nella parte più bassa della città, comunemente detta dei “sassi”, si ha l’impressione che qualcosa si sia fermato, il tempo e gli uomini. Nessun passo avanti è stato compiuto nel corso di decenni in qualsiasi settore di attività e gli stessi rapporti sociali sembrano inesistenti. Eppure, con i dieci miliardi governativi messi a disposizione del Comune materano ed erogati in due fasi (nel ‘52 e nel ‘53), per una minuscola città come Matera ammassata su un’esigua collina, si sarebbe potuto fare molto. In primo luogo era doveroso guardare agli abitanti dei “sassi” con una politica umana, idonea ed adeguata alle esigenze indilazionabili per cancellare il raccapricciante squallore che aleggia tutto intorno. Il che, fra l’altro, avrebbe dimostrato che la sensibilità degli italiani non è soltanto protesa verso popoli affamati, ma tiene anche conto che un pezzo dell’India esiste anche da noi ed in proporzioni tutt’altro che trascurabili. Sotto alcuni aspetti sociologici le condizioni dei “cavernicoli” di Matera sono più tetre, più toccanti di quelle indiane.
È opinione diffusa che i “sassi” siano disabitati, dopo l’esodo di qualche anno addietro di alcune famiglie verso dimore più accoglienti, più ospitali, in zona chiamata “Serravenerdì”. Non è esatto. Se alcuni riuscirono a dare l’addio alla zona più depressa d’Italia, altri sono stati lasciati dalle autorità in queste tombe dell’indigenza. Ottocento famiglie, nonostante il mutuo di altri cinque miliardi depositato non si sa da quale parte, rimangono ancora ad abitare sepolte nei “sassi”. Fu lo stesso Ministro Colombo in un tormentoso comizio pre-elettorale, ad annunciare lo stanziamento dei miliardi, unendolo allo slogan “case ai poveri”. Fu questo il tema centrale della spigliata ed accesa dialettica ministeriale. A tutt’oggi nulla è stato fatto ed il tutto è rimasto essenzialmente un’iniziativa cattedratica, ferma nelle pastoie burocratiche come tutte le iniziative propagandistiche.
Che le condizioni di vita di queste famiglie siano delle più disperate lo conferma un esempio fra tanti. Un certificato sanitario, a firma del dott. Michele Vinciguerra, descrive sommariamente le condizioni ambientali di un cittadino
Una grotta come dote
Malgrado il veto sanitario, Francesco Spagnuolo abita da oltre 25 anni in quella grotta, nonostante sia un grande invalido civile, giuridicamente riconosciuto. Siamo di fronte ad un uomo che può essere indicato come un caso-limite della prostrazione fisica per gli stenti in cui vive, ma non certo di fronte ad un caso unico in quanto lo spettro della miseria è un fattore comune per tutti questi “abitatori”. Ad 85 primavere suonate Francesco Spagnuolo è costretto a vivere solo, trasformato in uomo dell’età della pietra, circondato da una squallida atmosfera affettiva tanto da sospingerlo ad invocare spesso lo epilogo della lenta agonia per lui e per la propria consorte che, afflitta da un inguaribile morbo, qualche tempo fa, per intercessione di alcuni cittadini, fu ricoverata in ospedale, lasciando il marito nella più costernata solitudine. Da quel giorno Maria Spagnuolo non ha fatto più ritorno in quella grotta gocciolante da ogni parte a cui, nonostante tutto, era affezionata perché costituì, molti anni fa, la sua dote. In compenso la vita in ospedale è migliore. Almeno il cibo arriva tutti i giorni.
“È bene per lei e per gli altri” – ci dice il vecchio. Se non ci fosse stata la malattia nessuna pietà umana si sarebbe smossa per sottrarla alla fame e alla miseria, anche se le sue sofferenze non sono cessate, tutt’altro. Benché conscia di aggirarsi irrequieta sui confini dell’agonia, il tormento per suo marito Francesco, abbandonato alla incuria della nostra società, assume – nei pochi momenti di lucidità mentale della donna – dimensioni assai maggiori dello stesso male che lentamente ed impietosamente la sta uccidendo. Le tragiche vicissitudini dei coniugi Spagnuolo non sono le sole e nemmeno le più tristi. In condizioni peggiori vivono tante altre famiglie che – per una somma giustificabile di circostanze – preferiscono l’anonimo. Ma non al punto da occultare la propria miseria: unico patrimonio che detengono e che i vari governi che si sono avvicendati hanno cristallizzato nel tempo. Una miseria fatta di inenarrabili tribolazioni, di sofferenze di ogni genere, di scottanti delusioni, di lunghi digiuni, in un’epoca dal “miliardo” facile. Chi scende nei bassifondi dei “sassi” non può non provare un senso di vergogna e di riluttanza insieme per tutto ciò che gli occhi vorrebbero rifiutarsi di vedere; non si può non indignarsi contro coloro che sono rimasti sempre sordi al richiamo di questa povera gente anche quando esasperati si sono ammassati sotto gli uffici comunali chiedendo del pane, in nome dei propri figli. Né si può dar loro torto quando hanno implorato una casa, poiché il tempo ha insegnato loro che le abitazioni dei sassi si identificano più in tombe da sepolti vivi, in grotte dove vivono alla stessa stregua degli animali. Nessuna fantasia letteraria, per quanto spinta o colorita, riuscirebbe a riprodurre nelle sue giuste proporzioni il senso dello squallore da cui sono inghiottiti o, quanto meno, a dare una parvenza di credulità alla descrizione dello stato ambientale. È necessario scendere in questi dedali di caverne, dove ad ogni passo si incontra gente irriconoscibile, esseri senza domani, senza avvenire e senza alcuna speranza negli occhi. Come automi che si muovano ed agiscano per inerzia.
Il problema della casa
La casa rimane il primo, vero e grande problema che non può più ammettere dilazioni per quasi ottocento famiglie che vivono nella sporcizia, nel sudiciume, in vere e proprie stalle, senza l’indispensabile acqua, senza alcuna traccia di fognature. A questo quadro debbono aggiungersi condizioni sanitarie che portano a frequenti malattie, non escluse quelle veneree quale logico risultato della coabitazione e della miseria. Per giustificare questa situazione sul piano sociale, i circoli politici che governano la città – il centrosinistra – hanno messo in circolazione la voce secondo cui “gli attuali abitanti dei sassi non intendono sloggiare perché sentimentalmente legati all’avita terra”. Come dire – in altri termini – che non vogliono staccarsi dalle loro fogne (peccato che esistano solo dei semplici scoli in superficie) e non riescono a concepire un regime di vita in contrasto con gli schemi abitudinari alle cui leggi si ribellano persino gli animali. Se questa affermazione fosse da prendere in considerazione, dovremmo pensare che un certo numero di italiani (perché sono italiani) si è distaccato dalla nostra epoca per riportarsi indietro nel tempo, fino al paleolitico, all’uomo delle caverne con tutta la sua istintiva carica animale.
Perché gli amministratori di Matera non provano a chiedere l’opinione degli interessati? Per esempio a Maria Zuppariello, madre di otto figli, uno dei quali, Lucia, paralitico: “sono stanca di vivere – ci ha detto – voglio morire, non ce la faccio più, voglio una casa decente, qui è impossibile tirare avanti. Si ricordano di noi solo all’avvicinarsi delle elezioni: io li stramaledico”.
Ai “sassi” non si riesce neppure più a parlare di Dio. Si è giunti a limiti difficilmente raggiungibili in cui l’uomo non crede neppure più a se stesso, vinto dal troppo sperare e caduto nella più completa indifferenza per la sua sorte. E forse, questa è la verità quando si dice che 800 nuclei familiari come una mandria di bestiame, non vogliono lasciare il proprio arido pascolo. Neanche la chiesa, l’unica della zona, esiste più.
È stata abbattuta per essere trasformata in un bazar del sesso, dell’amore audace.
Sergio Chigno