“Il vento leggerà gradita sintonia” è il titolo della raccolta di poesia della professoressa e poetessa Amalia Marmo, che ritorna in libreria con quest’ultimo lavoro dopo “Vento del sud del Sud” con prefazione di Daniele Giancane del 2002, “Le rose di Pieria” con prefazione di Mario Santoro del 2007 e “Mnemosyne. Fili di memoria”.
In ogni verso della poetessa Amalia puoi trovare la sensibilità di una donna che torna in auge in qualsiasi momento della vita. Avverti nella sua lirica l’essenzialità della stess e i versi divengono portatori di sentimenti che vengono espressi nel momento in cui è molto cara l’ispirazione.
La poetessa non ha età che grava sulle spalle ma si sente portatrice di quel benessere che la fa sentire madre, mamma, nonna e questo quadro familiare le dona autentica forza d’amare.
Ecco che la sua poesia inquadra momenti di memoria del suo genitore, del quale avverte il desiderio di abbracciarlo e di sedergli accanto come quando… “Nelle sere d’estate, di sopra alla veranda tenevi fede che apprendessi la vita….. tu mi insegnavi che mai l’amore avrebbe avuto fine”.
Amalia “avvolta nel mistero” mette in evidenza il suo cuore giovanile che ascolta le canzoni preferite del jukebox in cucina “in attesa che la madre attenta alle faccende leggesse il mio pensiero o subisse la mia trasformazione (…).
Amanta si fa poetessa carica del pathos di vita, si confà alla continuità del tempo che scorre nella quotidianità portando con se la caducità della vita che passa, lasciandone tracce sul viso, sulla pelle e gli occhi sono testimonianza autentica reale di quello che vedono e osservano.
Molto bella è la silloge “Aspettando Godot”: “Una vecchia signora col viso cereo mi disse di non aver rimpianti nella vita (…) di aver avuto il mondo nelle mani, l’universo negli occhi, tra le braccia l’amore , che il dolore aveva sì bussato alla porta, ma non gli aveva aperto. Così allegra e senza nostalgia aspettava Godot”.
E in chiusura una nota su “Aspettando Godot”, l’opera più celebre di Samuel Beckett: “scritta tra il 1948 e il ’49, venne rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1953. Considerata l’opera più rivoluzionaria del teatro del 900, ruota attorno al tema dell’attesa (vana!) unitamente a quello dell’incomunicabilità e della solitudine dell’uomo moderno.
L’opera non ha una vera trama, non ci sono grandi azioni: tutto è costruito attorno al dialogo fra i personaggi. Ed è proprio dai dialoghi che emergono le idee principali su cui è costruita la pièce: la vita è dolore, un dolore costante, sempre presente e immutabile; la vita è solitudine, noia, ripetizione degli stessi gesti; l’uomo non sa nulla della vita, vive come disperso in una dimensione spazio-temporale che non conosce; l’uomo non ha più riferimenti, non ha più dio, è solo di fronte all’ignoto”.
Carlo Abbatino