Fino a 29 anni di età, impiego in turismo-commercio, servizi, una quarantina di voucher l’anno da 10 euro ciascuno (lordi), per una media di 350-360 euro (lordi) l’anno: è l’identikit del “voucherista” lucano così come emerge da un rapporto del Centro Studi Uil.
La stima dei voucher 2015 complessivamente per la Basilicata è di 847.288 (420.255 in provincia di Potenza e 427.033 in quella di Matera). Al 2014 il numero di “voucheristi” è 11.848 di cui 191 non comunitari. La differenza territoriale è riferita alla spiccata “stagionalità” del lavoro per il Materano. E’ un caso? Si sta forse realizzando un “insano” connubio tra voucher e lavoro stagionale? Dall’altra, molte delle province che meno utilizzano i voucher, sono quelle dove è più alta la disoccupazione ed…il lavoro nero. Anche questo un caso? Quale che siano le risposte – afferma Carmine Vaccaro, segretario regionale UIL Basilicata – la soluzione trovata con il Jobs Act di innalzare, il tetto a 7 mila euro, non farà altro che cannibalizzare sempre di più potenziali rapporti di lavoro subordinato attraverso l’utilizzo di questo poco tutelante (per il lavoratore) istituto che nel tempo produrrà, inevitabilmente, pensioni minime, instabilità lavorativa, bassa professionalità, e, soprattutto, un “buco fiscale” nelle casse dello Stato ed un indebolimento del sistema di sostegno al reddito (i voucher sono esentati dal contributo per indennità disoccupazione e non danno diritto ad essa). Con il nostro rapporto – continua Vaccaro – vogliamo contribuire ad una riflessione, in vista delle possibili modifiche al Jobs Act, con una attenta analisi da sottoporre alla Politica, al Governo, al legislatore ed alle imprese, al fine di ragionare come meglio regolare uno strumento che, se portato fuori controllo (come sembra stia avvenendo), rischia di alterare ogni equilibrio tra necessaria flessibilità per le imprese e tutele essenziali e minime per chi lavora. Di qui il raffronto dal 2008 al 2014 che registra in Basilicata circa 100mila voucher in meno.
Un passo indietro. Quando nel 2003 fu introdotto nel nostro ordinamento il “lavoro occasionale accessorio”, retribuito attraverso i “buoni lavoro” (voucher), in pochi contestarono la volontà del legislatore di tentare di regolare, in forma semplice e non burocratica, prestazioni di lavoro oggettivamente residuali e, appunto, occasionali. Ci si rivolgeva, in particolare, a quelle prestazioni brevi, saltuarie, accessorie, discontinue per le quali era, e purtroppo in gran parte ancora oggi è, in uso il pagamento in nero: piccoli lavori domestici, giardinaggio, pulizia e manutenzione di edifici, strade, parchi, monumenti, insegnamento privato supplementare (ripetizioni), consegna porta a porta, che spesso non vedevano forme “regolate” e “regolari” di lavoro.
Si trattava, essenzialmente, di quelle attività (purtroppo non da sole) dove si potevano più facilmente annidare sacche di lavoro nero.
Ed era questa la finalità principale per la quale nacque questo istituto: andare a coprire quella fetta di mercato occupazionale “nascosta” che sarebbe potuta rimanere tale anche in presenza delle nuove forme contrattuali flessibili nate nello stesso anno (co.co.pro., lavoro a chiamata, contratti di inserimento, somministrazione, etc).
Ma cosa è il “voucher”? Potremmo definirlo un ticket-lavoro, con un valore nominale ed orario di 10 euro lorde (comprensive di un 13% di contribuzione previdenziale alla gestione separata Inps, una copertura assicurativa Inail del 7%, ed un contributo per il concessionario del servizio pari al 5% da destinare all’Inps), e di cui 7,50 euro nette vanno al prestatore di lavoro.
Ad onor del vero, occorre dire che fino al 2012, il valore del buono lavoro era esclusivamente nominale (e non orario). La auspicata novità che ad 1 ora di lavoro corrispondesse 1 voucher (salvo la possibilità del committente di retribuire in misura maggiore il prestatore di lavoro), risale alla Riforma Lavoro Fornero (L.92).
Cade, con la Riforma Fornero, il riferimento al concetto di “accessorietà ed occasionalità” della prestazione da svolgere con i voucher, restando quale unico limite quello economico di 5 mila euro nette l’anno, che, da giugno 2015, sono state innalzate a 7 mila euro (intervento di modifica introdotto dal d.lgs 81/15 attuativo del Jobs Act).
Ma chi è il destinatario di tale tetto economico? Il solo prestatore di lavoro che, indipendentemente dal numero di committenti, non potrà percepire un importo maggiore.
Ed il committente? Il committente, da sempre, non ha alcun tetto economico annuo. Gli unici limiti economici sono legati al singolo prestatore di lavoro: il committente non può erogare più di 7 mila euro netti l’anno al “singolo” prestatore di lavoro, ma se il committente è un imprenditore commerciale o un professionista, non potrà retribuire il singolo lavoratore per più di 2 mila euro netti annui, e se si tratta di lavoratore percettore di sostegno al reddito non potrà erogare più di 3 mila euro netti l’anno.
Ciò significa, semplicemente, che il committente potrà avvalersi di più voucheristi stando attendo a non sforare i suddetti tetti per singolo prestatore di lavoro. Nulla di più.
E’ bene ricordare che i voucher non solo NON consentono un regolare rapporto di lavoro ma, come la realtà ci sta dimostrando, anziché ridurre un fenomeno diffuso e patologicamente presente nel nostro mercato del lavoro, come il lavoro irregolare o sommerso, rischiano, indirettamente di alimentarlo (recenti studi confermano come la quota di lavoro nero o fortemente irregolare sia in aumento). Cosa impedisce, infatti, ad un datore di lavoro di acquistare dei buoni-lavoro e poi, verificato che non sono “arrivati” gli ispettori, consegnarne solo una parte rispetto alle ore lavorate o, addirittura, riconsegnarli (ottenendo addirittura indietro l’importo dei voucher non consumati) o tenerli per altra occasione?
Cosa impedisce ad un titolare di ristorante anziché assumere, magari con il flessibile lavoro a chiamata, pagare con i voucher allettando anche lo stesso lavoratore con il “non pagamento” delle tasse sull’importo percepito?
Oggi, sostanzialmente, tutte le imprese commerciali, industriali, dei servizi, imprenditori agricoli, soggetti non imprenditori (famiglie, ad esempio, per servizi di cura e lavori domestici), ma anche enti senza fine di lucro, associazioni sportive, committenti pubblici (solo a titolo esemplificativo, tutte le amministrazioni dello Stato comprese Regioni ed Enti Locali), possono utilizzare i voucher per “retribuire” prestatori di lavoro.
Soggetti, questi ultimi, che nell’originaria versione normativa rientravano nella fascia di persone deboli e a rischio di esclusione sociale oppure non ancora entrate nel mercato del lavoro o in procinto di uscirne (quali i disoccupati da almeno 1 anno, disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari, casalinghe, studenti, pensionati), ma che oggi, grazie alla implacabile evoluzione normativa dell’istituto, ricomprendono qualunque status occupazionale (inoccupato, disoccupato, percettore di sostegno al reddito, occupato sia autonomo che dipendente, pensionato, giovane studente).
Si è assistito, quindi, nel corso del tempo, all’eliminazione di qualunque paletto soggettivo ed oggettivo, con un unico limite di utilizzo che è quello “economico” di 7 mila euro netti l’anno a prestatore di lavoro.
Questo snaturamento si manifesta immediatamente analizzando l’evoluzione quantitativa e soprattutto qualitativa. Infatti si è passati dalla prevalenza dell’agricoltura e delle manifestazioni sportive come settori di maggior utilizzo nei primi anni (2008, 2009) al prevalente uso nel 2015, nei settori del commercio, del turismo e dei servizi, in tutte le Regioni.