Il Gruppo parlamentare di Sinistra Italiana ha promosso una manifestazione a Roma in piazza Montecitorio su due temi di stretta attualità, la vicenda legata all’inchiesta sul petrolio in Basilicata e il referendum anti trivelle del 17 aprile e la riforma costituzionale. Di seguito la nota integrale.
In un clima surreale la Camera dei deputati, circondata dallo scetticismo di un Paese nel quale tanta gente vive con molta fatica e incredibili sacrifici, ha approvato ieri in via definitiva un progetto di modifica della Costituzione nato fuori dal Parlamento, costipato nelle dinamiche interne al Pd e dalla smania di Renzi, professore o professionista del potere.
Come è noto i deputati di Sinistra italiana, insieme ai rappresentanti di altre forze di opposizione, non hanno partecipato al voto per testimoniare lo sconcerto e l’amarezza per l’atteggiamento del presidente del Consiglio, che ha irriso il Parlamento non ascoltando minimamente le ragioni degli altri.
Ma Renzi è fatto così. Il tratto distintivo di questo Governo, che vive di “pane e riforme”, è nell’adozione di rimedi con forti controindicazioni, talvolta peggiori dei mali che intende curare, assunti con una smisurata enfasi comunicativa: insomma tanto fumo, poco arrosto, i nodi fondamentali vengono elusi, rimangono irrisolti. E’ fin troppo facile ricordare la pasticciata riforma delle Province, che ha finito per produrre altre inefficienze in servizi pubblici importanti, con un aggravio anziché una riduzione di costi per le casse dello Stato. Ma si pensi anche alla riforma del titolo V e in particolare dell’articolo 117 sull’articolazione dei poteri tra Stato e Regioni, che come i pacchi di “Affari tuoi” sono stati scambiati più volte in questi decenni e in particolare sulle questioni energetiche e segnatamente su quelle petrolifere, molto attuali in questi giorni e che hanno dato un po’ di dispiaceri al capo del Governo.
Temo che l’analisi sulla precedente riforma del titolo V non sia stata approfondita, e la necessità di riportare in capo allo Stato, riunificando e uniformando le politiche in alcuni settori essenziali e strategici per il Paese, finirà per mettere in ombra e non farci affrontare la crisi del “regionalismo”, molto forte negli ultimi decenni e in particolare per le Regioni del Sud: una crisi fatta di superfetazione e disarticolazione legislativa, di eccesso di gestione a scapito della programmazione, caratterizzata da sprechi nonostante la limitatezza delle risorse e l’ampiezza dei tagli, con conseguenze drammatiche sullo sviluppo, sull’occupazione, sulla stessa tenuta civile del Mezzogiorno d’Italia.
I profili istituzionali di questa questione non devono però nascondere quelli politici che attengono anche ai partiti, alla loro funzione, alla crisi del ceto politico più in generale.
Il presidente del Consiglio, in verità un po’ sottotono, oltre che sciorinare inutili numeri ha citato illustri padri costituenti, di sinistra in particolare. Io, invece, di provenienza comunista, voglio ricordare la grande Democrazia Cristiana, non quella già in crisi degli anni ’80, ma quella degli anni ’60. Quando le Regioni ancora non c’erano, quel Partito oltre che interclassista fu nei fatti regionalista: aveva infatti un gruppo dirigente ampio e plurale, costituito da personalità che erano anche leader e riferimento nelle loro regioni, che garantivano un equilibrio territoriale, sociale e politico anche nell’esercizio e nelle funzioni di governo. Renzi ieri ha rivendicato in nome della “democrazia decidente” la durata del suo Governo (ci possiamo aggiungere anche quella dei governi di Berlusconi e Craxi), evidentemente contro i tanti governi della DC che certamente duravano poco, ma che contribuirono a far crescere e a far grande quella Italia di cui oggi ci si vanta talvolta a sproposito.
Oggi invece spuntano capi e capetti che hanno Renzi come modello, che cercano senza granché riuscirci di imitarlo, con quel desolante spettacolo che i talk show e le cronache politiche rifilano a cittadini. I quali perdono sempre più fiducia nelle istituzioni e nella stessa democrazia, sempre meno partecipativa e decidente solo a chiacchiere e nella propaganda.
Nella seconda metà degli anni ’90, prima della precedente riforma del titolo V, una questione complessa e delicata relativa alla estrazione di idrocarburi in Basilicata fu affrontata e definita attraverso un percorso di cooperazione federalistica e solidale tra il Governo Prodi e la Giunta regionale Dinardo, mediante una intesa istituzionale di programma, in verità poi scarsamente attuata, e con un protocollo di intesa e specifici accordi tra l’Eni e la Regione Basilicata, purtroppo anch’essi non del tutto attuati, a dimostrazione che oltre al quadro di regole e di poteri c’entra la politica e l’etica della politica.
Come ormai tutti sanno le estrazioni di idrocarburi in Basilicata hanno una grande importanza per il settore energetico in Italia e una rilevanza molto ampia sotto il profilo della salute, dell’ambiente, della sicurezza nonché per quanto riguarda quello economico e sociale. Ma a circa vent’anni da quegli accordi, anziché procedere ad una valutazione più attenta delle questioni, degli effetti sul piano ambientale e dei mancati effetti sul piano economico e sociale, per giungere ad una nuova intesa istituzionale (auspicata dalla Camera dei deputati con un ordine del giorno approvato alla fine del 2013), la pulsione decidente di Renzi e del suo Governo ci porta in direzione opposta con il cosiddetto “Sblocca Italia” che anticipa la riforma del titolo V con un atteggiamento sprezzante del capo del Governo che liquida i tanti cittadini che si interrogano sulle conseguenze ambientali e sanitarie derivanti dalle estrazioni con la battuta sui “quattro comitatini”, mentre gli ambienti intorno al suo governo preparano comitati d’affari.
Lo “Sblocca Italia” è ancora una volta l’esempio del rimedio peggiore del male, lo è tuttora anche con le modifiche fatte con la legge di stabilità per eludere i quesiti referendari presentati da 10 Regioni, in particolare con la soppressione del comma 1 bis dell’articolo 38, lo è perché concede uno strapotere alle compagnie a danno degli interessi e delle necessarie funzioni di controllo pubblico anche per le piattaforme già operanti in mare con la eliminazione dei termini concessori.
La vicenda giudiziaria sul petrolio in Basilicata, (ricordo che è la terza e che le prime due si sono concluse con sentenze) è la buccia di banana per alcuni soggetti affetti da manie compulsive decidenti, ma purtroppo rappresenta anche il fallimento dello Stato nel suo insieme e dell’industria, a cominciare dall’Eni, in una vicenda iniziata con speranze e ottimismo e man mano degradata in senso totalmente negativo. Tutto ciò dovrebbe far riflettere sui limiti dell’agire in questo Paese e affrontare anche in Basilicata in termini nuovi ed intelligenti la questione energetica e il tema delle estrazioni, che riguarda tutta la nazione e non può essere liquidato con le battute fuori luogo pronunciate da un grande opinionista come Marcello Sorgi.
La stessa vicenda del famoso emendamento su Tempa Rossa ci deve far riflettere, al di là delle questioni di cronaca che fanno traballare questo Governo e ben oltre le tecniche e i lobbisti interessati ai procedimenti legislativi, perché la questione è di sostanza: se per superare la sindrome Nimby che molti problemi ha creato in questo Paese si adotta il metodo opposto, cioè in nome della urgenza e della strategicità si pensa di realizzare opere senza momenti di confronto trasparenti con le comunità e i cittadini interessati si compie un altro grave errore.
Proprio la vicenda dell’oleodotto, che certamente è complementare alle attività di estrazione già assentite alle compagnie operanti nella Valle del Sauro, della raffineria e del pontile da fare a Taranto, ci dimostra che la strada intrapresa presenta forti controindicazioni, che usa delle scorciatoie non utili: come tutti sappiamo proprio Taranto è il luogo dove la contraddizione tra lavoro, salute e ambiente si è drammaticamente evidenziata a causa della privatizzazione all’italiana dell’Ilva. Come non capire che quei cittadini che sono scottati da quella vicenda, temono nuovi insediamenti industriali, perché non aprire con la Regione Puglia che mai è stata contraria e con la città di Taranto e gli altri Comuni interessati un dialogo, un confronto che preveda il coinvolgimento di cittadini ed associazioni, una procedura che porti ad una intesa rassicurante sui temi della salute, un progetto di sviluppo a compensazione delle opportunità cessanti di altri settori, penso al turismo, con l’utilizzo di apposite royalties?
E invece no, bisogna passare su tutto e tutti, forzare tempi, informazioni, circostanze e procedere di notte, salvo poi a scoprire che per semplificare e fare presto non si penserà alla qualità dell’opera, non ci sarà un adeguato controllo pubblico, se ne occuperanno i fidanzati e gli amici degli amici sempre pronti a spremere questo paese, il suo ambiente, il suo territorio.
Questi stessi concetti li ho espressi nel settembre 2014 in una lettera aperta al segretario del Partito democratico con la quale mi autosospendevo proprio sulla vicenda dello sblocca Italia. Non ho mai avuto risposta.
Io, come tanti Italiani voterò sì il 17 aprile e voterò no a al referendum costituzionale, come mi auguro faranno la maggioranza degli italiani, perché anche in questo caso il rimedio è insufficiente e peggiore del male.
Nelle precedenti letture ho votato positivamente questa riforma nel convincimento che il bicameralismo perfetto va superato e che al Senato sarebbe stata modificata. Purtroppo la minoranza del Pd si è man mano adattata, si è accontentata di modifiche per me non sufficienti per avere un Senato almeno in parte eletto dai cittadini, e ciò è ancora più grave in presenza dell’Italicum che produrrà una Camera di nominati, sia delle forze politiche perdenti, che eleggeranno i soli capilista, sia di quella vincente, (al momento il Pd). Anche perché il fumo che il capo del Governo e i suoi accoliti producono non ci impedisce di vedere che con i collegi di 6 candidati è tutto in mano alle segreterie dei partiti e pur in presenza di una mediazione con le minoranze, il popolo non potrà scegliere.
Basta mettere in lista due persone meno conosciute e voilà, il gioco è fatto, tutti gli eletti sono i fidati del capo. Ancora una volta il rimedio è peggiore del male, il pifferaio magico butta il bambino anziché l’acqua sporca, invece di sollecitare le migliori energie in questo Paese comprime la democrazia, stravolge quella Costituzione con pesi e contrappesi che 70 anni fa fu voluta dai padri costituenti. I quali oggi si rivoltano nella tomba
Con il nostro no testimoniamo noi che c’è una parte grande di questa Italia che non si piega.
Vincenzo Folino, Deputato di Sinistra italiana