Riceviamo e pubblichiamo un intervento della presidente del CAI Ivana Giudice sulla violenza di genere, alla luce dell’ennesimo episodio avvenuto anche nella provincia di Matera, in particolare a Grassano con l’aggressione di una donna da parte di suo marito.
Ivana Giudice (CAI): “Quella strana fragilità economica e sociale della donna”. Di seguito la nota integrale.
La violenza di genere viene riconosciuta dalla Convenzione di Instanbul come “una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro contenuti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione…”. In effetti, con le donne vittime di violenza si è più volte constatato che gli interventi di prevenzione e contrasto alla violenza di genere sono del tutto inefficaci se la violenza di genere viene trattata come un problema individuale o di coppia. Nulla di più errato! La violenza dell’uomo nei confronti della donna è una dinamica di potere e di controllo che l’uomo esercita perché la donna viene vista e trattata come un oggetto di proprietà. Non dimentichiamo che l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) considera la violenza di genere come una ” violazione dei diritti umani “. Ma sino ad oggi i femminicidi continuano e con essi ancor più i maltrattamenti in famiglia, ovvero la cd ” violenza domestica”.
In più di un’occasione, l’esperienza diretta del Cai è stata proprio quella di poter constatare la fragilità economica della donna, che, nella maggior parte dei casi, è priva di un’occupazione ovvero, pur se occupata, lavora a nero. Questa condizione privilegia non poco l’azione abusante del maltrattante, il quale, facendo leva sulla propria capacità economica (il cd potere di chi porta a casa i soldi ), rafforza il potere che ha all’interno del nucleo familiare, finanche privando la donna dei guadagni derivanti dal suo lavoro a nero.
In tal modo, la donna maltrattata viene relegata ad un ruolo marginale nella famiglia, ovvero il ruolo della sottomissione…di colei che ” non porta i soldi a casa ” e, pertanto, non ha alcun diritto di prendere decisioni. È solo colei che deve soddisfare i bisogni del maltrattante. Ed è anche e soprattutto questa fragilità economica che, il più delle volte, conduce le donne ad accettare passivamente la condizione abusante in cui vivono. Ciò perché le donne sono ormai “piegate ” alla consapevolezza di non poter garantire né a loro stesse né ai figli, in speciale modo se minori di età, una esistenza dignitosa ed il più delle volte una sopravvivenza!
Accanto alla fragilità economica della donna vittima di violenza, si rileva un altro genotipo di fragilità, la cd. “fragilità sociale “. In questo caso è ancora più difficile troncare il rapporto abusante, e ciò che, nella tipologia di fragilita’ in esame, acquista un ruolo fondamentale e determinante è la cd. ” risposta sociale ed istituzionale “alla precipua richiesta di aiuto.
Ma cosa si intende per risposta sociale ed istituzionale?
Per porre fine alla violenza, le donne chiedono aiuto più volte nel loro percorso di uscita dalla violenza. E lo fanno sia rivolgendosi alla famiglia, agli amici, sia ai rappresentanti istituzionali, ovvero alle Forze dell’Ordine, Servizi Sociali, associazioni…e così via. La risposta che ottengono è quella determinante. Tuttavia, sia una vasta letteratura internazionale formatasi sull’argomento, che una concreta esperienza sul campo, hanno evidenziato allarmanti disfunzionalita’ nelle risposte che gli organismi coinvolti forniscono alla richiesta di aiuto. Difatti, sino ad ora è accaduto questo: il non riconoscimento della violenza o la sua minimizzazione, quando la situazioneviene trattata come unasemplice conflittualità di coppia, ovveroun litigio innocuo, e per questo vieneminimizzata. La colpevolizzazione della vittima, quando si solidarizza con l’uomo violento, che assurge a vittima e viene addirittura compatito, attribuendo, di converso, le cause della violenza a pecche, errori e mancanze della donna.La psicologizzazione femminile,puntando il dito su pseudodinamiche interne della donna o su sue presunte fragilità personali.
Dinanzi a tali dinamiche di non aiuto, è conseguenziale che la donna vittima di violenza non potrà mai iniziare un percorso di uscita dalla violenza, e ritornerà sempre dal suo carnefice.
Il vero problema è che le tante storie personali delle donne vittime di violenza appaiono sempre più come espressione di un fenomeno culturale, ancorato a quell’immaginario patriarcale totalmente costruito sul ruolo dominante del maschio predatore e della donna sottomessa. In questa concezione atavica e patriarcale, la donna o va protetta o va predata. L’idea che una donna sia una persona, e quindi appartenga solo a sé, è un concetto che ancora fatica ad affermarsi nella società. Una società fatta non solo di uomini, ma anche di donne. Uscire dallo schema per la donna significa essere etichettata come “pazza”, ” inadeguata”, “di facili costumi”, oppure come ” irresponsabile” o addirittura “corresponsabile”, e quindi meritevole delle reazioni violente dell’uomo compagno.
In conclusione, la fragilità sociale della donna, a differenza di quella economica, viene socialmente costruita. In che modo? Colpevolizzandola, marginalizzandola, isolandola, giudicandola per la violenza che lei stessa subisce. Proprio per questo, con la finalità di incrementare i livelli di efficacia e di efficienza degli interventi di contrasto alla violenza sulle donne, e nell’ ottica di una responsabilita’ sociale condivisa, noi riteniamo che mai come ora sia necessario creare e promuovere la costruzione di una Rete Territoriale, che coinvolga Centri Antiviolenza, Forze dell’Ordine, Servizi Sociali, Ospedali, Istituzioni, Case Rifugio, Imprenditori, Giornalisti, per riconoscere la violenza di genere e le sue dinamiche, parlarne con un linguaggio condiviso, evitare pratiche dannose e dare risposte adeguate e funzionali alle richieste di aiuto, finalizzate a rafforzare le donne e a dare voce al loro desiderio di autonomia ed emancipazione economica e sociale necessari ad uscire dal tunnel della violenza.
Nella foto Ivana Giudice