Purtroppo non c’è solo il caso dei “rigatoni alla bolognese” con prodotti che non hanno nulla a che fare con quelli autentici made in Italy, rilanciati dal prestigioso New York Times e che sta facendo discutere. Gli agri-chef e i titolari delle aziende agrituristiche del circuito Turismo Verde-Cia Basilicata riferiscono che sono vittime di “agropirateria” numerosi prodotti tipici lucani come il caciocavallo, il pecorino di Moliterno, i salumi di Picerno, l’Aglianico del Vulture, l’olio delle colline del Materano, la farina di grano duro “senatore” del Materano, il peperone di Senise, solo per citare i più “imitati-contraffatti” specie in vendita negli Usa. Negli scaffali dei supermarket negli Usa è facile trovare “cold cuts lucan” spacciati per salumi di Picerno o “chees lu’kan” spacciati per formaggi nostri e persino bottiglie di “alianik”.
Un business che per le produzioni alimentari della nostra regione raggiunge un giro di affari milionario, sottratto agli agricoltori autentici, e mette a rischio la salute dei consumatori. Un affare da 60 miliardi di euro l’anno, di cui un terzo realizzato solo con la contraffazione dei nostri formaggi di qualità. Questa la portata economica del business dell’agropirateria internazionale nei confronti del “made in Italy”.
“La situazione – osserva la Cia lucana – è di estrema gravità. Ci troviamo di fronte a un immenso supermarket dell’agro-scorretto, del “bidone alimentare”, dove a pagare è solo il nostro Paese. E il danno, purtroppo, è destinato a crescere, visto che a livello mondiale ancora non esiste una vera tutela delle nostre “eccellenze” Dop, Igp e Stg”.
E poi ci sono i prodotti che arrivano dall’estero con etichette (o senza) italiane. I sequestri da parte delle autorità competenti italiane negli ultimi due anni si sono più che quadruplicati. E ciò significa che i controlli funzionano, ma il pericolo di portare a tavola cibi “a rischio” e a prezzi “stracciati” è sempre più incombente. I più colpiti dalle sofisticazioni sono i sughi pronti, i pomodori in scatola, il caffè, la pasta, l’olio di oliva, la mozzarella, i formaggi, le conserve alimentari. E l’allarme maggiore è per quello che viene dalla Cina che, nonostante il calo delle esportazioni “ufficiali” in Italia, riesce a far entrare nella Penisola grandi quantità di prodotti che possono mettere a repentaglio la salute, oltre a provocare gravi danni all’economia agricola nazionale. Su tutti il caso dei pomodori cinesi.
“Di fronte a questa ‘rapina’ giornaliera – continua la Cia – bisogna dire basta. Ma per mettere un freno al fenomeno dell’italian sounding e all’agropirateria globalizzata servono misure reali ed efficaci. Ecco perché ora bisogna fare qualcosa di più: il “made in Italy” agroalimentare è un settore economicamente strategico -osserva la Cia- oltre a rappresentare un patrimonio culturale e culinario che è l’immagine stessa dell’Italia fuori dai confini nazionali. Adesso servono misure “ad hoc” come l’istituzione di una task-force in ambito Ue per contrastare truffe e falsificazioni alimentari; sanzioni più severe contro chiunque imiti prodotti a denominazione d’origine; un’azione più decisa da parte dell’Europa nel negoziato Wto per un’effettiva difesa delle certificazioni Ue; interventi finanziari, sia a livello nazionale che comunitario, per l’assistenza legale a chi promuove cause (in particolare ai consorzi di tutela) contro chi falsifica prodotti alimentari.
Ago 21