L’onorevole Vincenzo Viti esprime alcune considerazioni rispetto alla possibilità di realizzare una macro-regione denominata Grande Lucania. Di seguito la nota integrale inviata alla nostra redazione.
Il richiamo a visioni suggestive, a confini meno angusti, al recupero di feudi perduti e di appartenenze vulnerate dalle potenze (o inerzie) della Storia esercita sempre un fascino estremo e si offre a diffusi vagheggiamenti e aspirazioni. Va riconosciuto tuttavia che, dietro la ricerca di patrie allargate, vi è sempre l’aspirazione al consolidamento (o alla ricerca) di quel senso comune che chiamiamo identità.
Dire che la Basilicata soffra di una anemia di identificazione unitaria è affermazione perfino ovvia e documentata. Viviamo in una regione che, priva di un mito fondativo, costruita perciò su una convenzione storica e civile e tuttora posta in discussione (come dai diffusi timori si registra) nella sua unità territoriale e politica, ha sempre manifestato qualche sofferenza a reggere solo sul ruolo di un capoluogo che oscilla fra le ambizioni di corte carolingia o di città “versaillese” e la condizione (come tante altre nel Mezzogiorno) di città sostanzialmente sussidiata dal pubblico. Mentre un capoluogo regionale che si rispetti avrebbe dovuto assumere nella sua missione la regola di organizzare e distribuire poteri e non di coltivare un modello entropico, soprattutto in una regione che non è priva di città, quindi stranamente eccentrica rispetto al modello di territorio “senza città” descritto da Isnardi in tempi andati. Tutte città da coinvolgere in un destino condiviso e in un sentimento unitario. L’unico che possa fondare stabilmente l’identità di una comunità.
La Basilicata è stata ed è quindi un’idea incompiuta. Non è un caso che l’”elevazione” di Matera a Capitale Europea della Cultura abbia per un verso giovato al profilo complessivo della regione, per un altro riacceso su entrambi i versanti del territorio dispute d’antan e rigurgiti di antiche secchie rapite, pur a fronte di qualche egoismo territoriale (non facile da giustificare) da parte di quello che appariva e appare “il luogo”, “il quid” che presume che energie e intelligenze si siano concentrate prevalentemente in un punto fatale della geografia e della storia.
Questo il quadro sottostante alle rivendicazioni in ordine alla “Grande Lucania”, idea tenera (per via dell’indulgenza al nome antico della regione) ma galvanizzante e agitata sulle ali di una pretesa di sopravvivenza come unità amministrativa e perciò sostenuta da qualche ipotesi espansionistica. Un’idea certamente non banale ma da maneggiare con cura. Il pericolo infatti è che essa finisca con l’essere agitata come una bandiera populistica, meramente rivendicativa, affidata magari a legionari infervorati e a scorrerie localistiche. Si tratta invece di un obbiettivo assolutamente serio che non può nascere solo dal tema della soppressione di una regione amministrativa (peraltro ipotizzata lustri addietro dalle teorie del Lingotto).
Sicchè, se davvero intende affermare le sue vere ragioni, la cosiddetta “Grande Lucania” è progetto da “costruire” su un’idea inedita della Basilicata: se istituzione proconsolare o territorio da ripensare e riorganizzare radicalmente. La vera impresa è quindi ancora da compiere: verso una regione immaginaria, policentrica, disseminata di strutture organicamente collegate alle risorse (turismo, beni ambientali e culturali, Università e ricerca, sistema agroalimentare, economia verde, energie verso il mix nella transizione dal modello storico ad uno integrato e innovativo). Con un disegno organicamente ridefinito la Basilicata potrebbe certamente ambire ad espandersi verso il Vallo di Diano e lungo la proiezione ionico-tarantina: poiché un’economia, guidata e regolata secondo un costrutto razionale, finisce con il giocare un ruolo aggregante che supera i confini amministrativi e può disegnare un ambito più largo e più coerente.
Ecco perché un’idea espansiva ma priva di progetto non potrebbe mai reggere sul tumulto o solo sulle firme o sui proclami, se non dispone di un disegno che chiama in causa la Politica, l’Economia, la Società insomma le Classi Dirigenti. Se non regge cioè su un messaggio vincente e mobilitante centrato su una concreta prospettiva di sviluppo.
Appare questa, l’unica alternativa allo sfarinamento di una regione che, prima di morire per secessione territoriale (verso dove, verso nuove mortificanti periferie?) o per l’editto di un Governo di fisiocrati, potrebbe già oggi sparire per suicidio di una classe dirigente chiusa nei suoi antichi e illusori fortilizi e incapace di scrutare il vento.
In fondo è questa la proposta formulata alla Svimez, perché nel Rapporto 2016, si puntino i fari sulla missione, da attribuire nella strategia di sviluppo euro mediterranea, a una regione interna qual è la Basilicata tuttora alla ricerca di una ragione di coesione e di consistenza a servizio del Mezzogiorno continentale. E l’adesione che viene dal Presidente Giannola incoraggia a consolidare un indirizzo come questo, suggerendo il recupero di una dote antica della Politica ch’è la profezia e l’invito ad evitare scontri fra piccoli potentati e califfati: poiché il futuro è nell’incontro e nella sintesi fra le vocazioni, non nello sferragliare di armi antiche o nella fuga verso paradisi immaginari.
Vincenzo Viti
Consigliere Svimez