Riceviamo e pubblichiamo un intervento di Pierluigi Diso sul referendum costituzionale che si terrà il prossimo 4 dicembre.
Matteo Renzi ha fatto delle riforme istituzionali, oltre che della legge elettorale, uno dei punti principali del suo programma sin dai primi giorni di vita del suo governo, annunciando già al suo primo discorso nell’aula del Senato, chiedendo la prima fiducia nel febbraio 2014, il desiderio di voler essere l’ultimo Presidente del Consiglio a chiederla anche ai senatori. Il suo progetto era basato anche sui frutti del patto del Nazareno stretto il mese precedente con Silvio Berlusconi, con il quale mirava ad un veloce percorso di riforme contando sull’appoggio in Parlamento anche di Forza Italia. L’accordo naufragò all’inizio dell’anno seguente, a causa dei contrasti sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, perché Renzi fece un nome solo, Sergio Mattarella e le opposizioni non poterono fare altro che votarlo. Durante i vari passaggi del testo nelle aule parlamentari, non si è verificato quindi l’auspicato allargamento del consenso oltre i confini della maggioranza di governo, soprattutto perché chi come Bersani e D’Alema chiedono ancora oggi di poter contare qualcosa, pur essendo in minoranza nel partito e nel Paese. Ecco che Matteo Renzi e la ministra Maria Elena Boschi – che hanno presentato il progetto di riforma al Parlamento – hanno dovuto fare i conti, oltre che con il dissenso dei partiti di opposizione, anche con le correnti di minoranza interne al loro partito. Dibattuto per mesi, con critiche provenienti da esponenti del Partito Democratico sostenitori del suffragio diretto, è stato infatti l’articolo relativo alle nuove modalità di elezione dei senatori, che nelle prime versioni non prevedeva alcuna espressione di preferenza dei cittadini. Diversi componenti del PD, inoltre, hanno continuato a mantenere un atteggiamento ostile anche dopo l’approvazione parlamentare del disegno di legge, “pur avendolo votato” (leggasi Bersani), esprimendo riserve legate alla necessità di cambiare la legge elettorale e criticando il rischio di strumentalizzazione personale del referendum da parte di Renzi. Alcuni di essi, tra cui Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, si sono poi apertamente schierati per il «no», tanto che ieri a Bari lo stesso Presidente Mattarella li ha invitati ad abbassare i toni, mentre D’Alema si sedeva accanto al senatore Gaetano Quagliariello. Quasi tutti i parlamentari dell’opposizione (tra i cui partiti figurano Movimento 5 Stelle, Lega Nord, Forza Italia e Sinistra Italiana) hanno preferito lasciare l’aula al momento del voto finale di approvazione, scappando più che criticando il Governo; non hanno nemmeno votato contro. La partita si gioca nel campo e non sugli spalti. Eppure hanno accusato Renzi di aver forzato in modo autoritario il cammino del ddl, denunciando il rischio di limitazione dello stato di democrazia chiedendo a gran voce la riforma della legge elettorale per prima cosa. Eppure i passi si fanno l’uno avanti all’altro. Iniziamo dalla riforma della seconda parte della Costituzione per poi porre attenzione all’Italicum. D’altronde, gli effetti congiunti della riforma della Costituzione e della nuova legge elettorale, l’Italicum, darebbe a quest’ultima la possibilità di consegnare la maggioranza assoluta alla Camera a un solo partito a prescindere dall’entità del consenso popolare. Renato Brunetta ha addirittura giudicato l’approvazione delle forze di maggioranza (Partito Democratico, Nuovo Centrodestra, Scelta Civica, UdC) come un «atto eversivo». Tra le opposizioni però è da segnalare che a livello locale vari amministratori appartenenti a Forza Italia si sono discostati dalla linea nazionale del «no» scelta dal proprio partito, aderendo a comitati a sostegno della riforma. Gli oppositori della riforma stanno strumentalizzando il voto solo perché vogliono mandare a casa questo Governo, perché si ritengono capaci di tornare al potere e fare loro le riforme, addirittura dopo che il popolo si sarà espresso il 4 dicembre prossimo, specie se con un NO. Tutto ciò sarà mai possibile? Nessuno degli oppositori è però ancora entrato nel merito della riforma Renzi-Boschi. Il ricorso al referendum sarà la cartina di tornasole che dirà al Governo se ha un più ampio consenso popolare, nonostante le aperture al dialogo che ha visto al momento solo la chiusura al confronto e a più profonde riflessioni da parte delle opposizioni che hanno avuto sino ad oggi un comportamento ostruzionistico.
Eppure, molti cittadini non sanno, come afferma Francesco Clementi, che la riforma tenta di fare una sintesi di «quanto di più condiviso vi è stato nelle proposte degli ultimi trenta anni» e continua dicendo che la riforma sarebbe in grado di portare l’Italia tra le «migliori liberal-democrazie europee».
Pierluigi Diso