Il 5 marzo la Uil ha compiuto 67 anni. Per noi è una giornata importante, un’occasione per riflettere sulla nostra Storia, ma anche per ragionare sul futuro che ci attende. E l’appuntamento più ravvicinato che ci attende è la Prima Conferenza di Organizzazione che terremo il 24 e 25 marzo con la parola d’ordine: “Lavoro, una passione che non passa. Giovani, territorio, comunità” e che sarà articolata in due fasi: la prima il 24 a Potenza con la presentazione del Rapporto sul lavoro nel 2016 a cura del Centro Ricerca Studi del Sociale e del Lavoro alla presenza di Giorgio De Rita (Censis) e Guglielmo Loy segretario confederale; la seconda il 25 a Tito al Centro Congressi Cecilia con il dibattito e la presenza del segretario nazionale Carmelo Barbagallo.
Nel corso di tutti questi anni, la nostra Organizzazione ha tenuto fede al progetto programmatico redatto il 5 marzo di sessantasette anni fa. “Intervenire attivamente in tutti i problemi di politica sociale ed economica ed ogni volta che, direttamente o indirettamente, siano in gioco le sorti della classe lavoratrice”: questo era ed è il quinto e ultimo punto di quell’atto fondativo al quale abbiamo sempre cercato di dare attuazione.
Partecipazione e dialogo, sino alla temporanea assunzione di una responsabilità concertativa nella gestione della politica economica del Paese, sono stati i tratti distintivi della nostra azione. Tuttavia, non abbiamo derubricato dal nostro vocabolario la parola “lotta”: sono state tante le stagioni in cui abbiamo fatto ricorso alla mobilitazione per suscitare il consenso intorno alle nostre proposte. Strumenti e metodologie possono interscambiarsi, ma l’obiettivo resta sempre lo stesso: la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, dei giovani in cerca di lavoro. C’è un principio che ci guida costantemente: coniugare la libertà e la giustizia sociale. Noi lo abbiamo sempre applicato e, quando questo principio riformista ha prevalso, il Paese ha fatto passi avanti.
E guardando al presente e al futuro, occorre un sindacato che non abbia paura di osare, che apra le sue porte, che esca dai suoi santuari e torni a consumare le suole delle scarpe nei posti di lavoro, per la strada, ovunque si possano creare forme vere e nuove di democrazia partecipata. Occorre un sindacato che torni a guardare fuori di sé evitando di concentrarsi nella osservazione del proprio ombelico, perché in questo suo particolare stato d’intontimento il sindacato ha perso molte delle ragioni della sua competitività sociale. Ad esempio la capacità di visione e di rappresentazione sulle questioni più urgenti che avvolgevano il Paese dentro spirali a dir poco concatenate. Scorgere, anticipandoli e rappresentarli in maniera organizzata, in tutti questi lunghi anni, ha segnato lo stato di buona salute del sindacato. La sua vicinanza con il valore incondizionato delle grandi questioni collettive in cui si riconosceva il destino di un intero Paese.
Sappiamo, invece, che la narrazione del sindacato è stata altra. E’ stato percepito e giudicato fuori dalla piazza, lontano dagli umori positivi ed innovativi che scuotevano l’immobilismo di Stato, quasi arroccato in una sua perfetta ed impenetrabile torre d’avorio, da cui lanciare superficiali occhiate sul dorso del cambiamento. E’ stata la scena della sua crisi più profonda, in cui ha perso credibilità e potere di negoziazione.
Che fare, allora? Innanzitutto rinunciare per sempre alla sua neutralità. Sta già qui la nuova missione del sindacato. Non essere più come è stato. Cambiare il suo statuto di funzionamento ordinario. Scegliere le virtù del fare come il cambiamento ed il coraggio al posto di quelle inconcludenti della prudenza e dell’attesa tattica.
Oggi siamo chiamati a dare un nuovo senso alla Uil. Ed un nuovo senso non può che essere quello della ripresa del riformismo, un luogo del fare operoso dove le questioni del Paese sono assunte come nuovo impegno e nuova responsabilità per la missione moderna e avanzata del sindacato.
Mar 06