Presso il complesso rupestre “Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci” di Matera è stata presentata alla stampa la 30^ edizione de “Le Grandi Mostre nei Sassi”. La storica rassegna di scultura contemporanea, organizzata dal Circolo “La Scaletta”, celebra il trentennale con l’antologica di Novello Finotti “Dalle profondità del tempo”, a cura di Beatrice Buscaroli.
Per Novello Finotti si tratta di un gradito ritorno nella città dei Sassi a distanza di 44 anni dalla mostra in cui presentò diverse sculture di piccole dimensioni nello Studio Arti Visive di Franco Di Pede nel 1972.
Nel corso della conferenza stampa con l’artista sono intervenuti Ivan Franco Focaccia, presidente del Circolo “La Scaletta”, Beatrice Buscaroli, curatrice della mostra e del catalogo ed Edoardo Delle Donne, storico dell’arte.
Ivan Focaccia, presidente del Circolo “La Scaletta” e allestitore della mostra, ha presentato con orgoglio la 30^ edizione delle Grandi Mostre nei Sassi ha dichiarato: “Tutto è iniziato nel 1987, con la prima grande mostra scultura di Fausto Melotti la prima di un ciclo annuale di esposizioni che ha coinvolto in questi anni nomi prestigiosi della scultura contemporanea.Con Finotti siamo andati sul sicuro per celebrare 30 anni di Grandi Mostre. Credo che ci sono in particolare tre sculture che sono legate in maniera particolare al nostro territorio, come se fossero state pensate per Matera. Mi riferisco a “L’uomo che cammina”, che segna il cammino dell’uomo murgiano lungo 20 mila anni di storia, a “La macchina del tempo”, che scandisce i millenni che passano e “la donna tartaruga”, che rappresenta con la sua carapace il luogo in cui l’uomo trova ricovero”.
Nella scultura di Finotti –ha sottolineato Beatrice Buscaroli, curatrice della mostra e del catalogo, alberga qualcosa che ha a che vedere con il totemico, con il carattere magico del feticcio. E per totem non deve intendersi un oggetto arcaico, quanto piuttosto l’espressione sintetica di sentimenti e di desideri che operano nella vita che ci circonda. Nella scelta del materiale delle sue sculture, dal marmo bianco di Carrara, al marmo nero del Belgio, fino al marmo rosa del Portogallo, sembra ogni volta che venga esaltato l’aspetto più spettacolare, sapientemente lavorato”. Le note biografiche presenti nel catalogo sono state scritte dallo storico dell’arte Edoardo Delle Donne. “Ho immaginato di raccontare la storia artistica di Finotti attraverso alcuni aneddoti, episodi, pensieri e riflessioni del Maestro- ha spiegato Delle Donne- in quanto è proprio attraverso il pensiero di un’artista che si riesce a comprendere la sua arte”. “L’opera deve avere un suo linguaggio, deve riuscire a provocare delle sensazioni in chi la sta ammirando- ha osservato Finotti – colui che ha realizzato un’opera non deve mai descriverla per non togliere la possibilità a ogni persona che la guarda di dare la sua interpretazione. E’ stata una lotta durissima collocare le mie opere in questi spazi – ha commentato l’artista – la passione e l’impegno del Circolo “La Scaletta” e del suo staff di collaboratori nel curare l’allestimento mi hanno conquistato, eliminando ogni iniziale ritrosia”.
L’inauguazione è prevista venerdì 30 giugno alle ore 18.30 nelle chiese rupestri Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci.
Con le opere del Maestro veronese l’associazione culturale materana celebra il trentennale della rassegna di scultura contemporanea “Le Grandi Mostre nei Sassi”, nata nel 1978, quando negli antichi Rioni e nel prospicente altopiano murgiano furono collocati i “ferri” di Pietro Consagra. Un atto di denuncia dello stato di abbandono dei Sassi e il sogno di alcuni giovani visionari, trasformato in realtà grazie all’ impegno di tutti questi anni e la nomina della città a Capitale europea della cultura 2019.
Tra sogno e realtà sembrano fluttuare le sculture in marmo e in bronzo del raffinato artista scaligero, tra i più importanti esponenti dell’arte contemporanea italiana e internazionale.
Finotti si è formato all’Accademia di Belle Arti di Verona, ha esposto le sue opere in tutto il mondo: da New York a Tokio, dall’ America Latina ai Paesi del Nord Europa, fino ad arrivare a Busan, dove lo scorso anno ha incantato il pubblico coreano. In Italia ha partecipato tre volte alla Biennale internazionale d’arte di Venezia (1966, 1984 e 2014) e nel 1976 è stato invitato alla Quadriennale nazionale d’arte di Roma.
L’antologica di Matera, a cura diBeatrice Buscaroli, presenta nelle chiese rupestri trentotto opere e nella saletta della Grafica del Musma, Museo della Scultura Contemporanea, sette acqueforti e sette sculture.
La mostra ripercorre cinquant’anni della produzione artistica di Finotti, dalle prime imponenti opere in bronzo, come La macchina del tempo, Immagine dissepolta e Senza titolo, datate 1965-1966, con cui ha partecipato alla 33^ edizione della Biennale di Venezia, al recente Omaggio a Giulietta del 2014, simbolo universale dell’amore e di Verona.
Nel percorso espositivo i marmi bianchi dei 22 elementi che compongono “Omaggio a Shakespeare”,1980-1984, brillano tra le luci soffuse della cripta di Madonna delle Virtù, evocando enigma, mistero e spiritualità. L’itinerario nei suggestivi ambienti ipogei prosegue con sculture che richiamano eventi tragici del secolo scorso come “Dopo Chernobyl”, 1986-1987, metamorfosi e compenetrazioni con il mondo animale e vegetale. Un viaggio tra la profondità interiore e la leggerezza dello spirito e della materia di “Prego non fatemi il solletico”,1990-1994e la velata sensualità di “Mantide 2”, 1998. Fino a risalire verso “Il Cammino dell’Uomo” 1968-1969, un’opera, tra le più importanti dell’artista, che richiama la storia millenaria di Matera e il suo percorso, invitando a riflettere sui concetti di Morte e Rinascita, attraverso l’incedere di un essere umano verso una porta spalancata al futuro.
La rassegna “Le Grandi Mostre nei Sassi”, negli anni scorsi, ha ospitato artisti come: Consagra, Melotti, Martini, Cambellotti, Fazzini, Matta, Milani, Andreotti, Kolìbal, Negri, Raphael, Mascherini, Hare, Viani, Mirko, Lassaw, Azuma e altri ancora, oltre alle edizioni delle Biennali di Scultura Contemporanea dedicate all’Italia, all’America e alla Francia.
La rassegna ha il patrocinio di MiBACT, Regione Basilicata, Fondazione Matera- Basilicata 2019, APT Basilicata,Università degli studi della Basilicata,Provincia, Comunee Fondazione Zétema di Matera.
L’iniziativa èrealizzata grazie al sostegno delMain sponsor Total; glisponsorSoc. Coop. Cave Heritage, Attilio Caruso, agente generale Unipol Sai, Cementeria Matera- Italcementi Group e i contributi delle aziende materane Frascella Emanuele s.r.l. e Stella All in one s.r.l.
Il catalogo con le foto delle opere esposte, pubblicato da Giuseppe Barile Editore, è a cura di Beatrice Buscaroli con le note biografiche di Edoardo Delle Donne.
La mostra resterà aperta fino al 5 novembre 2017, con i seguenti orari:
dal 30 giugno al 30 settembre, tutti i giorni, con orario continuato 10-20;
dal 1 ottobre al 5 novembre 10-13.30 e 15.00-18.00.
Ingresso: intero 5.00 euro- ridotto 3.50
Ridotto per studenti fino a 24 anni, over 70 e soci FAI.
La gestione della mostra è garantita dalla Soc. Coop. Cave Heritage- Arte Cultura e Turismo
Per informazioni: 377.4448885; info@caveheritage.it
Nella pietra
Intervento di Beatrice Buscaroli, curatrice della mostra di Novello Finotti
Tentiamo di partire da una premessa: la scultura è davvero una “lingua morta”? Davvero è l’esangue propaggine di quella funzione monumentale e celebrativa che si si esercita nello spazio tridimensionale, incapace di uscire dai limiti della tradizione dove tutti copiano qualcuno, gli egizi o gli etruschi, la statuaria classica o, nei moderni, i “fantocci dell’ Isola di Pasqua”? Davvero è quel triste fallimento di cui amaramente scrive Arturo Martini?
Oppure la sua sterilità potrà trasformarsi in un “grembo plastico” capace di generare nuove forme? Di dar vita a nuove creature? Insomma, come già sottolineava mezzo secolo prima Adolf von Hildebrand, è possibile poter pensare alla scultura come lento atto di nascita, come generazione consapevole, lento risvegliarsi della forma che giace dormiente nel suo elemento primordiale? La fantasia dell’autore è il veicolo che sospinge la forma a emergere, a conquistare il proprio spazio.
Almeno in parte, Novello Finotti pare porre attenzione ai pericoli enunciati da Martini e seguire la procedura indicata da Hildebrand. Almeno in parte, certamente. Poiché nella sua ricerca si è venuta manifestando un’attenzione rivolta alle “traslazioni morfologiche” – come le definisce Giorgio Di Genova –, a quegli slittamenti concettuali e simbolici che sconvolgono le funzioni attribuite alla forma.
Infatti il mondo di Finotti è un mondo fantastico nel quale si insinuano palpiti di realtà: «Egli è attratto – scrive Massimo Bertozzi introducendo il catalogo della mostra ordinata al Palazzo Ducale di Massa Carrara nel 1999 – dal lato enigmatico degli esseri e delle cose, ma non si abbandona a un facile ripiegamento surrealista verso il subconscio e spinge piuttosto la sua sensibilità a più ambiziose intenzioni, a suggestive invenzioni formali».
Finotti disegna una poetica che s’incentra sull’enigma della forma che non si risolve in una curiosità enigmistica per puntare piuttosto sul confine sottile, incerto, ambivalente, che si dispone tra sogno e pensiero, tra desiderio e razionalità, tra passione e rigore.
Più che alla relazione tra materia e spazio Finotti pare interessato alla natura che la forma assume: allusiva ed evocativa, un po’ come accade nelle “proiezioni” dei primi lavori di Alberto Giacometti, o nelle “strutture senza fine” di Constantin Brancusi. Proiezioni di una realtà che non sembra essere sincronicamente accordata con la nostra esperienza; deformazioni conturbanti che suscitano una proliferazione metaforica, l’innesco di una rete di significati che scandaglia l’esperienza profonda dello spettatore.
La disseminazione dell’ Omaggio a Shakespeare, le riflessioni su Anubi, le inquietanti contaminazioni delle Compenetrazioni e di Eva e Adamo, costituiscono altrettante espressioni di quel gioco di trasfigurazioni che anima la scultura di uno scultore raffinato e innamorato della relazione con i propri materiali d’adozione – marmi, terracotta, bronzo – qual è Finotti.
«L’idea, il concetto fecondo, è in realtà quello di dare vita e vitalità al materiale. Quando diciamo che una grande scultura possiede visione, potere, vitalità, equilibrio, forma, bellezza, non parliamo di attributi fisici. La vitalità non è un attributo fisico o organico della scultura – è una vita spirituale interna». Così si esprime la scultrice inglese Barbara Hepworth nel 1932, dopo aver fatto visita a Hans Arp. Amica e sodale di Henry Moore, intenta a “costruire” metafore organiche nelle quali traspaiano elementi di realtà, a ricercare una correlazione stabile tra nucleo plastico e superficie esterna che lo avvolge, Hepworth resta affascinata da un gesto – quello di Arp – che pone in primo piano un processo di trasformazione organica che vogliono suscitare un’illusione di temporalità.
Ecco il punto: la temporalità. È la modalità attraverso la quale il tempo coinvolge la scultura che conferisce ad essa equilibrio, vitalità, “bellezza”. Ed è quello che, in un certo senso, accade in Finotti.
Né surrealtà, né costruzione analitica, ma fedeltà al materiale che altera le modalità classiche della temporalità, metamorfosi che scandiscono passaggi secondo sequenze plausibili per quanto sorprendenti, che esaltano le potenzialità spirituali della materia di cui la vita è fatta. Finotti sembra procedere dallo slancio vitale di Henri Bergson alle intime pulsazioni della filosofia zen.
E in questo chiasmo albergano molteplici pulsioni: seduzioni e violenza, sensualità e orrore, piacere e terrore: l’informe di Georges Bataille e la crudeltà di Antonin Artaud.
Eppure, come sembrava rivendicare Antonio Paolucci, sempre nel catalogo del 1999 per la mostra di Massa Carrara, bisogna rammentare che alla base di tutto c’è la “divina bellezza” che anima i solenni materiali della scultura: lo statuario di Carrara, il marmo di Candoglia, il rosa del Portogallo, il nero del Belgio, il bronzo: “Materiali così assoluti che esigono un culto esclusivo, pretendono l’omaggio delle rigorosa sapienza e del prodigioso mestiere».
Sapienza e mestiere insieme. Indubbiamente ne deriva la capacità di far sì che la qualità, l’abilità, l’apprendimento delle tecniche, non siano fini a se stessi, ma strumenti per far “cantare” la materia, per imporle il dono, il talento del quale si è dotati. Un talento che deve essere mostrato per non essere sprecato, che tuttavia è orientato da un pensiero.
Per questo vorrei azzardare un’ipotesi, che penso possa riannodare almeno alcuni dei fili che si condensano nell’intarsio di mutazioni caro a Finotti. Nella sua scultura alberga qualcosa che ha a che vedere con il totemico, con il carattere magico del feticcio. Forma dell’opera e totem diventano due metafore intrecciate, tese a mostrare in che cosa l’opera non può essere posseduta. E per totem non deve intendersi un oggetto arcaico, quanto piuttosto l’espressione sintetica di sentimenti e di desideri che operano nella vita che ci circonda.
La forma è frutto di “incidenti figurativi” che non ci preparano a una visione univoca, ma ci impongono di considerare soluzioni di continuità, dove l’immagine si dispiega come labirintica trasformazione delle forme. Come veicolo di disgiunzioni che rendono visibile la forma non tanto in funzione dell’apparenza che acquisisce, ma piuttosto in funzione di ciò che l’artista immagina; di ciò che Finotti “sente” tra esperienza fisica dei materiali e l’ intelligenza che si esprime nel disegno che li manipola.
Ed è in quel “sentire” che l’opera non può essere posseduta. Attraverso quel “sentire” Finotti ci invita a entrare in un labirinto, carico di seduzioni e di pericoli. Sta a noi cercare di attraversarlo, di uscire alla luce del sole per dire che lo abbiano riconosciuto.
Una biografia
di Novello Finotti
“Così i miei occhi
erano un’unica lampada accesa
a spiare i cambiamenti della vita,
e non per paura della morte, no
bensì con lo stupore vero
dinnanzi a quel che germoglia misteriosamente
e d’improvviso si trasforma,
o cambia posto”.
Mozziconi di ceri e di candele
La prima cosa che ricordo è la voce del vento e della terra…
Novello Finotti nasce a Verona nel 1939.
Presto un sentimento interiore, urgente e profondo lo avvicina al mondo dell’arte, e all’età di quindici anni compie il primo passo verso il suo destino,varcando la soglia dell’Accademia di Belle Arti di Verona.
Contemporaneamente frequenta lo studio dello scultore Nereo Costantini, nel quartiere di San Zeno.
La vista delle statue in bronzo e in cera che popolano quell’ambiente gli rivela d’avere una patria. Il suo cuore e il suo pensiero cominciano a parlare la stessa lingua.
Studia e lavora usando come materiale per le sue sculture (non possedendo mezzi per pagare le fusioni in bronzo) mozziconi di ceri e candele che gli fornisce il sacrestano del Duomo cittadino.
Ha appena diciannove anni quando vince il primo premio alla “Esposizione d’arte sacra” di Assisi.
Si diploma nel 1959 eun anno dopo comincia la carriera di insegnante nella stessa Accademia della sua formazione.
Inizia a realizzare le prime sculture in bronzoe, quindi, ad esporle.
Dal 1963 ha modo di frequentare la fonderia di Bonvicini in Verona.
Ha una rivelazione, come un seme che gli cresce dentro e affonda le radici nel profondo, da rendere chiara, e l’occasione arriva con un incontro.
Stringe amicizia con il greco d’origini Alexander Jolas , talent scout
e mercante d’artisti(dai surrealisti Magritte, Ernst e Matta, alla stella nascente della pop art americana Andy Wahrol),personaggio affascinante e ricco di mistero.
Tra i due nasce una forte intesa artistica e una sincera collaborazione: lo scultore comincia a comprendere che il mondo che lo circonda è ciò che in realtà è nel suo cuore, nasce con lui, ed è apparenza di cui la sua arte deve mostrare la verità.
Nel 1964 le sue sculturevarcano per la prima volta l’Oceano, per essere presentate alla “Armony Gallery” di New York.
Due anni dopo viene invitato ad esporre un gruppo di opere(qui elementi figurativi e forme architettoniche si fondono) alla Biennale di Venezia.
Del 1968-1969 è Il cammino dell’uomo, un omaggio alla vita, un incedere continuo che trasforma il transitorio in eterno.
Dentro di sé, però,sache è ormaitempo di creare un linguaggio più intimo, più conforme al suo sentire e, affinché la sua arte possa essere compresa appieno, opera un cambiamento nel suo modo di scolpire.
“La forma astratta cominciava ad assumere per me un valore mimico, che oltrepassava il soggetto e imponeva una sua vita più profonda, e in continua azione. La natura diveniva per me, sempre più fonte di segreti e meraviglie”.
Forme pure e limpide
Nel 1973 intraprende quello che segnerà una tappa fondamentale del suo percorso umano e artistico, il viaggio in Grecia.
La vista del Partenone, e le opere di Fidia,la grande visione classica
e lo splendore del marmo lo emozionano profondamente:
le corrispondenze misteriose chiariscono alla sua stessa vita l’ascendenza luminosa a cui attingere, in ogni istante,la sussistenza spirituale.
È il marmo che può definire la sua poetica, misurarla e renderla reale.
Ne accetta la sfida, e dal quel momento diviene la materia principale della sua arte.
“Cercavo la luce, il candore trepidante nella spoglia purezza del marmo”
Nel 1977 è chiamato a partecipare con una personale al prestigioso “Festival dei due mondi” Italia – Usa, e sul finire degli anni Settanta inizia a lavorare a Pietrasanta.
Frequenta i laboratori e le cave di marmo di Carrara, qui sceglie il materiale che più lo soddisfa.
Sono gli anni di opere importanti come Omaggio a Shakespeare
(una porta che si spalanca su un caos indescrivibile),Annunciazione e Rituale per la figlia del kamikaze, esposta alla XLI Biennaledi Venezia del 1984.
“Col marmo a volte mi è dato cogliere forme pure e limpide, altre volte esso mi si presenta scabro e nervoso, ed altre ancora vibra tra le mie mani come un suono, una lieta melodia”.
A differenza del bronzo(che la luce la rifrange ) il marmo gli concede una libertà creativa inaspettata.
Nel 1988 partecipa alla rassegna itinerante in Giappone “Scultura italiana del XX secolo”.
Comincia a manifestare un vivo interesse per la cultura nipponica e i suoi rituali,e sempre in quegli stessi anni la sua attenzione è catturata dalla statuaria antica egiziana.
Ne sono testimonianza Anubi del 1988-89, in marmo nero del Belgio
(un marmo che lavorato con la tecnica della bocciadatura o della graffiatura ne esalta la capacità di movimento e assorbimento della luce), Piccolo cobra del 1992 e, in tempi più recenti, l’opera del 2015,La casa degli scarabei.
Agli inizi degli anni Novanta le guerre del Golfo Arabo, colpiscono profondamente la sua sensibilità.
Il Grande Cobraè il suo grido d’accusa!
“Non era rimasto più nessuno in cielo? Neppure Dio? Neppure la Luna?
Nessuno a cui porgere questa coppa di dolore?
Volevo parlare della polvere e del dolore, di un corpo ormai perduto da cui la sua stessa ombra fugge. Della paura di una notte scesa in un mondo di ciechi”.
Con Prego non fatemi il solletico del 1990-1994 e, soprattutto, Lievitazione, del 1991-1997, Finotti rivela una figura capace di mostrarsi per il suo solo esistere, e non per il suo peso. Il mezzo espressivo che aveva scelto per la sua arte si era ormai liberato d’ogni gravità e costrizione.
La luce aveva avvolto tutta la materia.
All’alba del nuovo millennio è all’apice della sua forza creativa.
“ Credo che l’originalità creativa risieda nella capacità di cavare dal profilo conosciuto della natura, materiali e sostanze di una natura nuova, che non smette mai di rinnovarsi.
Perché la materia non è un dato fisso, bloccato nel tempo, ma trasformazione e novità, elaborazione e continua metamorfosi”.
la fotogallery della mostra presentata in anteprima ai giornalisti (foto Antonello Di Gennaro e www.SassiLive.it)
Una maledetta benedizione
Ma Finotti non ha ancòra smesso di sfidare se stesso.
Sente l’esigenza di cimentarsi con materiali anche più duri come il granito e il basalto. Il suo intento è quello di renderli materia morbida
da lavorare, lasciare che assomiglino col tempo quasi a un tessuto di seta o di velluti.
Avi della montagna, opera in granito, e Rifarsi, in basalto, tra le altresculture,sono il risultato di questo lavoro paziente e tenace.
“Credo che ciò che contraddistingue fondamentalmente la mia creazione sia quella convinzione che un tutto artistico non deve coincidere per forza con il tutto usuale dell’oggetto, e che nel marmo, o nel bronzo o in qualsiasi altro materiale, nascano sempre nuove convergenze, nuovi rapporti e nuovi equilibri, liberi da ogni dipendenza”.
L’arte è la sua maledetta benedizione.
La sua ultima partecipazione alla Biennale di Venezia nel 2014,
la mostra al Seoul Museumdella capitale coreana del 2015 e,ancòra quella nel prestigioso Museum of Art di Busan(sempre in Corea)
dell’anno successivo, rendono ormai sempre più chiara la dimensione mondiale dell’opera di Novello Finotti.
Infine Matera!
Mettersi faccia al vento
Ho conosciuto Novello Finotti a Matera.
Lo sguardo rivolto al cielo e al profilo della vecchia civita dove si raduna la bellezza eterna, mentre lentamente attraversavamo la via dei Sassi.
Di lui mi hanno colpito i modi gentili e di pacata umanità,
lo sguardo chiaro e consapevole di chi crede che l’arte debba stare
su tutte le tavole come un buon bicchiere di vino e del pane fresco.
E della creazione, della genesi di un’opera ho voluto poi chiedere a questo scultore dagli occhi sereni:
“E’ come quando respiriamo.
E’ mettersi faccia al vento e cogliere l’ispirazione che giunge anche quando non ne hai la consapevolezza.
L’idea della -donna tartaruga- per esempio, è nata in circostanze
assai casuali. Un tardo pomeriggio, giunto sulla spiaggia, mi colpì molto l’apparizione di una forma strana che si stagliava in lontananza vicino al mare. Sembrava un animale prestorico.
Incuriosito mi avvicinai e con mia grande sorpresa notai che era una madre intenta a giocare con il suo bimbo. La curva della schiena della donna creava un ampio arco a proteggere il figlioletto che sotto di lei muoveva braccia e piedini.
Tracciai poi su un foglio, per ricordarmi di tale visione, alcuni segni
che mi restituirono come avevo già intuito, la vaga forma di una tartaruga.
La morbidezza di quel profilo femminile, unito alla tenerezza del gioco materno e osservato da quella particolare angolatura, fecero affiorare
in me un’immagine visionaria e piena di rimandi.
E’ così che nacque la -Donna Tartaruga- “
Edoardo Delle Donne
storico dell’arte