Il materano Giuseppe Padula ha pubblicato il libro “Peppino e i Sassi”, in cui l’autore racconta l’evoluzione del suo rapporto “sviscerale” con la terra natia e i luoghi in cui ha vissuto la fase adolescenziale della sua vita, gli antichi Rioni Sassi. Il libro è disponibile nella libreria Di Giulio in via Dante a Matera.
Di seguito la recensione del professore Pasquale La Briola
“Il Maestro del Verismo Materano Giuseppe Padula e i Sassi”
«Gli chiesi perché pensasse che i bambini fossero tutti pazzi. Dicono di pensare con la testa”, rispose. “Ma certamente. Tu con che cosa pensi?”, gli chiese, sorpreso. “Noi pensiamo qui”, disse sorpreso, indicando il cuore».
Colloquio tra Carl Gustav Jung e il capo indiano Lago di Montagna
Affacciandosi allo squarcio di Piazza Pascoli, lo spettatore non può non rimanere estasiato nel percepire case, casette, canali diruti e viuzze, strettoie e tegole di un tempo antico e il pensiero sussurra che tutti i tempi, quando sono antichi, sono buoni. Sono i Sassi che sembra abitino l’Olimpo greco a testimoniare le generazioni succedutesi nel tempo. Trattasi, com’è noto, di luoghi pieni di pietre che formano abitati dall’età borbonica ai nostri giorni. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (8 settembre 476), Odoacre, re degli Eruli, depone l’ultimo re Romolo Augustolo. Muove da questo avvenimento storico una varietà di scontri bellici tra le popolazioni barbariche, greche e bizantine che intendevano restaurare l’antico prestigio della Roma imperiale.
Non è questa l’occasione di ripercorrere il tempo storico dei Sassi e di Matera. Piuttosto, preme sottolineare l’amore che l’Autore ha provato nell’opuscolo che porta il suo nome “Peppino e i Sassi”.
Egli è vissuto nei Sassi fino al 1968 nei quali oggi, con commozione e devozione, descrive ogni particolare. Eravamo, dice l’Autore, povera gente e dominava solenne la miseria, ma non mancavano botteghe di falegnami e calzolai, barberie, braccianti e contadini, mamme e figli a iosa, traini riposti nell’angolo umido di mattutina rugiada. Mancava, tuttavia, il bar, come osserva Peppino, privilegio riservato agli eupatridi della Civita. Unico ingresso, sottani senz’aria, animali da cortile, volatili da utilizzare per le donne gravide, muri scorticati, selciati scompagnati, assenza dei servizi igienici, analfabetismo imperante, bambini privati del gioco perché partecipi delle fatiche dei padri. Al mulo era riservato un certo riguardo perché ritenuto una unità lavorativa.
Via Fiorentini, Via Madonna delle Virtù e Piazza San Pietro Caveoso erano le strade principali su cui la gente si riversava nelle processioni religiose cantando ed invocando la divinità. Le donne sciorinavano i panni nei cortili fuori, nella strada, con l’accortezza di “nascondere” dietro un lenzuolo la biancheria intima.
L’autorevolezza spettava al “vicinato” che contagiava di calore umano il compagno, la comare, il contadino in un rapporto di neutralità giacché tutti erano stati designati, come afferma Platone nel IV libro della Repubblica, dallo stesso destino e dalla stessa sorte. Le relazioni amorose erano furtive e le belle contadinotte spiavano se il proprio amore passava per strada segnalando con il fazzoletto bianco la possibilità di “vedersi” o meno (castrazione psicologica e umana). Un mondo parlava, discuteva, origliava, rassegnato al proprio destino, mentre la Gravina silenziosa interiorizzava i vissuti della gente e del patrio loco.
Peppino e i Sassi non sono due nomi astratti ma, al contrario, due testimonianze del tempo che cantano il mondo della povertà nei Sassi, un mondo rassegnato e che ne rievoca affinità con la letteratura verghiana, col mondo dei vinti, come ebbe a dire Giovanni Verga, il poeta della povera gente. Non affermo che il Verga era il poeta degli umili, il che può rimandare al Manzoni, ma il poeta dei poveri, dei diseredati, degli oppressi dalla tradizione sociale e dalla tristezza generale del mondo. Ma egli, pur discendendo da una famiglia di ricchi proprietari, che nulla condivideva con Peppino e i Sassi, “fotografò il mondo della Marea”. Chi ha letto i Malavoglia, Mastro don Gesualdo e la produzione giovanile del catanese, s’imbatte in una terra grezza che fuma dappertutto sfidando la pesante afa di luglio. Campagne aride, fichidindia della Canziria, le montagne di Licodia, gli ulivi saraceni. Sembra questa terra la rappresentazione del mistero che evoca i fantasmi passeggeri del poeta. E che dire dei personaggi: Maruzza La Longa, Padron ‘Ntoni, ‘Ntoni, suo nipote, Mastro Croche Kallà, usuraio, che prestò i soldi a Bastianazzo (marito di Maruzza) per comprare a debito i lupini e sfidare la sorte infausta con l’affondamento della barca “la Provvidenza”.
Serpeggia, nelle opere di Verga, un’arcana solitudine che non consente un grido di protesta, un grido di libertà contro l’infausta sorte. I personaggi verghiani sono degli eroi che non conoscono l’avarizia, ma sono affamati lavoratori che sentono la voluttà del cilicio che si chiama fatica. L’amore per la “roba”, che costituisce uno dei temi di fondo della letteratura verghiana, comporta fatica e sudore, ma alla fine, essa, la roba, non appartiene ai contadini, ai braccianti perché viene dissipata dall’aristocrazia. Nel suo tramonto Mastro don Gesualdo, assiste, rigando i vetri di amare lacrime, alla dissipazione dei propri beni, impotente di fronte alla storia e al tempo maestro di verità.
La lettura del libro di Peppino e i Sassi ha commosso il mio cuore e il mio pensiero che ha operato un connubio tra Peppino e G. Verga, un accostamento che, forse, agli intellettuali di grido sembrerà un paradosso o una metafora. Ma siccome i fatti non vanno solo descritti per amor di vanagloria, ma soprattutto interpretati, mi sia consentito tale comparazione perché la storia, che vuol dire ricerca, esegesi a volte deforma la realtà e diventa appannaggio dei vinti. Peppino non ha scritto per tali finalità, ma soltanto per uno spirito di libertà, di finezza, di cuore, per non dimenticare la propria identità travolta dal tempo.
Per tali ragioni Peppino Padula ha reso un gran servigio educativo alla società materana: il libro ha una forte valenza pedagogica; la didattica, poi, si snoda da sé; soprattutto prevale la forma, il modo di rappresentare situazioni e tempi, attingendo ad una sola sorgente: il suo cuore. Rem tene verba sequentur: afferra il concetto e le parole escono da sole
Ringrazio Peppino e faccio voti perché i bambini della scuola dell’obbligo fruiscano degli insegnamenti contenuti perché la sapienza deriva dalla Natura, è sintesi armoniosa di verità, giustizia e bene, di cui necessita il mondo attuale disumanizzato e reificato da uomini inetti e rapaci.
Pasquale La Briola