La Corte di Assise di Palermo ha condannato a pene comprese tra 8 e 28 anni di carcere per la cosiddetta trattativa Stato-Mafia gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, Massimo Ciancimino e i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà. Assolto dall’accusa di falsa testimonianza l’ex ministro democristiano Nicola Mancino. Prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca.
Non ci sono voluti neppure cinque giorni per il verdetto. Cinque anni dopo il rinvio a giudizio la Corte di assise di Palermo, che si era ritirata in camera di consiglio lunedì con il presidente Alfredo Montalto, il giudice a latere Stefania Brambille e i sette giudici popolari, hanno giudicato nel nome del popolo italiano. Termina così la loro “reclusione” nell’aula bunker del carcere palermitano Pagliarelli.
Nove, dopo la morte del capomafia Totò Riina, gli imputati: gli ex vertici del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri, i boss Leoluca Bagarella e Nino Cinà, il pentito Giovanni Brusca, tutti accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato , aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra. Sotto accusa anche l’ex ministro dc Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza e Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso Vito, che rispondeva di concorso in associazione mafiosa e calunnia dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro.
Il processo aveva al centro la (presunta) trattativa avviata da pezzi delle istituzioni, tramite il Ros, per indurre Cosa nostra a far cessare le stragi in cambio di concessioni e alleggerimenti nel contrasto ai clan.
I pubblici ministeri Vittorio Teresi, Antonio Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene non avevano alcun dubbio: a cavallo della stragi del ’92 ci fu un patto scellerato fra i boss e rappresentati delle istituzioni per far terminare quella scia di sangue e alleggerire i voncoli (anche) carcerari per boss e mezzi boss.
Questa sentenza, di fatto, giunta dopo oltre 200 udienze, sembra ribaltare quanto finora già fissato in un’aula giudiziaria. Due i precedenti che hanno aperto il varco: uno, molto giudiziariamente molto lungo, ha riguardato gli ex ufficiali dell’Arma Mario Mori e Mauro Obinu; l’altro ha visto coinvolto l’ex ministro Calogero Mannino, assolto nel processo stralcio (ma è in corso l’appello).
Il lungo iter di Mori e Obinu
Il 19 maggio 2016, nel processo in secondo grado contro gli ufficiali Mori e Obinu, dopo poco più di tre giorni di camera di consiglio la Corte d’appello di Palermo, presieduta da Salvatore Di Vitale (a latere Raffaele Malizia e Gabriella Di Marco), aveva confermato la sentenza di assoluzione emessa in primo grado il 17 luglio 2013, nei confronti dei due imputati, accusati di favoreggiamento del boss Bernardo Provenzano. La Procura generale di Palermo, rappresentata in giudizio dal procuratore Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio, aveva chiesto la condanna dei due ufficiali a quattro anni e mezzo di reclusione per Mori e tre anni e mezzo per Obinu.
Secondo l’accusa, il 31 ottobre ‘95, pur essendo a un passo dalla cattura del padrino di Corleone, grazie alle rivelazioni del confidente Luigi Ilardo, i due non fecero scattare il blitz che avrebbe potuto portare all’arresto del capo mafia garantendogli un’impunità che sarebbe durata fino al 2006. La Corte d’Appello, però, ha confermato in pieno l’assoluzione con la formula «perché non costituisce reato». Le motivazioni si conobbero il 15 novembre 2016. La Corte però, pur criticando per alcuni versi l’operato dei due imputati, confermò «le risultanze processuali sono inidonee a provare la sussistenza del movente della trattativa». Secondo i giudici di appello «la sua ricostruzione in termini probabilistici, essendo al contrario necessario acquisire la prova rigorosa dei motivi della condotta illecita. Dunque, nel caso in esame la mancata acquisizione di una siffatta prova rigorosa non consente di ritenere accertata l’esistenza del movente originariamente ipotizzato dalla pubblica accusa».
L’8 giugno 2017 la Cassazione stabilì definitivamente che non ci fu alcun mancato blitz e nessun protesse la latitanza del boss Provenzano
Il processo a Mannino
Il 4 novembre 2015 il Gip di Palermo Marina Pitruzzella, dopo un processo durato circa tre anni in rito abbreviato, assolse l’ex ministro Mannino dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato nello stralcio del processo principale. Il 15 dicembre 2016 la Procura di Palermo fece appello e le motivazioni di quella assoluzioni furono depositate solo a novembre 2016.
Il 18 aprile di quest’anno a Palermo si è svolta l’ennesima udienza. In una lunga ordinanza i giudici hanno disposto la citazione a deporre di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso Vito e superteste dell’inchiesta su presunti accordi tra Stato e mafia negli anni delle stragi, della giornalista Sandra Amurri, dell’ex presidente della Camera Luciano Violante, del pentito Giovanni Brusca, uno dei fedelissimi del boss Totò Riina, di Pino Lipari che, pur non avendo lo status di collaboratore di giustizia, ha reso alcune dichiarazioni agli inquirenti, e di Nicola Cristella, ex capo scorta del vice capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) negli anni delle stragi Francesco Di Maggio.
Il processo chiuso oggi
Tanto il processo al quale la Cassazione ha messo una pietra tombale, quanto quello all’ex ministro agrigentino, sono legati a doppio filo al processo appena chiuso in primo grado a Palermo. L’indagine è approda alla fase processuale nel luglio del 2012 quando 120 faldoni vennero trasmessi dalla Procura al giudice per le indagini preliminari Piergiorgio Morosini. Il rinvio a giudizio dei dieci imputati fu deciso il 7 marzo 2013. Al termine della requisitoria i pm Nino Di Matteo (oggi in Dna), Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia hanno presentato alla corte le richieste di pena. In particolare, per il reato contestato con l’art.338 (minaccia e violenza a Corpo politico dello Stato) è stata richiesta la condanna a sedici anni per il boss Leoluca Bagarella, cognato del padrino corleonese Totò Riina e a 12 anni per Antonino Cinà, medico e intimo dello stesso Riina.
Per lo stesso reato è stato chiesto il «non doversi procedere» per intervenuta prescrizione a Giovanni Brusca mentre sono state chieste le condanne per l’ex capo del Ros Antonio Subranni (12 anni), il suo vice del tempo Mario Mori (15 anni) e l’allora capitano Giuseppe De Donno (12 anni). Di minaccia a Corpo politico dello Stato era anche accusato Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia che sta scontando una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Per lui i pm hanno chiesto la condanna a 12 anni. L’accusa ha anche chiesto la condanna a 6 anni per l’ex ministro Nicola Mancino che rispondeva del reato di falsa testimonianza. Inoltre l’accusa ha chiesto la condanna a 5 anni per il reato di calunnia nei confronti di Massimo Ciancimino mentre ha chiesto di dichiararsi il «non doversi procedere per intervenuta prescrizione» per il reato di concorso in associazione mafiosa in quanto «ritenuto conclusosi in data 15 gennaio 1993». Infine è stato dichiarato il «non doversi procedere» nei confronti del capomafia Totò Riina (defunto). Ovviamente le difese avevano chiesto l’assoluzione dei vari imputati.
La tesi dell’accusa era che, dopo l’esito negativo del maxi processo e l’omicidio dell’eurodeputato della Dc Salvo Lima, Mannino aveva capito che sarebbe stata la successiva vittima di mafia. Secondo gli inquirenti, Mannino, grazie ai suoi rapporti con il vertice del Ros all’epoca guidato da Subranni, temendo per la propria vita, avrebbe caldeggiato l’avvio di un dialogo tra Carabinieri e Cosa nostra. Primo interlocutore delle istituzioni sarebbe stato Totò Riina contattato attraverso Vito Ciancimino. Poi il padrino sarebbe stato sostituito nei rapporti con il Ros dal capomafia Bernardo Provenzano.
A partire dal ’91 lo Stato (all’epoca Claudio Martelli del Psi al ministero di Grazia e Giustizia e Giovanni Falcone al dipartimento degli Affari penali dello stesso ministero), cominciò la sua battaglia a Cosa nostra a colpi di leggi e codici.
A questa ricostruzione dell’accusa i legali degli imputati che hanno servito lo Stato hanno sempre risposto facendo avanti il rigore dei propri assistiti e il senso del dovere. Insomma, solo fantasie. La trattativa non è mai esistita. I carabinieri si mossero per tentare di stanare i boss grazie alla collaborazione di don Vito Ciancimino. Totò Riina e Bernardo Provenzano non sono forse stati arrestati? Già, Riina, l’uomo del “papello”, con le richieste per fermare le stragi. Poi, però, sarebbe stato venduto da Provenzano ai carabinieri.
Assoluzione Nicola Mancino, il plauso di Santarsiero
“La piena assoluzione nel processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia di Nicola Mancino, già Presidente del Senato, vice Presidente del Csm, ministro dell’Interno ed anche Presidente della Regione Campania, che ha sempre rivendicato con orgoglio le sue origini lucane, ci riempie di gioia e conferma le sue qualità di servitore dello Stato e uomo delle Istituzioni”. E’ quanto dichiara il presidente del Consiglio regionale della Basilicata, Vito Santarsiero.
“Personalmente – prosegue Santarsiero – non posso non sottolineare la sua decisiva azione di parlamentare e uomo di governo nel sostenere politiche per il Mezzogiorno ed in particolare la sua azione per la ricostruzione post sisma. Resta l’amarezza e lo sconcerto per una sentenza che ci dice che quella trattativa tra mafia e pezzo dello Stato vi è stata e che ci chiama, Istituzioni in primis, ad un seria riflessione”.
“Al Presidente Mancino – conclude il Presidente del Consiglio regionale della Basilicata – i nostri auguri e l’invito a tornare presto a visitare la nostra terra”.