Giovedì 18 ottobre 2018 alle ore 16,30 in cattedrale, in presenza della Madonna di Viggiano, Regina delle genti lucane, si terrà l’Assemblea Diocesana che segna anche il termine del percorso sinodale e l’inizio del Sinodo Diocesano, il primo dell’Arcidiocesi di Matera-Irsina. A tal proposito il nostro arcivescovo mons. Antonio Giuseppe Caiazzo ha predisposto la lettera pastorale 2019 per il Sinodo “Vino nuovo in otri nuovi. La Chiesa che siamo, la Chiesa che vogliamo. Per una Chiesa missionaria animata dalla Spirito”, che sarà distribuita a tutti i sacerdoti e i padri sinodali e che riportiamo di seguito.
Vino nuovo in otri nuovi. La Chiesa che siamo, la Chiesa che vogliamo. Per una Chiesa missionaria guidata dallo Spirito
Carissimi,
al termine del percorso sinodale ci apprestiamo a celebrare il nostro Sinodo Diocesano, il primo dell’Arcidiocesi di Matera – Irsina.
L’anno pastorale appena trascorso è stato intenso e impegnativo per tutti. Il percorso sinodale ci ha permesso di ascoltare la Parola di Dio, pregare, confrontarci con l’insegnamento della Chiesa, con le indicazioni di Papa Francesco, riflettere insieme, sinodalmente, ed essere propositivi in vista del Sinodo che ci vedrà impegnati nei prossimi anni.
Un desiderio su tutti ha animato, sia nelle assemblee, sia nei gruppi, sia nei contributi provenienti dalle parrocchie, quanti hanno lavorato con impegno, guardando al futuro e al bene della nostra Chiesa locale. Si avverte il bisogno di riempire di contenuti evangelici la nostra vita, le nostre scelte, le nostre comunità, non per annullare il passato, che è patrimonio culturale e religioso della nostra terra e della nostra gente, ma per arricchirlo di quel vino buono che ci permetta di gustare la nostra appartenenza a Cristo e alla Chiesa.
Da queste considerazioni la scelta dell’icona biblica, che rende bene il senso del nostro cammino e alla quale faremo riferimento, in Lc 5, 33-39: «In quel tempo, gli scribi e i farisei dissero a Gesù: “I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno orazioni; così pure i discepoli dei farisei; invece i tuoi mangiano e bevono!” Gesù rispose: “Potete far digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni in cui lo sposo sarà strappato da loro; allora, in quei giorni, digiuneranno”. Diceva loro anche una parabola: “Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio; altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio. E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi. Nessuno che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono»!
Nel brano evangelico, riportato da tutti e tre i sinottici, Gesù ha voluto insegnare ai suoi discepoli e alle prime comunità cristiane di sottrarsi alla tentazione di mettere insieme una mentalità antica che pone al centro una giustizia che non gli appartiene (Gv 8,1-11) e la misericordia a lui tanto cara (Mt 9,16-17).
I comportamenti esteriori non sempre corrispondono a quanto si vive interiormente. Spesso si fanno tante cose senza capirne il senso. Apparentemente sembra che i discepoli di Giovanni e quelli dei farisei siano più “bravi” dei discepoli di Gesù. Coloro che dialogano con Gesù gli fanno notare che i primi osservano il digiuno, al contrario dei secondi. Vogliono capire o indurlo in errore? Gesù non si uniforma alla stessa logica degli interlocutori che vorrebbero sapere chi sono i discepoli più bravi. Quelli di Giovanni e dei farisei o i suoi?
Il Maestro li invita a non lasciarsi condizionare dall’esteriorità dei farisei e risponde con una domanda che li induca a riflettere sul senso del digiuno così come ai loro giorni era inteso. Se prima il digiuno aveva senso perché ricordava a Israele il suo peccato e il conseguente castigo, nell’attesa della liberazione definitiva annunciata dai Profeti, con la parabola degli invitati a nozze e dello sposo Gesù fa capire che lui è lo Sposo, il Messia, che è giunto il tempo in cui le profezie si sono compiute.
E’ arrivato il tempo di accogliere la misericordia. E’ un invito a non sposare il modo di agire dei farisei che, pur accogliendo l’annuncio di Gesù, rimanendo ancorati a vecchie certezze, rischiavano di svuotarne completamente il senso profondo. Il vangelo si basa sulla libertà (Gc 2,12), sulla verità che rende completamente liberi (Gv 8,32), su un nuovo concetto di giustizia (Gv 2,12): un annuncio affascinante. Gesù chiede, incominciando dai discepoli, di accogliere la novità del vangelo che è lui stesso.
Alla luce di queste considerazioni si comprende come la parabola del rattoppo e del vino allarghi l’orizzonte della comprensione, guarendo dalla miopia tipica di chi non vuol guardare lontano. Il cambiamento è arrivato. Non più aggiustamenti o sistemazione di una pezza in base alla situazione che si presenta. C’è bisogno di un bel vestito nuovo. Bisogna sistemare la cantina, buttando via i contenitori vecchi che non servono più, collocando i nuovi per versarvi il vino nuovo: Gesù, colui che ci rende veramente uomini nuovi.
Il nostro intento è esattamente quello di renderci conto che, come Chiesa di Matera – Irsina, abbiamo bisogno di dotarci di “otri nuovi”, accogliendo il “vino nuovo”. Il nuovo è Gesù Cristo, il Vangelo, la buona notizia, da riprendere e gustare, riproposto nella sua attualità all’uomo d’oggi. L’uomo, in tutte le condizioni sociali e professionali, con i propri dubbi e perplessità, con i propri giudizi sprezzanti, con le proprie povertà interiori e miserie, con la mentalità dello scarto e la tentazione d’innalzare muri. Il nuovo è sempre Gesù Cristo, che si accosta all’uomo, piegandosi sulla sua umanità defraudata della dignità e lasciata in mezzo ad una strada (il buon samaritano). Si accosta a coloro che, delusi, disgustati e rassegnati, cadono in una sorta di rassegnazione e pessimismo, camminando con loro, condividendone la strada, spezzando il pane di vita per loro (i discepoli di Emmaus).
Papa Francesco ci ricorda: «Non dobbiamo avere paura di lasciare gli “otri vecchi”: di rinnovare cioè quelle abitudini e quelle strutture che, nella vita della Chiesa e dunque anche nella vita consacrata, riconosciamo come non più rispondenti a quanto Dio ci chiede oggi per far avanzare il suo Regno nel mondo: le strutture che ci danno falsa protezione e che condizionano il dinamismo della carità; le abitudini che ci allontanano dal gregge a cui siamo inviati e ci impediscono di ascoltare il grido di quanti attendono la Buona Notizia di Gesù Cristo» .
E’ quanto in definitiva è emerso dal lavoro fatto dai confratelli sacerdoti, dai religiosi e religiose, dai laici, portato avanti con impegno, abnegazione e determinazione, sostenuti dalla preghiera dell’intera Chiesa locale.
Usciamo arricchiti dalle profonde riflessioni che i gruppi di studio ci hanno consegnato, dopo aver assimilato le catechesi e le indicazioni su «L’Evangelii gaudium conversione pastorale per una Chiesa in uscita» (S.E. Mons. Rino Fisichella). A seguire si è lavorato sulle quattro Costituzioni conciliari integrate con le cinque Vie di Firenze, lasciandoci aiutare da S. E. Mons. Claudio Maniago, da S. E. Mons. Giovanni Intini, da Don Dario Vitali, dal Prof. Franco Miano e dalla Prof.ssa Pina De Simone.
Abbiamo avuto modo di riflettere sulla posizione della Chiesa vissuta tra Cristo, che ci mostra la misericordia del Padre, e l’umanità alla quale si dona come luce. La Chiesa non è del Papa, del Vescovo o del singolo presbitero o del laico: è di Gesù Cristo. Lui l’ha generata dall’alto della croce quando dal suo fianco sono scaturiti “sangue e acqua”, simboli dei sacramenti della Chiesa stessa. Da quel momento è stata inviata nel mondo per essere gioia e speranza. Questo è il senso del richiamo di Papa Francesco nell’Evangelii gaudium: la gioia del vangelo consiste nell’unire la misericordia di Dio e la speranza attesa dal mondo .
Un lavoro certosino ben coordinato, con competenza e zelo sacerdotale, da Mons. Filippo Lombardi e l’equipe Diocesana, dai responsabili dei gruppi di studio (Mons. Biagio Colaianni, Vita presbiterale/uscire; Don Vincenzo Di Lecce, Liturgia/trasfigurare; don Pasquale Giordano, Catechesi/annunciare; Don Domenico Monaciello, Chiesa e organismi di partecipazione/uscire; Padre Basilio Gavazzeni, Cultura/educare; Prof.ssa Anna Maria Cammisa, Carità e inclusione sociale dei poveri/abitare; Prof. Lindo Monaco, Laicato e questioni sociali/abitare; Sr. Milena Acquafredda, Dimensione missionaria/educare).
Ora è il tempo di iniziare a celebrare il 1° Sinodo Diocesano dell’Arcidiocesi di Matera – Irsina, proprio nell’anno in cui la nostra città di Matera vive un evento storico: Capitale della Cultura Europea. E’ un’opportunità per la nostra Chiesa di riscoprire la valenza culturale della sua missione evangelizzatrice e per aprire e tenere vivo un dialogo con le diverse culture. Sarà proprio durante quest’anno pieno di eventi e celebrazioni culturali di ogni genere che noi, attraverso il Sinodo, volendo usare alcune affermazioni di Papa Francesco, intendiamo:
– Essere in cammino e in relazione con gli altri per ascoltare il Signore.
– Favorire nelle comunità la carità evangelica e la solidarietà fraterna.
– Collaborare con i ministri del Signore per essere tutti icone viventi di prossimità.
– Promuovere il bisogno di uomini di amore, non di uomini di onore.
Nello stesso tempo vogliamo evitare l’ansia di schematizzare, dando ampio spazio di riflessione e discernimento alle profonde indicazioni presentate nei questionari.
Essere in cammino e in relazione con gli altri per ascoltare il Signore
Non è possibile confrontarsi con gli altri se non alla luce della Parola di Dio e dell’insegnamento della Chiesa. Il confronto può realizzarsi solo se illuminato dallo Spirito Santo e non basato su un pensiero personale e particolare. Solo così ci sarà vero discernimento. Mi permetto di usare le parole del card. Carlo Maria Martini: «L’esempio biblico di cui mi servo per spiegare il distinguere e il discernere, è la descrizione del Concilio di Gerusalemme (cfr At 15) dove si può vedere bene la dinamica di Chiesa. Se leggiamo attentamente il resoconto del Concilio, rimaniamo stupiti nell’accorgerci che, dovendo risolvere un problema pratico molto difficile – la convivenza tra i cristiani provenienti dal giudaismo e i cristiani convertiti dal paganesimo – non si fa ricorso alle Scritture o a una tradizione canonica, di cui c’era un primo embrione, ma si fa ricorso, anzitutto, alla riflessione sul vissuto nella grazia dello Spirito Santo! Ci sono tre grandi relazioni nel Concilio di Gerusalemme: la prima, in cui Paolo riferisce su quanto lo Spirito Santo ha operato in tutte le comunità, e quindi prendendo coscienza di ciò che è il vissuto di grazia; la seconda, in cui Pietro si domanda quale relazione abbia il vissuto di oggi con gli eventi passati, qual è la continuità di grazia in cui esso si inserisce; la terza relazione, in cui Giacomo, a partire dalle parole di Paolo e di Pietro, propone un modo pratico di vivere insieme, un modo che tenga conto delle verità fondamentali. Questo atteggiamento è quello che si propone di ascoltare la voce dello Spirito e di trarne conseguenze per l’oggi, in umile obbedienza di quella Parola che ha parlato nella Chiesa e che ancora parla nel Magistero, nella forza della predicazione, nella lettura quotidiana della Scrittura, nella vita quotidiana dei fedeli, nell’esperienza della santità» .
Il lavoro di sintesi, fatto durante il percorso sinodale, ci ha indicato esattamente questo, sottolineando le linee fondamentali e imprescindibili che hanno guidato la prima Chiesa di Gerusalemme e da quel momento, nel corso dei secoli, la Chiesa Cattolica. Le basi sulle quali stiamo lavorando sono:
Preghiera – Non è superfluo ricordare che ogni compito ecclesiale va accolto e accompagnato dalla preghiera. Essa ci mette al riparo dalla tentazione di pensare che quello che facciamo è opera della nostra bravura e delle nostre capacità. Nel dialogo personale con Dio riconosciamo che tutto è dono suo e che siamo strumenti nelle sue mani e che umilmente ci mettiamo a servizio della Chiesa e dei fratelli in umanità.
Fedeltà al compito – Dio è fedele sempre. Nell’essere stati scelti si manifesta la sua fiducia e la fiducia della Chiesa. Nell’accogliere in spirito di obbedienza il compito di far parte dei “Centodiciannove” ci vien chiesto di corrispondere e di ricambiare nella fedeltà la fedeltà di Dio. Questa nostra fedeltà si manifesterà nel perseverare nell’impegno di seguire tutto il Percorso, di studiare, di ascoltare, di non far mancare il nostro apporto di intelligenza e di volontà nel perseguire il fine per cui siamo stati chiamati: la crescita della nostra Chiesa nella comunione e nella gioia di evangelizzare.
Senso di responsabilità – Fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo sono due principi che vanno insieme. Mentre corrispondiamo a Dio dobbiamo rispondere anche agli uomini del nostro lavoro: la salvezza è per l’uomo, l’evangelizzazione è per la salvezza nostra e dei fratelli, di ogni persona. Il Sinodo si fa perché la Chiesa sappia offrire la gioia del Vangelo agli uomini e alle donne di questo nostro tempo, agli ultimi, a chi vive le periferie esistenziali, ai poveri ed emarginati. Assumiamo una responsabilità storica perché la Chiesa sia più missionaria e profetica.
Partecipazione attiva – Non vuol essere una raccomandazione di rito ma la sottolineatura di una necessità. Nessuno sarà valutato per quanto produce, anzi non sarà per niente valutato, ma ognuno è accolto per i suoi doni e carismi che sono per l’utilità comune. Nessuna ansia da prestazione ma umiltà, semplicità, verità, comunione, ascolto reciproco, dialogo, confronto di opinioni diverse.
Franchezza (parresia) – Ho voluto evidenziare questa virtù perché fondamentale per il compito che siamo chiamati a vivere. Papa Francesco l’ha molto raccomandata ai padri sinodali dei due sinodi sulla famiglia: parlare con franchezza: «Una condizione generale di base è questa: parlare chiaro. Nessuno dica: “Questo non si può dire; penserà di me così o così…Bisogna dire tutto ciò che si sente con parresia ». Dove parlare chiaro non vuol dire puntare il dito e nemmeno evidenziare i difetti di altri, ma cercare il bene comune, indicare prospettive di superamento di un problema, di una difficoltà, di un limite.
Capacità di discernimento – Questo è proprio di un Sinodo, è il frutto del Sinodo: cercare il bene tra il “tanto” che si presenterà in questo percorso: individuare vie nuove, stili nuovi di evangelizzare, superando la logica del “si è fatto sempre così” o del rispetto formale di tradizioni ormai svuotate del loro contenuto di fede. Il Sinodo più che risolvere tutti i problemi, cosa umanamente impossibile, deve innescare processi, aprire dialoghi, costruire ponti, abbattere muri, aprire la Chiesa …
Se queste sono le premesse, dobbiamo necessariamente avere a disposizione “otri nuovi”, perché Gesù, vino sempre nuovo e buono, non si disperda. Questo significa che tutti (vescovo, sacerdoti, diaconi, religiosi, religiose, ogni battezzato) siamo invitati, in quanto discepoli di Cristo, ad essere presenza viva del suo stare in mezzo a noi. Contenti di appartenere a Lui e alla sua Chiesa. Gioiosi di testimoniare con la vita le scelte che siamo capaci di fare. Credibili perché abitati dallo Spirito Santo e, quindi, capaci di parlare un linguaggio nuovo, sapendo dialogare con l’uomo d’oggi: una nuova Pentecoste.
Durante tutto il percorso sinodale sono stati individuati alcuni punti fermi da affrontare per versare “vino nuovo” in “otri nuovi”. È necessario:
Promuovere e avviare processi di purificazione delle devozioni e della pietà popolare che spesso è confusa con la fede.
Raggiungere i giovani e costruire con loro qualcosa di bello, valido e definitivo. Avviare laboratori / oratori per gli anziani.
Procedere ad una verifica periodica all’interno dei gruppi, delle associazioni, dei cammini di fede, delle confraternite e stimolare loro ad aiutarsi, nello spirito della correzione fraterna, a superare limiti e difficoltà e a guardare tutti nella stessa direzione.
Favorire un approccio di annuncio e di relazione basato sull’ascolto, sull’accompagnamento nella situazione di vita concreta della persona, sull’assunzione di uno stile di vita comune, su un atteggiamento di speranza e di comprensione profonda, sull’attenzione a valorizzare le specificità e le risorse di ciascuno, sullo spirito di collaborazione nelle varie realtà.
Favorire nelle comunità la carità evangelica e la solidarietà fraterna
Nel suo ultimo viaggio in Sicilia, Papa Francesco ha ribadito alcuni concetti chiari, presenti nell’EG, che risuonano come un forte richiamo anche per noi che viviamo problematiche similari. Riporto alcuni passaggi: «Per essere Chiesa della carità missionaria, occorre prestare attenzione al servizio della carità che oggi è richiesto dalle circostanze concrete”,…“E’ importante favorire nelle parrocchie e nelle comunità la carità evangelica, la solidarietà e la sollecitudine fraterna… rifuggendo la tentazione mondana del quieto vivere, del passarsela bene, senza preoccuparci dei bisogni altrui”…”Non dimenticate che la carità cristiana non si accontenta di assistere; non scade in filantropia, ma spinge il discepolo e l’intera comunità ad andare alle cause dei disagi e tentare di rimuoverle, per quanto è possibile, insieme con gli stessi fratelli bisognosi: integrarli con il nostro lavoro ».
Dal lavoro svolto durante il percorso sinodale, in sintonia con il magistero della Chiesa, con quanto Papa Francesco ci sta insegnando, è emerso in modo chiaro quanto segue:
Si percepisce in molti il desiderio di essere Chiesa in uscita;
E’ significativa la presenza della Caritas diocesana e delle Caritas parrocchiali;
E’ necessario maturare una maggiore consapevolezza di essere Chiesa nel mondo;
E’ indispensabile recuperare una maggiore incidenza della Chiesa nel sociale, sottolineando la dimensione sociale della evangelizzazione;
E’ improrogabile assumere con maggiore decisione la cura della casa comune, sia attraverso un’azione educativa al rispetto del creato, sia attraverso percorsi di condivisione e di collaborazione con le istituzioni e quanti hanno a cuore la salvaguardia dell’ambiente, per la promozione di un’ecologia integrale;
Si avverte il bisogno di vivere con maggiore fiducia l’azione dello Spirito per non rimanere schiacciati dai problemi, con la tentazione di isolarsi dalla realtà.
E’ auspicabile che la Chiesa del dialogo, nell’apertura alle realtà temporali, scorga i semi di bene e di verità disseminati tra gli uomini in qualsiasi condizione. E’ auspicabile approfondire la teologia del Popolo di Dio come responsabilità per la salvezza dell’uomo, per lo sviluppo integrale e per il bene comune.
Sempre a Piazza Armerina, Papa Francesco stila un elenco dei problemi che assillano il nostro Sud e non solo la Sicilia: «Non sono poche le piaghe che vi affliggono. Esse hanno un nome: sottosviluppo sociale e culturale; sfruttamento dei lavoratori e mancanza di dignitosa occupazione per i giovani; migrazione di interi nuclei familiari; usura; alcolismo e altre dipendenze; gioco d’azzardo; sfilacciamento dei legami familiari».
«Di fronte a tanta sofferenza la comunità ecclesiale può apparire, a volte, spaesata e stanca; a volte invece, grazie a Dio, è vivace e profetica, mentre ricerca nuovi modi di annunciare e offrire misericordia soprattutto ai fratelli caduti nella disaffezione, nella diffidenza, nella crisi della fede”…”Vi esorto, pertanto, a impegnarvi per la nuova evangelizzazione di questo territorio centro-siculo, a partire proprio dalle sue croci e sofferenze ».
E’ tempo, ci siamo detti, di versare “vino nuovo” in “otri nuovi”:
Creando percorsi di educazione alla dimensione sociale dell’evangelizzazione;
Promuovendo esperienze di impegno concreto per la pace, per la non violenza, per il rispetto delle diversità tra uomo e donna, tra persone di culture diverse;
Facendo conoscere la Dottrina sociale della Chiesa sia nella catechesi ordinaria che con appositi momenti formativi, per incrementare nei cristiani la vocazione alla politica;
Evitando di restare «comodi … spettatori di una sterile stagnazione della Chiesa », comodità che rischierebbe di paralizzarci, soprattutto se continueremo a servirci degli “otri vecchi” incapaci di contenere il “vino nuovo”;
Approfondendo l’ecclesiologia del Concilio che ci riporta alla Chiesa delle origini, allo stile di vita delle prime comunità cristiane: ancora oggi, a oltre cinquant’anni dalla conclusione del Concilio, è necessario rispecchiarsi in quel modello di Chiesa;
Entrando nella Chiesa mistero e nella Chiesa comunione: sono due aspetti dell’unica Chiesa che chiedono ancora di essere approfonditi e concretizzati.
La tentazione è sempre la stessa: accomodarsi nei panni dell’uomo vecchio (si è sempre fatto così!), senza rendersi conto che Gesù è l’uomo nuovo. Cosa significa? Prendere delle toppe, alcune frasi del Vangelo, e cucirsele addosso secondo le necessità del momento a giustificazione di scelte di vita personali o comunitarie.
Gesù ci dice che ciò che ormai è vecchio e logoro non ha bisogno di essere riparato ma messo da parte. Una Chiesa piena di toppe non sarà mai nuova e non indosserà mai il vestito bello della Parola di Gesù. In un cammino di fede adulta il vecchio serve per capire come proiettarsi nel futuro, rinnovandosi nel presente. Diversamente, sarà una Chiesa senza anima, senza la forza e la guida dello Spirito Santo. Il vino nuovo, Gesù, si gusta meglio perché siamo “otri nuovi”. E’ questo lo spirito che deve animare il nostro Sinodo, affinché non resti una celebrazione di norme e orientamenti, ma incida profondamente nella vita di ciascuno.
La Parrocchia: tutti icone viventi di prossimità
Parlando della Parrocchia nel 1957, Don Primo Mazzolari fa una descrizione che è di una attualità sconcertante. Com’è nel suo stile rispettoso e innamorato di Cristo e della Chiesa, parla con sincerità, forza e determinazione, senza sottacere i pericoli che corre. «La parrocchia a servizio dei poveri. Una parrocchia senza poveri cos’è mai? Una casa senza bambini, forse anche più triste. Purtroppo ci siamo così abituati a case senza bambini e a chiese senza poveri, che abbiamo l’impressione di starci bene. I bambini scomodano, i poveri scomodano. Questo però non dice niente, né ha molta attinenza col tema della parrocchia. E’ soltanto un piccolo sfogo del cuore per farlo mansueto e ragionevole in un argomento poco mansueto e niente affatto ragionevole. La parrocchia, che fu ed è, e non può non essere, la cellula della Chiesa, oggi è in crisi ».
Ma non sono forse questi i forti richiami che Papa Bergoglio continua a fare quando dice che la parrocchia “non si tocca”? Oppure quando afferma che non è «una struttura che dobbiamo buttare dalla finestra »?
Durante la visita a Cracovia, per la GMG, parlando ai vescovi polacchi, ha ribadito con forza che la parrocchia è «la casa del popolo di Dio», e «deve rimanere come un posto di creatività, di riferimento, di maternità ».
Concetti presenti nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «la parrocchia non è una struttura caduca ». Riprendendo l’esortazione apostolica Christifideles laici, di Giovanni Paolo II, ribadisce che la Parrocchia «continuerà ad essere la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie ».
A una delle tante domande che gli sono state rivolte, Papa Francesco, con la chiarezza e semplicità che lo contraddistingue ha precisato: «Qualcuno dice che la parrocchia non va più, perché adesso è l’ora dei movimenti. Questo non è vero! I movimenti aiutano, ma i movimenti non devono essere una alternativa alla parrocchia: devono aiutare nella parrocchia, portare avanti la parrocchia, come c’è la Congregazione Mariana, come c’è l’Azione Cattolica e tante realtà ».
Durante il percorso sinodale tutte queste considerazioni sono venute fuori in modo chiaro e inequivocabile: frutto di preghiera, ascolto e riflessione comunitaria. Questa è sinodalità!
Versare “vino nuovo” in “otri nuovi” non significa aprire strade nuove, percorsi nuovi. Vuol dire ritornare al gusto del Vangelo, all’essenziale. La Parrocchia, oggi come ieri, è chiamata ad essere sempre più “popolare”: in mezzo alle case abitate da battezzati e non.
Per sfuggire la tentazione di versare “vino nuovo” in “otri vecchi” è necessario:
Consapevolezza della dignità e della capacità attiva del popolo di Dio;
Buon dialogo tra vescovo – sacerdoti – laici battezzati;
Valorizzazione dell’esperienza della sinodalità come stile di vita permanente della nostra Chiesa diocesana e delle nostre comunità parrocchiali;
Migliore funzionamento degli organismi di partecipazione come luoghi concreti per l’esercizio della sinodalità;
Attuazione più incisiva dell’esperienza della interparrocchialità per uscire dall’individualismo pastorale e per crescere nella comunione concreta tra sacerdoti e popolo di Dio, auspicando le unità pastorali, frutto dell’impegno interparrocchiale;
Promozione della catechesi non solo in parrocchia, ma anche negli ambiti di lavoro, al fine di rafforzare l’identità cristiana, superando l’estraneità che spesso impera fra i battezzati. Diventa un modo concreto per verificare e rinsaldare “la tenuta” della fede, cioè la capacità di Cristo di trasfigurare con la sua presenza tutte le situazioni, anche le “più lontane” e le più dolorose;
Maggiore disponibilità;
Valorizzazione dei carismi dei laici e maggiore coinvolgimento nel percorso di ascolto e di discernimento;
Formazione permanente dei membri dei Consigli pastorali per svolgere al meglio il ruolo di ascolto e di lettura della realtà;
Maggiore dialogo e scambio tra gli uffici diocesani.
Questa è profezia! Solo se ci si mette in ascolto dello Spirito Santo, facendosi permeare dalla Parola di Dio, la Parrocchia sarà un “otre nuovo” da cui chiunque potrà attingere e gustare, deliziandosi, il “vino nuovo”.
La tentazione di essere efficienti, di lasciarsi prendere dalla smania dell’organizzare e promuovere continuamente iniziative potrebbe dare alla parrocchia un’identità che non le appartiene. Essa è famiglia e non fabbrica di eventi; è popolo di Dio e non azienda; è comunità e non partito o sindacato. Direbbe Don Mazzolari, è “focolare”, “casa domestica”, dove è possibile fare esperienza della figliolanza divina.
Siamo chiamati, vescovo, presbiteri, diaconi, consacrati/e e laici, ad essere presenti nella vita sociale, a interiorizzare la Parola che costruisce una fede nuova, adulta, un vestito nuovo privo di toppe del vestito vecchio.
Non ci si improvvisa politico o sindacalista cristiano: la dottrina sociale della Chiesa deve guidare ogni scelta e impegno. In ossequio a questi principi, chiunque gestisca la cosa pubblica non può agire per fini o scopi di interesse personale. Tutto si faccia in un dialogo sincero e trasparente, per il bene della collettività, senza la paura di manifestare la propria fede, nella difesa di quei principi che ci appartengono. «Ognuno è soltanto obbligato a camminare con la luce che ha, cioè a fare la verità di cui è in possesso. Il rimanere fedeli alla verità posseduta non è un piccolo merito, mentre apre la via a una luce più grande» .
Promuovere il bisogno di uomini di amore, non di uomini di onore
Il percorso sinodale ci ha aiutati a prendere coscienza che Dio fa le “cose nuove”, servendosi di “uomini di amore”, innamorati del Vangelo e non di uomini di onore. Quanti santi preti e diaconi, anche ai nostri giorni, sempre più innamorati del loro ministero! Quanti religiosi e religiose servono la Chiesa con gioia ed entusiasmo! Quanti laici impegnati, con una fede adulta, spinti dalla forza dell’amore, vivono santamente la loro vocazione! Quanti giovani sorridono alla vita, testimoniando la bellezza di una umanità nuova, che non si lascia intimorire dal male che discrimina e isola!
La Chiesa, in perenne tensione verso il suo Signore, annuncia attraverso il Kerigma, all’uomo d’oggi che si lascia incontrare, quindi convertire.
Ecco il “vino nuovo” versato negli “otri nuovi” della nostra Arcidiocesi, delle nostre comunità parrocchiali ricche di associazioni, confraternite, gruppi.
La buona notizia è la novità che Gesù ha portato: Dio ama indipendentemente dall’agire dell’uomo, sempre pronto ad accogliere il suo amore. E’ il vino nuovo, che cambia radicalmente il rapporto con Dio.
Già Paolo VI nel 1975 diceva: «Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità, è, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa: «Ecco io faccio nuove tutte le cose» (Apoc. 21, 5; cfr. 2 Cor. 5, 17; Gal. 6, 15). Ma non c’è nuova umanità, se prima non ci sono uomini nuovi, della novità del battesimo (Cfr. Rom. 6, 4) e della vita secondo il Vangelo (Cfr. Eph. 4, 23-24; Col. 3, 9-10). Lo scopo dell’evangelizzazione è appunto questo cambiamento interiore e, se occorre tradurlo in una parola, più giusto sarebbe dire che la Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del Messaggio che essa proclama (Cfr. Rom. 1, 16; 1 Cor. 1, 18; 2, 4), cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri» .
Il lavoro fin qui portato avanti dai gruppi di studio, dalle comunità parrocchiali e dai singoli fedeli, ha evidenziato questi aspetti:
Nella nostra diocesi sono in crescita l’identità e la coscienza battesimale del laico come la sua partecipazione attiva sia a livello intraecclesiale che a livello extraecclesiale nella società e negli ambiti lavorativi;
L’attenzione e la cura dei poveri e dei bisognosi appaiono radicate. Da buoni meridionali, storicamente vissuti nell’indigenza, abbiamo innato il senso dell’accoglienza. Varie sono le modalità che favoriscono forme di integrazione quale l’istituzione di corsi di lingua italiana, sorti spontaneamente in luoghi della diocesi, aperti a tutti e frequentati da uomini e donne di diversa provenienza, cultura e religione;
Nelle comunità parrocchiali lo slancio missionario è molto presente e si manifesta con iniziative rivolte di volta in volta ai giovani, alle famiglie, agli adulti ecc., in genere collegato ai periodi dell’anno liturgico e finalizzato alla celebrazione dei sacramenti. Purtroppo, i tentativi di promuovere iniziative che riguardino aspetti dell’attualità o del vivere quotidiano affrontati alla luce del messaggio evangelico e dell’esperienza cristiana di vita, vedono la partecipazione di persone già direttamente impegnate nella sfera parrocchiale, ma non sempre arrivano a una platea più ampia. Questo mancato coinvolgimento di quanti non frequentano la Parrocchia, ci induce ad affermare con rammarico che la comunità risulta deficitaria nella sua funzione educativa ed evangelizzatrice.
Particolarmente interessante è il richiamo al recupero della Liturgia:
In genere le liturgie risplendono per nobile semplicità, ma se questa condizione è necessaria, non è tuttavia sufficiente a garantire il coinvolgimento dei fedeli;
Quando ci chiediamo chi salva il mondo e l’uomo, la risposta è immediata: Gesù di Nazareth, il Signore, il Cristo crocifisso e risorto. Ma se ci chiediamo dove si rende attuale il mistero della salvezza, la risposta non è mai: nella liturgia. Si pensa generalmente di poter essere credenti senza “andare a messa”. Alcuni dichiarano di essere credenti ma non praticanti, poiché ritengono l’insieme dei riti una pura formalità;
A volte i sacramenti vengono chiesti non per una vera scelta di vita cristiana ma, soprattutto Cresima e Matrimonio, come un obbligo da assolvere per ottenere una “certificazione” che permetta di celebrare altri riti. Il sacramento dell’unzione degli infermi non è sempre adeguatamente evangelizzato;
I fedeli che partecipano alla messa, probabilmente, lo fanno oggi con più consapevolezza rispetto al passato; vogliono incontrare il Signore e desiderano che anche i loro figli possano camminare su una strada buona. La partecipazione comunque non ha alcuna ripercussione nella vita sociale del cristiano. Si ha, infatti, l’impressione di essere passati da una partecipazione ostentata pubblicamente, tipica dei decenni addietro, ad una pratica intimistica e non condivisa: l’essere cristiani è diventata una scelta personale vissuta in ambito privato.
Alla luce delle indicazioni emerse dal percorso sinodale, si evince che questo è il tempo in cui bisogna stare attenti a non ridurre l’insegnamento di Gesù ad una serie di regole e di precetti che lui stesso condanna. Il Vangelo è vita che trasforma l’uomo, lo riempie di Dio. Il mosto nella botte fermenta. Prima che diventi vino buono, quindi nuovo, passa del tempo: avviene un cambiamento. Se questo non avviene, non si può ammirarne la limpidezza né avvertirne l’ebbrezza. E’ il passaggio che ci viene richiesto: un cambiamento di mentalità che coinvolga l’uomo per essere come Dio lo ha da sempre pensato e voluto.
Il dire di Papa Francesco è chiaro: «C’è bisogno di cristiani che rendano visibile agli uomini di oggi la misericordia di Dio, la sua tenerezza per ogni creatura. Sappiamo tutti che la crisi dell’umanità contemporanea non è superficiale, è profonda. Per questo la nuova evangelizzazione, mentre chiama ad avere il coraggio di andare controcorrente, di con-vertirsi dagli idoli all’unico vero Dio, non può che usare il linguaggio della misericordia, fatto di gesti e di atteggiamenti prima ancora che di parole. La Chiesa in mezzo all’umanità di oggi dice: Venite a Gesù, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e troverete ristoro per le vostre anime (cfr Mt 11,28-30). Venite a Gesù. Lui solo ha parole di vita eterna» .
Ci sono dei pericoli da evitare
Papa Francesco, nella Gaudete et Exsultate, mette in evidenza i pericoli da evitare nella nuova evangelizzazione che chiama «un immanentismo antropocentrico travestito di verità cattolica ”. Cosa significa? Lui stesso lo spiega chiedendo di evitare l’«elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare ».
Così il Papa definisce lo gnosticismo, pericolo da evitare insieme al suo opposto: il pelagianesimo. Ci tiene a precisare come il pericolo accade all’interno della Chiesa stessa: «Non mi riferisco ai razionalisti nemici della fede cristiana », a causa del «fascino ingannevole », dove prevale la «vanitosa superficialità », tipico della prima eresia: «Questo può accadere dentro la Chiesa, tanto tra i laici delle parrocchie quanto tra coloro che insegnano filosofia o teologia in centri di formazione », soprattutto quando (nessuno è esente, né pastori né fedeli) nelle scelte pastorali si «assolutizzano le proprie teorie e obbligano gli altri a sottomettersi ai propri ragionamenti ».
La cosa più triste che Papa Francesco sottolinea è la pretesa «di ridurre l’insegnamento di Gesù a una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto ». Pressante è l’invito ad allargare gli orizzonti della misericordia, lasciandoci guidare dallo Spirito Santo: «Anche qualora l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dalle dipendenze, Dio è presente nella sua vita. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito più che dai nostri ragionamenti, possiamo e dobbiamo cercare il Signore in ogni vita umana ». Ma soprattutto di uscire dalla logica di assolutizzare la “propria” verità: «Non possiamo pretendere che il nostro modo» di intendere la verità «ci autorizzi a esercitare un controllo stretto sulla vita degli altri ».
E’ necessario uscire dalla confusione che emerge quando si pensa di sapere tutto e di possedere la Verità, ignorando che l’unica Verità è Gesù Cristo. Da qui l’invito a sottrarci dalla «pericolosa confusione » che, in termini semplici e concreti, si manifesta nel «credere che, poiché sappiamo qualcosa o possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi, perfetti, migliori della “massa ignorante ”». È lo stesso pensiero di Giovanni Paolo II quando ci invitava a sfuggire la «tentazione di sviluppare un certo sentimento di superiorità rispetto agli altri fedeli elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare ».
Insegnamento costante di Papa Francesco, vissuto con coerenza nell’agire e nelle parole. Già all’inizio del suo pontificato affermava: «Nessuno è escluso dalla speranza della vita, dall’amore di Dio. La Chiesa è inviata a risvegliare dappertutto questa speranza, specialmente dove è soffocata da condizioni esistenziali difficili, a volte disumane, dove la speranza non respira, soffoca. C’è bisogno dell’ossigeno del Vangelo, del soffio dello Spirito di Cristo Risorto, che la riaccenda nei cuori. La Chiesa è la casa in cui le porte sono sempre aperte non solo perché ognuno possa trovarvi accoglienza e respirare amore e speranza, ma anche perché noi possiamo uscire a portare questo amore e questa speranza. Lo Spirito Santo ci spinge ad uscire dal nostro recinto e ci guida fino alle periferie dell’umanità» .
Altro che “vino nuovo” in “otri nuovi”! Il rischio è di continuare a versare “vino vecchio” in “otri vecchi”. E il vino vecchio, con il passare degli anni, diventa liquoroso, gradevole ma non più buono da bere a tavola.
La Chiesa è minacciata da un altro pericolo: il pelagianesimo, visione di coloro che credono nella «giustificazione mediante le proprie forze », favorendo quell’«autocompiacimento egocentrico ed elitario » che viene mostrato attraverso scelte discutibilissime, prese di posizione, atteggiamenti, che non favoriscono l’immagine di Chiesa comunione, di famiglia radunata attorno alla mensa della Parola e dell’Eucaristia. Ciò che a volte prevale è «l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e il prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale ».
L’analisi che Papa Francesco fa e che in alcuni tratti potrebbe risultare scomoda, chiarisce senza mezzi termini che: «Molte volte, contro l’impulso dello Spirito, la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in possesso di pochi », in particolare quando «alcuni gruppi cristiani danno eccessiva importanza all’osservanza di determinate norme proprie, di costumi o stili ». L’intento del Pontefice è quello di invitare tutto il popolo santo di Dio con i loro pastori a ritornare al cuore dell’annuncio della buona notizia «in un solo precetto: Amerai il prossimo come te stesso». «In mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte ».
Ancora Don Primo Mazzolari pone all’attenzione il fatto che nella pastorale, a volte, si percorrano strade che sarebbe opportuno evitare. Le sintetizzo così:
Nell’intento di «descrivere con compiacimento amaro e altezzoso gli errori », non c’è nulla di evangelico: si resta a guardare e a puntare il dito sugli errori degli altri;
Alcuni lavorano con zelo ma da “battitori solitari”, senza essere in comunione con la Chiesa, ritenendo il proprio “fare” il più efficace. Don Mazzolari definisce questo atteggiamento «attivismo separatista». Questo metodo procura molti consensi nell’opinione pubblica ma il rischio è che faccia nascere «un’altra Chiesa”;
Don Mazzolari definisce altresì un altro atteggiamento: il «soprannaturalismo disumanizzante ». La vita religiosa viene colta come un rifugio per affrontare delusioni, difficoltà, malattie e sofferenze di vario genere, ma correndo il rischio di estraniarsi dal mondo dove, invece, bisogna agire ed evangelizzare. In questo caso le devozioni prendono il sopravvento: «Si sopprime un termine, il mondo, cioè il campo dove il Signore vuole che lavoriamo ». E’ proponibile una fede dove lo spiritualismo prende il sopravvento?
La parrocchia, Chiesa di Dio tra le case degli uomini
Nell’esortazione apostolica Christifideles laici (n. 26), Giovanni Paolo II ci invita a ripensare la parrocchia come «la Chiesa che vive tra le case degli uomini». Definizione che riprende nel messaggio che inviò ai vescovi italiani, in occasione della 52a Assemblea generale (Assisi: 17-20 novembre 2003). Assemblea alla quale, con mia grande meraviglia, fui invitato a partecipare come rappresentante di tutti i parroci della Calabria.
La domanda di fondo che caratterizzò i nostri gruppi di studio fu questa: come e quando la parrocchia è «la Chiesa che vive tra le case degli uomini»? Il discernimento dei vescovi, alla luce dei contributi che furono dati dal lavoro assembleare e dai singoli, portò alla pubblicazione del documento: «Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia» ”.
I punti essenziali sui quali si ritorna ancora oggi non cambiano. Essenzialmente mettono in evidenza che la Parrocchia è la Chiesa di tutti, perché fortemente radicata in un territorio ben preciso, dove i singoli battezzati scoprono di essere Chiesa partecipando, soprattutto nel giorno del Signore, all’Eucaristia. Tutto questo sarà possibile se l’aspetto missionario, non solo del presbitero ma di tutti gli operatori pastorali, si mette seriamente in cammino: andare dal centro verso la periferia per poi dalla periferia proseguire verso il centro.
E’ necessario vincere la tentazione di quell’autoreferenzialità che mina profondamente il tessuto spirituale e umano della Parrocchia stessa. Non si possono uniformare tutte le esperienze dei vari cammini di fede che ci sono nella Parrocchia, scambiandola con la comunione che si esprime, invece, proprio nelle differenze.
«Nelle prime righe della lettera sulla parrocchia, don Mazzolari dice: “Dalla parrocchia la Chiesa fa casa con l’uomo”, dove l’espressione ‘fa casa’ anche nel linguaggio comune è un’espressione che viene utilizzata in riferimento alla famiglia (la casa fa riferimento alla famiglia). E ‘far casa insieme’ è l’espressione che dice una familiarità, una consuetudine, un’intimità: la parrocchia, dunque, si configura come il luogo di familiarità, di intimità, di consuetudine di Dio con l’uomo. La parrocchia diventa il luogo in cui è più forte questo diventare famigliare di Dio con l’uomo, nella dimensione della Chiesa» .
Matera 2019: Un’occasione per riprendere il rapporto con la fede
In questa logica si è lavorato e si sta lavorando in vista di Matera 2019. Nell’ultimo incontro dell’Assemblea Permanente della CEI , uno dei punti all’ordine del giorno è stato: Matera 2019 Capitale Europea della Cultura: un’occasione per ripensare il rapporto con la fede. Sono stato invitato a presentare il nostro programma dopo l’introduzione teologica-pastorale sul tema da parte di S. E. Mons. Franco Giulio Brambilla.
Il mio intervento ha sostanzialmente sintetizzato il percorso che il gruppo di lavoro, già dal 2015, ha portato avanti. Tra le altre cose ho voluto sottolineare quanto segue.
Il concetto della “eredità” del 2019 per la nostra gente e il nostro territorio è la linea guida essenziale su cui ci si è mossi nello sviluppare un progetto articolato, forse ambizioso, sicuramente desideroso di cogliere sino in fondo questa occasione. Ma perché questa eredità si perpetui nel tempo, occorre costruire un percorso che vada nella logica del lungo termine e soprattutto che sia efficace per incidere sul territorio in maniera stabile. Su queste premesse e seguendo le indicazioni dell’Ufficio CEI per la pastorale del turismo, dello sport e del tempo libero, è nato il Parco culturale ecclesiale “Terre di luce”, secondo la definizione che San Giovanni Paolo II diede delle terre lucane. Il Parco, ora costituito come associazione di promozione sociale, è il meta-luogo nel quale si realizza il calendario di eventi del programma “I Cammini”. Contestualmente si pongono le premesse per questa eredità, accogliendo un modello che vuole dare stabilità, durabilità e sostenibilità nel tempo a quanto ci si auspica possa scaturire dalle riflessioni contenute nel documento “Tra Radici e Futuro”.
Il Parco Culturale “Terre di luce” intende configurarsi come un sistema territoriale che promuove, recupera e valorizza, attraverso una strategia coordinata e integrata, il patrimonio liturgico, storico, artistico, architettonico, museale, ricettivo, ludico di una o più Chiese particolari. Una realtà che sappia raccontare che cultura è anche crescita interiore e spirituale, se ad ogni bene culturale corrisponde anche una comunità.
Ma quali sono le prospettive più a lungo termine? Per dare forza, resilienza e durabilità a questa iniziativa, abbiamo immaginato diversi momenti propedeutici uno all’altro:
● Creare e consolidare una rete aperta e inclusiva di “operatori” provenienti in primis dalle realtà diocesane e parrocchiali.
● Attivare un circuito di scoperta e fruizione del territorio e delle sue risorse storiche, architettoniche, artistiche e culturali differenziato per “cammini” e ispirato ai temi delle religiosità e della spiritualità.
● Costituire una infrastruttura per la promozione di iniziative economiche e microimprenditoriali (integrandosi e proseguendo in tal senso l’esperienza del Progetto Policoro) fra le comunità diocesane della Basilicata e nel più ampio contesto regionale.
● Avviare una concreta offerta di turismo “religioso” che non sia di mero consumo ma reale percorso culturale e spirituale, al fine di utilizzare il patrimonio ecclesiale in maniera piena e coerente ed allo stesso tempo realizzare una corretta valorizzazione, rispettosa della sua natura “sacra”
● Arrivare alla costituzione di una Fondazione di Partecipazione come strumento e modello di lavoro per la costruzione del bene comune e una attenzione particolare all’impegno contro il disagio, le povertà, le discriminazioni.
In questo modo riteniamo di poter concretamente generare valore, un valore a tutto tondo, per la comunità e per la comunità ecclesiale in particolare, dando contestualmente “gambe” alla iniziativa del Parco: simbolo, strumento e infrastruttura primaria e garanzia di durabilità e resilienza per una iniziativa che ambisce a essere “legacy” del 2019 per tutto il territorio. Una fondazione di partecipazione è un ente non profit, che mette insieme soggetti rappresentativi di una comunità locale (privati cittadini, istituzioni, associazioni, operatori economici e sociali) con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita della comunità stessa, attivando energie e risorse e promuovendo la cultura della solidarietà, del dono e della responsabilità sociale. La principale peculiarità di questo tipo di fondazione è la possibilità per una collettività di investire nel proprio sviluppo e nelle sue qualità, attivando risorse proprie per realizzare progetti ed interventi per il territorio. La Fondazione, grazie alla capacità di attrarre risorse, sotto forma di donazioni e altre liberalità, valorizzarle attraverso una attenta gestione patrimoniale e di investirle in progetti locali di carattere sociale, rappresenta un importante strumento di sussidiarietà.
L’idea di poter vedere coinvolte nelle attività della “nascente” fondazione le specifiche azioni di sostegno messe in opera, per esempio, dalla Caritas diocesana insieme alle attività di promozione culturale, renderebbe una testimonianza significativa del “come” la Chiesa di Matera abbia interpretato la storica occasione della “capitale della cultura”, ovvero proponendo una Cultura della Carità, capace di fare dell’intrattenimento intellettuale una straordinaria occasione di inclusione sociale.
Conclusioni
Carissimi, a conclusione di questa lettera, in vista del nostro Sinodo Diocesano, invito tutti a sentire e vivere questo momento di grazia come il passare di Gesù nelle nostre comunità parrocchiali. E’ lui il “vino nuovo”che si ripropone con il suo messaggio salvifico per vivere il cambiamento preparando “otri nuovi”. Una storia, quella della nostra Chiesa, bella se pur piena di tanta sofferenza, ma impregnata di fede.
Siamo consapevoli che abbiamo bisogno di mantenere viva la memoria e la perseveranza dei nostri padri ma, nello stesso tempo, siamo chiamati con fiducia a esercitare quel cambiamento che oggi noi tocchiamo con mano, godendone i benefici.
Il Sinodo ci aiuterà a saper guardare positivamente avanti, a fare delle scelte che ci permetteranno di ravvivare le nostre comunità parrocchiali e l’intera Chiesa Diocesana.
Sarà un anno pieno di preghiera e di ascolto della Parola, accogliendo quanto lo Spirito Santo dirà oggi e quì alla nostra amata Chiesa di Matera – Irsina.
Per questo siamo invitati a metterci seriamente in ascolto del Signore, per maturare e assimilare i contenuti.
Benedetto XVI nel Motu Proprio Porta Fidei, dice: «Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato ». Quindi questo è il tempo in cui siamo invitati a proporre la fede attraverso un’evangelizzazione che ci porti a suonare i campanelli, come direbbe Papa Francesco, guardando il centro dalle periferie.
Ringrazio quanti hanno lavorato fino a questo momento, durante l’itinerario sinodale, e quanti saranno chiamati a portare avanti i lavori del Sinodo. La nostra Chiesa Diocesana li sostenga con la preghiera.
La Vergine Maria della Bruna e i nostri santi Patroni, Eufemia, Eustachio e Giovanni da Matera ci aiutino durante i lavori sinodali, affinché, sempre più innamorati di Gesù e della Chiesa, possiamo sostenerci ed essere l’uno per l’altro annunciatori dello stesso messaggio: il Vangelo di Gesù.
Vi abbraccio e benedico tutti.
+ Don Pino