Sull’ìnchiesta che coinvolge il Centro Oli Viggiano si registra l’intervento del coordinamento regionale di Basilicata de “La Sinistra”.
Oramai ciclicamente siamo chiamati a commentare fatti di cronaca giudiziaria che investono l’intera vicenda petrolifera lucana e, con essa, quella particolare del CoVa di Viggiano. Convinti del carattere ‘politico’ che quella vicenda richiama, non possiamo non essere spaventati dal ruolo di cassandra cui la storia degli ultimi dieci anni rischia di relegarci, non fosse altro che per le denunce e le riflessioni che nel tempo abbiamo offerto a istituzioni e cittadini. È anche vero che la gravità dei fatti che emergono dalle inchieste – odierne e passate – non possono esimerci da un plus di riflessione, la quale non può che rivestire almeno due piani diversi.
Il primo piano – che riguarda forse il cuore di questa ennesima indagine – attiene alla sicurezza del territorio e dei cittadini, la quale passa necessariamente attraverso il sistema dei controlli, ricordandoci sempre del fatto che, quando parliamo di petrolio in Val d’Agri, parliamo del più grande giacimento petrolifero d’Europa su terraferma. In virtù di questa presa d’atto, da anni chiediamo che il sistema di controlli sia rivisitato, separando in modo netto le funzioni tra controllato e controllore, rendendo quest’ultimo totalmente autonomo. Il riferimento è chiaramente all’Arpab, ossia a quell’agenzia regionale per l’ambiente che in questi anni avrebbe dovuto dotarsi dei più qualificati esperti in materia di controlli ambientali: abbiamo in questi anni provato a dirlo in tutte le sedi che a dirigere un’agenzia come l’Arpab in presenza di cotanto giacimento non poteva essere chiamato l’amico e/o il paesano del potente di turno, con tutto il rispetto per le persone. Sistema di controlli ma anche garanzie sulla qualità degli impianti, sulla loro sicurezza e modernità, salvo scoprire che non solo quegli impianti sono lontanissimi dalle più innovative soluzioni tecnico-scientifiche, ma che non rispettano nemmeno le più elementari leggi di sicurezza, come dimostrato dall’assenza di un doppio fondo dei pozzi di raccolta del greggio. Sempre sul tema della sicurezza del territorio e della salute pubblica – e anche dopo le ripetute emergenze ambientali provocate dagli impianti – da anni chiediamo, alla Regione Basilicata, l’approntamento di un rigoroso piano delle acque, senza il quale diventa complicato (forse impossibile) capire lo stato reale dell’inquinamento prodotto nelle falde acquifere e, quindi, la sua penetrazione nel sistema alimentare delle lucane e dei lucani e non solo, ricordando che quelle acque sono in gran parte usate anche dalle pugliesi e dai pugliesi. Così come da anni chiediamo una legislazione sulle emissioni che tuteli maggiormente le popolazioni della valle: tutele non definitive, ovviamente, perché come si evince da documenti ufficiali, non vi sono ‘estrazioni sicure’ e senza rischi per le popolazioni che vivono nelle aree limitrofe alle estrazioni a causa delle ammine utilizzate nei processi di estrazione. Il secondo piano di ragionamento, che è anche quello immediatamente più politico, ha a che fare con il futuro di questa regione dopo venti anni di estrazioni petrolifere. Innanzitutto un bilancio di questi anni, in cui abbiamo assistito a una desertificazione sociale senza precedenti, dal punto di vista dell’insediamento occupazionale ma anche dal punto di vista antropico. Forse un numero vale più di mille teorie, per provare a capire quanto inutile e dannoso continui a essere un sistema produttivo ed energetico fondato sul fossile: circa 3800 lucani (gran parte giovani) che hanno abbandonato – sono stati costretti ad abbandonare – la Basilicata nel solo 2018. Senza contare che alla depressione sociale e alla depauperazione ambientale si somma la depauperazione politica, provocata da “quell’inquinamento” dei bilanci regionali cui hanno portato le royalties, la cui unica funzione è stata quella di sostituirsi alla spesa corrente, generando un sistema di utilizzo della spesa pubblica ai soli fini della riproduzione del consenso. Di fronte a ciò il tema principe non può non essere quello di una’exit strategy’ dall’affaire petrolio. Il fossile non può e non deve diventare il destino di questa regione, la quale altrimenti sarebbe condannata a una sorta di estinzione.
Su questo bisogna che le lucane e i lucani prendano coscienza, soprattutto oggi che ai vecchi riferimenti si sono sostituiti i nuovi riferimenti politici e amministrativi di Eni, come dimostrano il caschetto e la felpa del cane a cinque zampe indossate dal leghista Salvini (tra l’altro, il neo presidente eletto Bardi, non ha mai fatto mistero di come intendano procedere in materia di petrolio, vista dagli attuali assetti del nuovo governo regionale come un’unica grande opportunità da sfruttare intensamente).
Siamo in un momento storico delicatissimo per quanto riguarda il rapporto tra uomo e ambiente: un rapporto che assume una dimensione planetaria, in cui s’inserisce anche il futuro di una regione piccola come la Basilicata con i suoi giacimenti. Forse è arrivato il momento di cominciare a pretenderla, quella che abbiamo chiamato “Basilicata Carbon Free”. Una Basilicata libera dal fossile ma che chiami l’Eni e il governo nazionale alle proprie responsabilità risarcitorie: una sorta di ‘vertenza Basilicata’ a cui chiamare anche i sindacati, e che metta in campo un piano di bonifica di tutto il territorio regionale, capace di riconvertire – quindi tutelandone lo stato occupazionale – lavoratrici e lavoratori, impegnandoli nel presidio di un territorio dal complesso assetto idrogeologico.