Si è aperta nel pomeriggio nell’auditorium Serra del Sole della Cava del Sole di Matera il convegno “La nostra Europa, la cultura, il lavoro. La cultura del lavoro”. Dopo i saluti del sindaco di Matera Raffaello De Ruggieri e l’intervento del segretario generale della Cisl Basilicata, Enrico Gambardella è stato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ad introdurre i lavori della tavola rotonda coordinati dal giornalista Mimmo Sammartino, che hanno coinvolto il giornalista della Repubblica, Sergio Rizzo, il Presidente della Fondazione Matera-Basilicata 2019, Salvatore Adduce, la ricercatrice Università del Salento, Francesca Imperiale e l’Amministratore Delegato iCompany, Massimo Bonelli.
I lavori proseguiranno dalle ore 9,30 di martedì 7 maggio con il seguente programma
ore 9,30: introduzione di Carmelo Barbagallo, segretario generale Uil
Lectio Magistralis di Romano Prodi, presidente Fondazione per la collaborazione tra i popoli
nel corso del dibattito sono previsti gli interventi di Luca Visentini, segretario generale CES e Rosanna Purchia, Sovrintendente Fondazione Teatro San Carlo di Napoli
Conclusioni: Anna Maria Furlan, segretaria generale Cisl
ore 13.30 conclusione lavori
Di seguito la relazione del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini e l’intervento del segretario generale della Cisl Basilicata, Enrico Gambardella e la fotogallery di SassiLive
Relazione del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini
Abbiamo deciso di dedicare queste due giornate ad una discussione pubblica sull’Europa, il lavoro, la cultura. E la facciamo qui a Matera, capitale europea della cultura per il 2019, perché qui in modo emblematico si evidenziano tuttti i problemi che penalizzano il Mezzogiorno e che ne fanno una grande questione nazionale. Senza il rilancio del Mezzogiorno a partire da una infrastrutturazione sociale e materiale, non c’è sviluppo né per l’Italia né per l’Europa. Il patrimonio culturale di cui il Mezzogiorno è particolarmente ricco, ma non adeguatamente valorizzato, è proprio una di quelle grandi infrastrutturazioni sociali che possono determinare un nuovo sviluppo di qualità, sia economico che di civiltà. Anche per questo ci chiediamo, se c’è ancora spazio per una Europa sociale edemocratica. Noi riteniamo che uno spazio ci sia e dobbiamo perseguirlo con l’iniziativa, la battaglia politica e culturale, non sottovalutando l’importanza del voto di fine Maggio. Del resto la scelta inedita di realizzare un appello unitario con Confindustria nasce da questa consapevolezza e non a caso indica 4 priorità: unire persone e luoghi, dotarsi di strumenti per competere nel nuovo contesto globale, potenziare la rete di solidarietà sociale europea, sviluppare il dialogo sociale e la contrattazione collettiva. L’alternativa a ciò non sarebbe, infatti, un ritorno agli stati nazionali, ma sarebbe un ripiegamento sulle piccole patrie, sulle identità chiuse in se stesse. E ciò, è bene saperlo, significherebbe davvero la subordinazione al conflitto tra grandi potenze, ai grandi centri di potere, agli interessi speculativi e finanziari, alle agenzie di rating. Proprio perché affermiamo che c’è bisogno di Europa, con altrettanta chiarezza, diciamo che per difendere il grande progetto di un’Europa unita c’èbisogno di cambiarla profondamente. Di cambiarla a partire dai diritti del lavoro e della sua qualità , dalla piena e buona occupazione alternativa alla dilagante precarietà, dall’aumento dei salari, dalla tutela di sicurezza sociale.
Far vivere l’Europa vuole dire battersi per una sua riforma. E ci deve essere uno scatto di tutto il mondo del lavoro perché se dovessero prevalere i diversi nazionalismi ciò significherebbe per lungo tempo compromettere la possibilità di dare vita ad un’Europa dei diritti, ad un’Europa sociale . L’Europa che vogliamo è quella del multilateralismo della solidarietà, dell’inclusione. C’è bisogno di un processo politico che rafforzi il controllo democratico ed il potere del Parlamento Europeo a partire dall’iniziativa legislativa e non il diritto di veto dei Governi Nazionali. C’è bisogno di superare la logica dell’austerità che ha prodotto il fiscal compact. C’è bisogno di riformare le Istituzioni Economiche a partire dalla BCE affinché acquisiscano anche l’obiettivo della piena e buona occupazione fino a completare l’unione bancaria.
Cambiare l’Europa per farla vivere e dargli una prospettiva. Questo è il nostro impegno. Assistiamo oggi ad un proliferare di rivendicazioni nazionalistiche in materia di lavoro; a trattamenti contrattuali diversi a seconda della nazionalità di origine anche nello stesso territorio; a pratiche di dumping sociale; a spinte autoritarie e illiberali in molti paesi. E ciò è anche il frutto di un limite profondo con il quale e sul quale ha preso corpo il processo di costruzione europea. Si è operato per l’unificazione del mercato; si è realizzata la moneta unica. Ciò che è venuto meno è un governo unitario dei processi economici e sociali che nei fatti ha finito per favorire la competizione/concorrenza tra gli Stati che compongono l’Europa anziché produrre una reale e necessaria armonizzazione delle regole dei diritti e delle condizioni di vita.
Il dumping fiscale verso le grandi imprese per facilitare la loro localizzazione sul proprio territorio ne costituisce uno degli esempi lampanti e tra i più inquietanti per i guasti sociali che ha prodotto. E così le disuguaglianze sono cresciute fra i diversi paesi e all’interno di ciascun paese. Anche dopo la crisi del 2008 le politiche promosse dall’Unione Europea sono state restrittive e hanno affidato la crescita alle cosiddette riforme di struttura, alla restrizione delle funzioni pubbliche, alla deregolazione del mercato del lavoro, alla compressione dei sistemi di welfare.
Oggi, a dieci anni da quella crisi l’Europa continua a vivere una condizione di sofferenza. Gli effetti di quella crisi si fanno ancora sentire. Anche perché è stata una crisi per certi versi inedita; sicuramente la più pesante dal dopoguerra ad oggi. Inedita perché per lungo tempo si èfavorito in ogni modo lo sviluppo senza limiti di attività finanziarie producendo così denaro fittizio e, al tempo stesso, si è svalorizzato il lavoro. L’origine dei bassi salari e della precarietà del lavoro sta anche in questa modalità di accumulazione della ricchezza. Da qui nasce il disagio profondo, il senso di incertezza, il timore verso il futuro, che attraversa tutte le società sviluppate. Così al rapporto solidale si sostituisce la competizione tra persone in cui l’altro diventa un potenziale rivale.
Possiamo dire che tutto ciò è alle nostre spalle? Oggi, i dati più recenti ci dicono che siamo nel pieno di una nuova situazione stagnante. Il 2018 si è chiuso con il peggior risultato economico degli ultimi anni. Il reddito annuo è cresciuto nell’ultimo trimestre dell’anno dello 0,8%. La disoccupazione permane alta. Anzi: c’è un dato che colpisce, un dato che viene addirittura da un istituto come la Banca Centrale Europea, che oggi è costretta ad ammettere che se si tiene conto della sottoccupazione, la disoccupazione europea è il doppio di quella ufficiale: è il 18%; e quell’istituto riconosce esplicitamente che i programmi di quantitativa easing– che hanno immesso massicce dosi di liquidità – per la grande parte non sono entrati nel circuito dell’economia reale e alza il velo sulla inadeguatezza dei salari e ne denuncia la mancanza di corrispondenza con i fondamentali dell’economia.
Il rallentamento dell’economia europea vede direttamente e pesantemente coinvolta anche la Germania ed accresce il ritardo dell’Italia che nei fatti è in piena stagnazione.
Intendiamoci: non sottovalutiamo il fatto che nel corso di questi anni si sono formati sistemi di imprese che hanno innovato, accresciuto la produttività, esportato non solo in Europa; né sottovalutiamo il fatto che, ad esempio, il vantaggio competitivo della Germania è solo in parte legato alla concorrenza di prezzo ma si basa piuttosto sulla qualità dei prodotti. Ma il problema sta nel fatto che questi sistemi di impresa sono distribuiti in diversi paesi europei o in singole regioni di quei paesi in modo non omogeneo. E questo ha prodotto divisioni. Anzi, è uno dei fattori principali di disunione in cui si viene a trovare oggi l’Europa. Se, infatti, verso est sono stati coinvolti nella catena della subfornitura alcuni paesi (anche se con scarsi effetti di valorizzazione del lavoro e di mancata redistribuzione del reddito da lavoro), l’effetto verso il sud dell’Europa è stato quello di un impoverimento della struttura produttiva. Esemplificativa è proprio la situazione dell’Italia: è il secondo paese manifatturiero ed è, in particolare con alcune sue regioni del nord-est, parte importante e subordinata di tale sistema. Ma questa integrazione riguarda, appunto, alcune regioni (in particolare Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) mentre non tocca l’Italia centrale e meridionale, quelle regioni, cioè, meno collegate alla Germania.
Anche quando vi è stata crescita essa ha prodotto disuguaglianze tra persone e territori. Una crescita che risulta in qualche misura recessiva anche quando determina un aumento dell’occupazione; ma si tratta, come ha dovuto riconoscere la stessa Banca Centrale Europea, di un’ occupazione sempre più precaria e che non inverte, anzi approfondisce, la tendenza alla polarizzazione dei redditi.
Si è affermato un modello, in sostanza, fortemente orientato sulle esportazioni, con una forte dipendenza dalle multinazionali, sulla compressione della domanda interna e dei consumi, sul restringimento del perimetro del welfare pubblico, sulla riduzione della spesa pubblica anche per investimenti. Di tutto ciò il Mezzogiorno ha pagato il prezzo più alto.
Oggi questi nodi vengono al pettine. Perché quel modello di crescita risulta eterodiretto, dipendente da altri. Una grande area economica e monetaria non può contare solo sulla domanda estera. Infatti oggi si devono fare i conti con le minacce politiche protezionistiche degli Stati Uniti, con guerre commerciali, con crisi monetarie regionali. E si devono fare i conti anche con quanto sta avvenendo in Cina. La quale registra contemporaneamente una straordinaria sovrapproduzione ed un innalzamento della qualità’ dei prodotti e non a caso la guerra dei dazi con gli Stati Uniti si scatena anche su questo disequilibrio. Lì c’è uno spostamento della struttura produttiva verso prodotti ad alto valore aggiunto con il rischio evidente di ridurre le opportunità per le esportazioni provenienti dall’area manifatturiera a egemonia tedesca. E ciò porta ad una considerazione: per l’Europa continuare a puntare prevalentemente sulle esportazioni, rinunciando allo stimolo della domanda interna significa, con ogni probabilità, proseguire sulla strada di una crescita stentata e incerta. Proprio le nuove incertezze e difficoltà dell’economia europea, il persistente ed elevato tasso di disoccupazione e di sottoccupazione, l’approfondirsi delle disuguaglianze, non sono estranei a quel generale slittamento a destra della politica europea e ai colpi subiti da quelle forze politiche che hanno fino ad oggi condotto il processo di costruzione europea: da un lato le forze progressiste o di centro-sinistra, dall’altra formazioni di centro-destra, come CDU – CSU, che proprio in Germania hanno sistematicamente perso consensi nelle recenti elezioni in importanti lander. Contemporaneamente le recenti elezioni in Finlandia, Slovacchia ed in Spagna ed in una certa misura anche le elezioni amministrative inglesi, nonostante i gravi problemi posti dalla vicenda Brexit, indicano la possibilità di altri percorsi e di altre risposte politiche.
Anche per queste ragioni diciamo che c’è bisogno di una svolta che affermi la necessità di costruire un modello sociale ed economico fondato sulla giustizia sociale, la democrazia, il lavoro, l’inclusione, la solidarietà. Questa è la battaglia da fare e che noi unitariamente intendiamo fare perché è l’unico modo per impedire che crescano divisioni, xenofobia, rifiuto del diverso, perché su di loro si scaricano le paure, le insicurezze, l’incertezza del futuro. E tutto ciò, lo ripetiamo non si può fare con le piccole patrie che riscoprono identità chiuse ma con un’Europa sociale, capace di cambiare e rinnovarsi.
Questa esigenza di cambiamento proprio per dare un futuro all’Europa emerge anche da alcune altre considerazioni. Ad esempio: molti si chiedono se esistono tratti comuni nel modo di essere e nella cultura dell’Europa, sui quali costruire il percorso di unità europea. Se guardiamo alla storia più recente non è difficile constatare che sono stati quelli in cui la politica ha avuto un peso particolare e ha cercato di dare un indirizzo all’economia stessa. La politica ha avuto un ruolo importante ed è diventata cultura diffusa. Le costituzioni di diversi paesi europei hanno questo segno. Di questa storia è figlio anche il movimento operaio e sindacale, che in tutte le sue componenti, è diventato a Nord come a Sud, e in rapporto con questo ruolo assunto dalla politica, un soggetto politico a pieno titolo. Non quindi semplicemente un ruolo di negoziatore della forza-lavoro, non solo un soggetto rivendicativo (come in altre tradizioni sindacali) ma protagonista della moderna democrazia, portatore di valori e di eticità. Attraverso conflitti, spesso assai acuti, è stato tra i protagonisti di un compromesso sociale e istituzionale che ha dato vita al welfare, che non è solo un modello economico, ma rappresenta anche un sistema di valori e di culture: solidarismo, egualitarismo, rifiuto di ridurre tutto alla meritocrazia e di appiattirsi sul mercato. Questi elementi costituiscono davvero il tratto comune ai paesi europei. Oggi, però, questo è il punto, tutto ciò è in forte declino. Per ciò che riguarda il welfare, e le sue implicazioni culturali, si approfondiscono le disuguaglianze tra i diversi paesi. Lo stesso carattere sociale di diverse Costituzioni degli stati membri, sono messe in discussione. Per questo diciamo, proprio in relazione all’esperienza storica dei paesi europei, che l’unificazione europea non può essere condotta solo attraverso i valori del mercato che stanno facendo irruzione in tutti gli aspetti della vita. Si deve sapere che così facendo si rischia di mettere in discussione e di compromettere quel tratto comune, quella cultura comune a tutti gli stati membri e che ha coinciso con il più intenso sviluppo economico e civile.
E anche questa è parte della nostra battaglia per una nuova Europa. I sistemi di welfare non vanno ridimensionati ma vanno estesi e innovati a fronte delle domande inedite che sono squadernate davanti a noi: a fronte di una intensa e pervasiva innovazione tecnologica c’è bisogno di un sistema di formazione permanente che consenta di accrescere le competenze dei lavoratori durante tutto l’arco della vita; a fronte di una popolazione che invecchia c’è bisogno di strumenti per l’invecchiamento attivo che dia qualità alla vita delle persone anziane; di fronte alle migrazioni c’è bisogno di politiche inclusive e di solidarietà che riconoscano nell’altro una occasione di relazione e di arricchimento per tutti e non una minaccia; non è il migrante che toglie il lavoro ma sono le politiche messe in campo negli ultimi venti anni che lo hanno reso precario, insicuro, instabile; di fronte ai nuovi fattori epidemiologici dove prevalgono, in tutti i paesi europei, le patologie croniche o patologie prodotte dalle forme e dai contenuti di uno sviluppo assai spesso distorto (dall’inquinamento ambientale, dalla cattiva alimentazione, dall’organizzazione del lavoro e della vita quotidiana) non si può rispondere rivedendo il carattere universalistico dei sistemi sanitari introducendo magari forme assicurative. Dove questo è stato sperimentato è cresciuta la spesa sanitaria nelle sue forme più inappropriate e sono cresciute le disuguaglianze nell’accesso alle prestazioni. No, non è questa la strada: c’è bisogno invece di ampliare il sistema universalistico e c’è bisogno di più prevenzione, di più servizi sul territorio.
E questa è una battaglia per l’Europa; una battaglia tesa a non tornare indietro su ciò che ha rappresentato la sua grande peculiarità. Questa peculiarità non solo vogliamo conservarla ma innovarla ed estenderla.
Ed è anche per questa ragione che bisogna porre fine alle diverse forme di dumping fiscale tra i diversi paesi. Si è consentito a grandi imprese multinazionali di sfuggire o di ridurre il loro impegno fiscale e ciò ha contribuito a ridurre le risorse destinate ai sistemi di welfare proprio quando su di esso premevano nuove domande e nuove aspettative. Una ulteriore forma di disuguaglianza che intendiamo contrastare. Così come risulta decisivo rafforzare e sostenere il diritto alla contrattazione collettiva che per noi significa la difesa e la valorizzazione ergaomnes dei Contratti Nazionali e l’estensione del secondo livello di contrattazione. In questo contesto l’appello per un Europa del lavoro realizzato con Confindustria in cui si indica congiuntamente la contrattazione tra le priorità assume un valore generale.
C’è un’altra questione assai rilevante alla quale però si presta scarsa attenzione ed è marginale nella discussione pubblica. Vale la pena ricordare, infatti, come ha dimostrato un lavoro approfondito dello studioso Pietro Greco, che nel 2000 a Lisbona si stabilì, tra le altre cose, che entro il 2010 si sarebbe dovuto raggiungere in Europa il 3% nell’investimento in rapporto al PIL nella ricerca e nella cultura. Ciò avrebbe consentito all’Europa di entrare a pieno titolo nella cosiddetta società della conoscenza. Grandi investimenti su scala europea, quindi, nelle nuove tecnologie della comunicazione, nelle infrastrutture immateriali, nei sistemi formativi e universitari, nella ricerca di base.
A dieci anni di distanza dalla carta di Lisbona è bene trarre un bilancio. Un bilancio utile per capire cosa è avvenuto e utile per capire cosa cambiare e verso dove cambiare.
Il 2010, quindi, avrebbe dovuto essere l’anno del primato europeo nella società della conoscenza. In realtà le cose sono andate diversamente. Il 3% è un numero che ha dominato il dibattito di questi ultimi venti anni. A Maastricht è diventata la soglia insuperabile del deficit in rapporto al PIL. Con il piano Delors, invece quello era l’obiettivo da raggiungere nell’investimento in ricerca, appunto entro il 2010. Il 3% del debito è stato seguito con determinazione, a volte spietata come nel caso greco, e ha prodotto disunione tra i paesi e profonde lacerazioni sociali. Invece per ciò che riguarda l’obiettivo del 3% di investimenti nella conoscenza non solo non è stato raggiunto l’obiettivo ma si è addirittura andati indietro. Per la prima volta l’intensità di investimento in ricerca in Europa si colloca al di sotto della media mondiale che si attesta attorno al 1,9%. E’ importante rilevare che questo dato coincide con l’intensità di investimento dell’Asia. Questo vuol dire che la vera novitàdi questi anni è stato l’incredibile sviluppo della ricerca in Asia che per la prima volta supera l’Europa. Anche qui, proviamo ad andare più a fondo. Questo dato non è del tutto omogeneo. Vi sono paesi come la Germania che hanno investito e investono in ricerca e cultura, mentre si riscontra un arretramento molto consistente nei paesi dell’area mediterranea. Ma questo elemento è una ulteriore prova che in questi anni non vi è stato un Governo unitario, politico, dei processi e dei fattori economico sociali. Non è possibile, infatti, raggiungere l’obiettivo stabilito a Lisbona facendo affidamento su 27 politiche nazionali diverse. E infatti: solo il 5% della spesa complessiva in conoscenza e cultura è gestito direttamente da Bruxelles, il resto è affidato ai singoli Governi europei. Questo vuol dire che il 95% delle decisioni di spesa in ricerca vengono prese da singoli paesi, spesso senza alcun coordinamento tra loro. Questo arretramento è stato particolarmente consistente nel nostro paese, dove, in particolare gli ultimi venti anni, sono stati disastrosi per la ricerca, la cultura, l’innovazione. Per diverse ragioni. Ce ne sono due in particolare e sono quelle che hanno avuto l’impatto maggiore. In primo luogo la costante riduzione dei finanziamenti che ha colpito il complesso delle attività culturali e di ricerca: dall’università agli enti di ricerca, dai beni culturali allo spettacolo. E, contestualmente, vi è stato un enorme proliferare di leggi e norme. Tanto per fare un esempio: ogni legislatura ha tentato una nuova riforma dell’università degli enti di ricerca e della scuola. Il tratto comune di queste norme è quello di non aver affrontato nessuno dei problemi strutturali del sistema formativo: le disuguaglianze nell’accesso, una riforma seria dei cicli, la formazione permanente, solo per citarne alcuni.
In secondo luogo, alla debolezza della politica nel campo della ricerca, dell’innovazione, si è aggiunto il ripiegamento del capitalismo italiano. Questo ripiegamento ha avuto due caratteristiche: da un lato la crisi della grandi aziende e la dismissione dei grandi laboratori di ricerca delle aziende pubbliche. Questi grandi laboratori hanno rappresentato per decenni un potente strumento di trasferimento tecnologico tra scienza e impresa. Da quando sono stati smantellati si è fatto solo un gran parlare di trasferimento tecnologico e di società della conoscenza, senza però realizzarli davvero. D’altro lato vi è stata una corsa del capitalismo italiano verso la rendita immobiliare e verso i monopoli pubblici. Non ha fatto grande scalpore all’epoca (stiamo parlando della metà degli anni ‘90) un fatto emblematico: la Pirelli vende i brevetti sulla fibra ottica e al contempo crea uno dei primi fondi immobiliari in Italia. Una fuga dall’innovazione e un rifugio nella rendita immobiliare. Inoltre alcuni grandi gruppi si sono rifugiati in monopoli pubblici. Benetton nelle autostrade, Romiti negli aeroporti, Caltagirone negli acquedotti. La bassa produttività italiana è stata determinata, in realtà, da questi processi. Pochi hanno messo in evidenza che mentre si faceva grande retorica sulla società della conoscenza, nella realtà vinceva la componente più vecchia dell’economia italiana: la rendita immobiliare. Nei primi anni 2000 i prestiti per acquisti di immobili hanno superato quelli per l’acquisto di macchinari industriali.
Abbiamo richiamato tutti questi elementi perché hanno avuto degli effetti sul lavoro. A Lisbona si affermò che la società della conoscenza avrebbe prodotto non solo più opportunità di lavoro, ma, soprattutto, lavoro di qualità. Abbiamo visto come in realtà l’Europa nel suo complesso abbia perso il primato negli investimenti su cultura e conoscenza in rapporto al PIL. Questo dato riguarda in particolare i paesi europei dell’area mediterranea, ma tocca anche paesi come la Francia e l’Inghilterra che hanno visto arretrare l’intensità degli investimenti nella ricerca. E anziché lavoro di qualità si sono diffuse molteplici forme di lavoro precario. Fenomeno, questo, che ha toccato anche paesi come la Germania dove, accanto a una consistente spesa nella ricerca e nell’innovazione, vi è un’ampia area di lavoro povero nel campo dei servizi, proprio per contenere la domanda interna e sostenere le esportazioni. E questa diffusione di lavori atipici e precari ha riguardato e riguarda lo stesso mondo della cultura e della conoscenza. Emblematica, da questo punto di vista, la condizione del nostro paese. Nel confronto internazionale l’Italia si distingue per la bassa percentuale di laureati: circa la metà della media europea. Così come si distingue per la scarsa offerta scolastica da 0-6 anni e per l’intensità dell’arretramento delle nascite. Tutti temi in realtà connessi al non investimento in cultura e servizi per l’istruzione Tutti, a partire dal sistema produttivo, dovrebbero sentire ciò come un problema prioritario. Invece abbiamo la condizione nella quale solo la metà dei laureati trova lavoro nel primo anno dopo la laurea specialistica. E ancora: più della metà degli addetti alla ricerca nelle imprese sono concentrati in tre regioni: Lombardia (28%), Emilia Romagna (14%), Veneto (9%). Le risorse destinate all’università costantemente ridotte, si sono concentrate in queste tre regioni. Riduzione da un lato concentrazione dell’altro. Si è fatta la scelta di premiare pochi centri ritenuti di eccellenza. Scelta sbagliata, perché il problema non è quello di concentrare prevalentemente sulle poche eccellenze ma è quello di elevare la qualità dell’intero sistema formativo e universitario, a partire dal Mezzogiorno dove le università e i centri di ricerca possono svolgere un ruolo fondamentale nelle politiche di sviluppo di quelle regioni. E ancora: questo paese ha un potenziale straordinario: si contano in Italia ben 54 siti UNESCO; un potenziale non solo per l’economia ma per la tenuta sociale e civile del paese. Eppure, dietro questo potenziale, c’è una realtà fatta di lavori precari, di imprese che operano solo sulla riduzione del costo del lavoro e delle ore di lavoro pur di aggiudicarsi appalti o concessioni, di costante disimpegno sul piano delle risorse.
Ci sarebbe bisogno di politiche pubbliche adeguate, che richiedono l’abbandono di visioni parziali, di corporativismi istituzionali. Occorrerebbe un piano nazionale della cultura, della ricerca, dell’innovazione. Da decenni questo paese ne è privo. Non sono mancati convegni e documenti ma che non hanno mai avuto una conseguenza e un seguito operativi. Un piano nazionale comporta la definizione di obiettivi e strumenti. E proprio nel campo della cultura e dell’innovazione non si può agire soltanto dal lato dell’offerta, insistendo con la politica degli incentivi a pioggia o lasciando libero spazio alle sponsorizzazioni. C’è bisogno di attivare una domanda pubblica della quale la cultura e la ricerca possono esserne una componente fondamentale. Quando si parla di politiche pubbliche, di domanda pubblica, non ci si riferisce solo alle risorse, ma significa anche creare un nuovo sistema di convenienza entro il quale orientare investimenti e opportunità. Una classe dirigente consapevole investirebbe molto in questo ambito. Perché qui c’è tanto lavoro potenziale, in particolare per le giovani generazioni. Ma non solo: cultura e sapere, cultura e conoscenza, sono importanti non solo per una crescita economica e un lavoro di qualità. Sono fondamentali anche per ricostruire una capacità e uno spirito critico in una società che ha oramai banalizzato i messaggi, prodotto passività, ridotto la capacità di interpretare la realtà che ci circonda; ed è qui che lievita il timore verso il futuro, la rivalsa verso i più deboli. Ecco, la centralità della cultura può offrire occasioni di lavoro ma è decisiva per dare nuovamente gli strumenti per capire il mondo dove operiamo e ricostruire così un nuovo impegno civile. E questa battaglia non può fare a meno di quanto le donne, il movimento delle donne, hanno posto nel corso di questi anni, sia nell’elaborazione cculturale, che nella pratica politica e sindacale: cioè il riconoscimento pieno della cultura della differenza. Non possiamo dimenticare infatti che il contrasto alla diseguaglianza passa per l’affermazione proprio della cultura della differenza: e questa assunzione riguarda sia i comportamenti sia le pratiche e le azioni concrete. Noi, unitariamente, stiamo cercando proprio con il contributo delle donne di misurarci con questa grande questione. Tant’è che dal riconoscimento della rappresentanza di genere abbiamo costruito nel vivo delle assemblee, in particolare lo scorso 8 marzo, proprio il percorso di una contrattazione di genere, individuando cioè questioni e temi che dovranno essere presenti e vivere in tutte le piattaforme per i rinnovi contrattuali nazionali e nella contrattazione aziendale.
Tutto ciò non può che avere un respiro europeo. Ed è proprio per questa consapevolezza che ci battiamo per un’Europa dei diritti sociali, dei diritti politici, capace di costruire una nuova cittadinanza sociale in una società civile europea. Per questo c’è bisogno di un autentico Governo dell’economia europea, non solo di quella monetaria, e che abbia una sua capacità progettuale e programmatica. Va recuperata questa nuova capacità programmatica perché una delle eredità peggiori lasciate dalle politiche perseguite in questi anni sta proprio nel deterioramento di questa capacità, nella depoliticizzazione e nell’arretramento del perimetro pubblico. Un nuovo governo dell’economia europea, quindi, che sia in grado di assumere e rispondere agli interrogativi fondamentali che l’Europa si trova oggi sul tappeto: quali politiche si ritengono adeguate per rilanciare l’economia e lo sviluppo? E di quali beni c’è davvero bisogno per orientare lo sviluppo? Quali scelte possono contribuire ed alzare la qualità del lavoro e, al tempo stesso, migliorare la stessa qualità della vita? Come spostare l’attenzione prevalente dalla finanza, all’espansione dell’economia sociale, alla produzione, alla piena e buona occupazione ?
Torna imprescindibilmente la questione degli investimenti e, con tale questione, quella di un diverso modello di sviluppo. E non a caso parliamo di un nuovo modello di sviluppo. Quello che si è affermato, infatti, negli ultimi anni ha prodotto squilibri, diseguaglianze mai conosciute nel passato, divisioni tra persone e territori. Per di più, anche nelle fasi di relativa crescita, si sono diffuse forme di lavoro atipiche e precarie. Inoltre, la stessa crescita appare oggi stentata a tal punto che qualcuno parla di “stagnazione secolare” che minaccia soprattutto l’Europa. Si è in sostanza rotto quel nesso lineare tra crescita e lavoro, tra crescita e diffusione del benessere. Per questo lo sviluppo va ripensato. Ed è concretamente possibile farlo. Ci sono bisogni e domande sociali inevase verso cui, con una intelligente politica pubblica, una intelligente domanda pubblica, orientare lo sviluppo, la ricerca, l’innovazione: prevenzione e tutela del territorio, ambiente, cultura, salute, nuove politiche industriali orientate alla sostenibilità ambientale, risparmio energetico e energie rinnovabili, risanamento delle aree urbane, agricoltura di qualità. L’enorme gap tecnologico accumulato in questi campi si presta ad essere colmato con interventi di qualità che sono anche gli unici capaci di innalzare l’efficacia di grandi servizi pubblici. Si possono fare diversi esempi per mettere in evidenza le potenzialità che queste nuove domande e come su di esse può essere orientata la ricerca e l’innovazione:
1) se si assume seriamente la grande questione del progressivo invecchiamento della popolazione e della stessa non autosufficienza, c’è concretamente la possibilità di utilizzare la stessa tecnologia digitale per dare autonomia alle persone nella stessa propria abitazione. Si risponde così ad una domanda largamente inevasa e si danno possibilità concrete per nuove politiche industriali;
2) se si assume come una priorità il tema della messa in sicurezza del territorio diviene più chiaro che ciò non comporta soltanto sanare le ferite aperte appunto sul territorio ma vuole dire una costante opera di prevenzione, monitoraggio, messa in sicurezza, che si svolge con tecnologie e materiali altamente sofisticati. Anche in questo si risponde a una domanda inevasa e si fornisce la possibilità concreta di politiche industriali innovative;
3) questi ragionamenti possono valere anche per settori che, erroneamente, spesso vengono definiti maturi: come, ad esempio, quello dell’auto. In realtà oggi con l’aggravarsi delle diverse forme di inquinamento e le conseguenti, più vincolanti normative europee; con il congestionamento delle aree urbane, si impongono non solo investimenti per abbattere l’inquinamento ma anche per rendere praticabili nuove forme di mobilità pubblica e privata che possono rivoluzionare il tradizionale approccio all’uso dell’auto in proprietà. Alcuni Paesi asiatici stanno investendo ingenti risorse nella ricerca in questi campi e sono in stato assai avanzato. E stanno investendo singoli Paesi europei. Ma per la portata dei problemi e la portata delle risorse in campo sarebbe necessaria una politica di ricerca e sviluppo e una politica industriale, europee. Su questo punto è molto interessante ciò che rileva Romano Prodi in un’articolo apparso ieri sul Messaggero. Nel sottolineare l’importanza strategica e fondamentale del settore dell‘automobile, anche in presenza della nuova rivoluzione industriale, il professore segnala come il nostro paese continui a perde re peso e ruolo a favore dei produttori francesi e tedeschi. I quali stanno investendo in funzione dell‘innovazione(batteria ed auto elettrica) anche costituendo consorzi tra grandi gruppi e con presenza pubblica e nei prossimi giorni la commissione europea si appresta a dire che ciò non costituisce aiuto di stato. Allo stesso tempo l’articolo rileva che la vendita di Magneti Marelli (componentistica) anziché favorire risorse per gli investimenti serve per distribuire utili (due miliardi) agli azionisti di FCA.Il nostro paese continua così ad isolarsi e non avendo nessuna politica industriale anche un settore finora trainante e avanzato come quello della componentistica rischia di pagare un alto prezzo.Questo governo che parla di crescita ed occupazione sui giornali non si cura affatto di preparare gli strumenti con i quali la crescita e l’occupazione possono essere messe in atto.E contemporaneamente continua a ridursi la presenza nel nostro paese dei grandi gruppi industriali.
4) c’è il campo delle reti digitali e dell’intelligenza artificiale dove, come è noto, alcune grandi corporation stanno entrando nelle molteplici dimensioni del nostro modo di essere e di vivere; stanno inglobando enormi quantità di dati in grado di indirizzare le nostre scelte, i nostri costumi, i nostri stili di vita, fino a controllare e indirizzare i nostri orientamenti culturali e politici. Cosa intende fare l’Europa? Essere semplicemente un grande mercato per quelle grandi multinazionali oppure dotarsi, come noi crediamo, di una politica europea delle reti capace non solo di competere con quei giganti ma anche spezzare quei monopoli; una politica europea capace di porre una grande questione di controllo democratico sull’accesso e sull’uso di quella grande mole di dati? Ecco cosa può voler dire un nuovo governo europeo dell’economia e dello sviluppo.
5) La stessa cultura è ricca di potenzialità spesso inespresse. Non c’è stata una politica culturale europea. E questo non solo nel campo dell’industria culturale, del cinema, dell’audiovisivo. Eppure qui ci sarebbe molto da investire e da scoprire. C’è tutto il campo della catalogazione dei beni artistici e culturali, dei musei, delle città, del territorio. Oggi ci sono una quantità enorme di reperti che giacciono ammassati nei depositi o, come in Italia, negli scantinati dei comuni. Se venissero catalogati consentirebbero di organizzare mostre itineranti nei diversi paesi. Inoltre, si potrebbe promuovere una produzione filmica, sul patrimonio culturale diffuso e farlo conoscere più di quanto lo sia oggi. E c’è tutto il campo della digitalizzazione dei beni documentari e librari considerato lo straordinario patrimonio archivistico e bibliotecario presente nei diversi paesi.
Questo è il modello di sviluppo su cui intendiamo batterci e di cui l’Europa può diventare protagonista. Appunto, l’Europa che vogliamo. Un nuovo modello di sviluppo che non si basa esclusivamente sulle esportazioni ma costruisce una domanda capace di assumere e rispondere a nuovi bisogni e, al tempo stesso, è in grado di modificare anche l’offerta. Un modello di sviluppo che assume l’obiettivo della piena e buona occupazione tanto più quando il sistema economico non crea spontaneamente lavoro ma ha bisogno di scelte, di indirizzo, di programmazione, di investimenti. Un progetto che costruisce una interconnessione tra innovazione tecnologica e innovazione sociale dal momento che, come ci ricordava un intellettuale come Claudio Napoleoni, “l’innovazione tecnologica non riguarda solo l’impresa e il mercato ma è un percorso che modifica complessivamente la società ed il rapporto tra produzione, servizi, consumi”. Per questo l’innovazione va collettivamente e socialmente orientata. Per questo l’Europa per storia, per la sua importanza geopolitica (una popolazione di 500 milioni di persone), per il modello sociale che l’ha contraddistinta, può essere il soggetto in grado di avviare una fase nuova.
È del tutto evidente che lo sviluppo di cui parliamo mette al centro il lavoro, la persona. E questo perché la questione del lavoro non è una questione tra le tante ma è la grande questione oggi sul tappeto. Non siamo di fronte alla fine del lavoro come qualcuno ha detto e ha scritto. Ciò che è accaduto è altro: da un lato si è voluto svalorizzare il lavoro credendo di essere per questa via più competitivi, dall’altro lato gran parte della politica non ha sentito più come propria la centralità della questione lavoro.
È invece da questa centralità che bisogna ripartire. E bisogna ricostruire una cultura del lavoro. Perché esso è e resterà una dimensione fondamentale nella vita delle persone; è il modo per essere cittadini e persone libere. Per questo il lavoro non può essere considerato una merce qualunque che si usa quando c’è e si getta via quando non serve più. Per troppe persone oggi il lavoro non è tale da garantire un’esistenza dignitosa. Anche per questa ragione ci battiamo per uno sviluppo diverso dall’attuale. Perché non basta offrire, in particolare alle giovani generazioni, un lavoro purchessia.
Occorre un lavoro decente capace di valorizzare le capacità, le competenze di ognuno e in grado di offrire condizioni di vita dignitose.
Siamo nel pieno quindi di una grande sfida : quella di ricostruire il senso e il valore del lavoro nella sua dimensione individuale e collettiva perché il lavoro è per noi diritto, costruzione politica e sociale, fondamento di cittadinanza e di libertà.
A maggior ragione quando siamo nel pieno di una nuova rivoluzione tecnologica: quella dell’intelligenza artificiale, della cosiddetta società della conoscenza. Le cui potenzialità sono grandi ma si scontrano con poteri economici, scelte politiche, modelli culturali che premono per affermare la conoscenza quale bene privato piuttosto che pubblico. Bisogna allora impedire – proprio a nome dell’equità e della sostenibilità sociale – che l’espropriazione della conoscenza attraverso il mercato, concepito come unico regolatore, produca e legittimi il consolidarsi di società sempre più divaricata tra una élite di alta professionalità e una grande area di lavoratori generici, precari, esclusi dal sapere e dalla conoscenza. Questo chiama in causa la nostra iniziativa, la nostra capacità di contrattazione che faccia valere i diritti per la tutela del lavoratore e per la sua dignità e affermi un nuovo campo di diritti, come il diritto alla formazione permanente, alla socializzazione delle conoscenze, al governo del tempo, all’informazione preventiva sulle trasformazioni dell’impresa. Ma una battaglia di tale rilievo e contenuto ha bisogno di un più sindacato internazionale ed europeo. Non nascondiamocelo: questa è stata una delle grandi debolezze che abbiamo scontato. Ognuno troppo spesso ha preteso di procedere per proprio conto sperando magari di portare a casa qualcosa in più dell’altro. E questo ha reso difficile combattere efficacemente le diverse forme di dumping sociale o le stesse delocalizzazioni. C’è bisogno invece di politiche europee, politiche di investimento europeo, politiche di gestione del debito pubblico europeo, politiche in grado di sostenere la domanda, gli stimoli, i consumi. Altrimenti c’è il rischio che tra gli effetti peggiori di una globalizzazione senza regole non si riesca a rispondere proprio a livello globale. Il congresso della CES che si svolge dal 21 al 25 maggio a Vienna è un’occasione da sfruttare per superare ritardi e lentezze. Un forte sindacato europeo è la condizione per affermare una vera Europa del lavoro. Tre obiettivi assumono grande valore:
1. Un aumento reale dei salari e un’armonizzazione dei diritti;
2. Una forte e comune azione di contrasto alla precarietà;
3. L’affermazione di un sistema di relazioni sindacali e industriali fondato sulla contrattazione collettiva.
Siamo coscienti che quello che abbiamo provato a delineare è un impegno e un percorso difficile. Battersi per un Europa che si affermi come soggetto politico protagonista di un nuovo orientamento su temi che assumono sempre più carattere globale, quali la pace, il multilateralismo, un welfare sempre più su scala globale, le politiche di accoglienza, avrebbe bisogno di una classe dirigente all’altezza di temi di questa portata; una classe dirigente, da noi, capace di essere portatrice di un’idea di paese in Europa riformata. Una classe dirigente qui in Italia, di dare un contributo di merito, di contenuti, di scelta, per un’Europa democratica e sociale. Ma per fare ciò bisognerebbe guardare non a Orban che costruisce muri, che concepisce la democrazia come un fastidioso orpello che mentre costruisce divisioni attua nel proprio paese politiche illiberali e contro i lavoratori. Bisognerebbe invece costruire una paziente rete di relazioni con paesi, forse sociali, culturali, associazioni che metta al centro una iniziativa diffusa per un nuovo modello sociale ed economico fondato sulla giustizia sociale, il lavoro, i diritti, l’accoglienza e l’inclusione. E servirebbero politiche capaci di anticipare, di stare nel solco dei cambiamenti di cui ha bisogno l’Europa. Di fronte a una crescita stentata ci sarebbe bisogno di un piano di investimenti pubblici e privati. Ma né il DEF appena presentato, né il Decreto sulla crescita, né “lo sblocca cantieri”vanno in questa direzione, nonostante i recenti dati siano alquanto preoccupanti. Solo nel gennaio di quest’anno i documenti ufficiali dell’attuale Governo prevedevano nel 2019 dell’1% del PIL. Ora, nel DEF si dice che quel livello non verrà raggiunto neppure nel 2020, quando si prevede un modesto 0,8%, che resterà tale fino al 2022. Mentre per l’anno in corso ci si dovrà accontentare dello 0,2%. Le ragioni di ciò non sono difficili da considerare. Il peggioramento della congiuntura internazionale acuisce i problemi di una struttura produttiva che da tempo presenta evidenti criticità. Proprio per i mancati investimenti e la sua scarsa capacità di innovazione. Ma i provvedimenti fin qui adottati neanche sfiorano questi problemi strutturali. Anzi, si spacciano come misure per la crescita il solito sistema di incentivi a pioggia e la liberalizzazione del subappalto oltre che le procedure di gare al massimo ribasso. E insieme agli investimenti ci sarebbe bisogno di ridare il carattere di progressività al nostro sistema fiscale riducendo il prelievo sul lavoro e pensionati e andando a reperire le risorse dove davvero ci sono. Mentre si parla di tassa piatta non si dice che nel nostro paese, accanto ad un alto debito pubblico, c’è una ricchezza patrimoniale privata 4 volte e mezza superiore al debito pubblico. E quasi la metà di quella enorme ricchezza patrimoniale privata è nelle mani del 10% delle famiglie più ricche. Non a caso l’Italia è uno dei paesi europei dove maggiormente sono cresciute le diseguaglianze. Come si vede vi sarebbero tutte le condizioni per costruire un sistema fiscale più equo e per reperire risorse per finanziare un credibile piano di investimenti.
Noi, unitariamente e con la nostra autonomia, quando siamo stati chiamati al confronto non ci siamo sottratti. Ma ad oggi non ci sono impegni, né le nostre proposte sono state considerate. Basta guardare cosa sta accadendo nel settore del lavoro pubblico.Veniamo da anni di blocco della contrattazione Nazionale e decentrata, di blocco del turnover e di nuove assunzioni. Ciò è stato fatto con l‘idea di contenere i costi e risparmiare risorse. Una scelta che si è rivelata sbagliata e poco lungimirante. C’è’ qualcuno infatti, che ha mai pensato di calcolare quanto davvero è costato, in termini di crescita e sviluppo, non aver immesso nella pubblica amministrazione giovani ragazzi e ragazze che avrebbero potuto dare nuovo impulso alla capacità di programmazione, di indirizzo, in tutta la struttura pubblica? C’è qualcuno che abbia onestamente calcolato quanto perdiamo nella capacità di utilizzare le risorse dei diversi programmi comunitari proprio per avere in questi anni penalizzato il lavoro pubblico? C’è chi ha mai calcolato quanto perdiamo nella competizione di qualità anche perché tanti giovani non riescono ad accede alla ricerca sia nelle università che negli enti della ricerca pubblica e sono costretti, essendo anche bravi ad andare in altri paesi europei e non solo proprio per svolgere attività, di ricerca ? Un anno e mezzo fa con un’importante accordo realizzato dai sindacati confederali con la presidenza del consiglio si era ripreso un percorso che dopo tanti anni, teneva insieme un processo di riforma della pubblica amministrazione proprio attraverso il rinnovo di tutti i contratti nazionali, la ripresa della contrattazione decentrata, la valorizzazione del lavoro pubblico e della efficacia dei servizi pubblici’ il riequilibrio del rapporto tra legge e contratti la stabilità dell’occupazione. Tutto ciò oggi potrebbe subire un arretramento perché le proposte avanzate dalla ministra Bongiorno di riforma della pubblica amministrazione riportano a logiche settoriali e non di sistema ed introducono pratiche punitive e gerarchiche nei confronti dei lavoratori e lavoratrici pubbliche. Gli importanti impegni assunti dal governo con le organizzazioni sindacali della conoscenza in relazione alle condizioni attuali della scuola università e ricerca (che ha portato alla momentanea sospensione dello sciopero) devono tradursi nei prossimi giorni in provvedimenti e strumenti precisi. Tali impegni vanno estesi a tutto il settore della pubblica amministrazione ricomponendo una visione complessiva e nazionale ed un corretto rapporto con le organizzazioni sindacali confederali.Ci sono infatti diritti quali l’istruzione, la formazione, la sanità, il lavoro, il ruolo e la funzione dei contratti collettivi ,che sono e devono rimanere universali. Per ora siamo al paradosso che mentre il governo parla di leggi sul salario minimo non sono ancora state stanziate le risorse necessarie per rinnovare tutti i contratti nazionali del settore pubblico. Sono anche queste le ragioni che portano alla manifestazione dell’8 giugno. E continueremo con le nostre iniziative, dell’ 11 maggio degli agroalimentaristi , del 1 giugno dei pensionati, del 14 giugno dei metalmeccanici, fino alla manifestazione nazionale del 22 giugno a Reggio Calabria per il Mezzogiorno. Noi, infatti, questo paese vogliamo unirlo e non approfondire le divisioni come accadrebbe con l’eventuale disegno di autonomia differenziata. Contrastare le divisioni e le diseguaglianze, unire il paese in un’Europa dei diritti e del lavoro. Questo è l’impegno che oggi prendiamo. E abbiamo chiamato il mondo della cultura perchèdel valore del lavoro bisogna tornare a parlare; perché è necessario che il mondo della cultura torni ad essere protagonista per una battaglia per i diritti. E perché riteniamo che la cultura sia l’antidoto migliore per contrastare quel senso di smarrimento, incertezza, quel senso di ansia e di timore verso il futuro che oggi pervade tanta parte dei paesi europei. Un paese senza memoria non ha futuro.
Costituzione – Art.9
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e storico della Nazione.
intervento del segretario generale della Cisl Basilicata, Enrico Gambardella
Il segretario generale della Cisl Basilicata, Enrico Gambardella, è intervenuto nel pomeriggio agli attivi unitari nazioni di Cgil Cisl Uil in corso a Matera. “Non poteva esserci scenario migliore di questo luogo, deve le suggestioni rupestri si fondono con la millenaria opera dell’uomo, per discutere di lavoro e cultura.. Qui, infatti, i maestri tagliatori di pietra estraevano i blocchi di tufo che hanno reso caratteristici e unici i Sassi di Matera. Questo luogo, la Cava del Sole, è la rappresentazione materica e simbolica del connubio tra la cultura, intesa antropologicamente come patrimonio di saperi, tecnologie e valori di una comunità, e il lavoro umano; tra il pensare e il fare”, ha detto Gambardella.