Coordinamento Regionale Acqua Pubblica di Basilicata, Coordinamento Regionale No Triv di Basilicata, Coordinamento Nazionale No Triv, Cobas Scuola Basilicata, Osservatorio Popolare Val d’Agri, Tito No Biomasse e Comitato No Triv Brindisi di Montagna: “Sicurezza alimentare con prodotti a marchio Eni?”. Di seguito la nota integrale inviata alla nostra redazione.
Una delle ricchezze reali della Basilicata – quelle che potrebbero farla vivere anche dopo la fine dell’era del petrolio – è la sua fama, conquistata nei secoli, di terra dove “si mangia bene”, dove i prodotti dei campi, degli orti, degli allevamenti, sono buoni e valorizzati dalle tante gustose ricette tipiche delle varie aree. Ma, purtroppo, ENI ha messo il suo zampino anche su questo: il 16 luglio la multinazionale del petrolio e Coldiretti Basilicata hanno firmato un memorandum d’intesa a livello locale –il primo in Italia– il cui fine è quello di supportare il marchio lanciato all’inizio del 2019 da Coldiretti e che si chiama “Io sono lucano”. Il finanziamento è di 8 milioni -di cui 1,5 di ENI- ed il supporto sarà attuato sostenendo la competitività dei prodotti rientranti nel marchio, promuovendo iniziative di commercializzazione e, dulcis in fundo, perseguendo l’obiettivo della sostenibilità ambientale con progetti di monitoraggio della qualità dei prodotti, Anche nelle aree di operatività dell’Eni, attraverso l’uso di strumenti digitali.
Se ne deduce che fra i prodotti commercializzati sotto il marchio “Io sono lucano” ce ne saranno anche alcuni a forte rischio di inquinamento, su cui non sono mai stati fatti adeguati controlli e che dovrebbero essere oggetto di indagini attente ed affidabili condotte da scienziati indipendenti e non certo da soggetti come ENI che, in quanto direttamente coinvolti nell’operazione commerciale e portatori di forti interessi economici, non forniscono alcuna garanzia di obiettività ed affidabilità. Parliamo dei prodotti provenienti, ad esempio, dai tanti comuni in cui falde e corsi d’acqua sono risultati contaminati da idrocarburi e sostanze tossiche tanto che i sindaci hanno dovuto vietarne l’uso, o dai siti in cui si sono verificate morie di animali probabilmente causate da inquinanti o, ancora, dalle aree interessate dal “disastro ambientale” –secondo la definizione data dalla magistratura nell’ambito del processo “Petrolgate”- provocato dallo sversamento di 400 tonnellate di greggio dai serbatoi del Centro Oli Val d’Agri scoperto all’inizio del 2017 ma che, secondo quanto finora acclarato dalle inchieste giudiziarie in corso, era iniziato già nel 2012 ed era stato tenuto nascosto dai dirigenti ENI nonostante ne fossero perfettamente a conoscenza.
Nel comunicato stampa del 23.4.2019 il Procuratore di Potenza Francesco Curcio ha affermato che “gli idrocarburi dispersi dal COVA si erano insinuati nella rete fognaria consortile ed il deflusso incontrava –e quindi contaminava- il reticolo idrografico della Val d’Agri non distante (circa 2 Km.) dall’invaso del Pertusillo che rappresenta la fonte primaria di approvvigionamento della gran parte di acqua destinata al consumo umano della regione Puglia oltre che la fonte da cui proviene l’acqua indispensabile per l’irrigazione di un’area di oltre 35.000 ettari di terreno”.
Ad oggi, a seguito delle indagini su questo disastro ambientale, tre dirigenti dell’ENI – Enrico Trovato, Ruggero Gheller ed Andrea Palma – sono agli arresti domiciliari e cinque membri del Comitato Tecnico Regionale Grandi Rischi sono stati sospesi per 8 mesi dall’esercizio delle loro funzioni per non aver vigilato sull’operato di ENI.
Intanto, l’esame e la perimetrazione precisa di questa sterminata quantità di terreni contaminati non sono stati ancora avviati né sono iniziate le indagini epidemiologiche per verificare gli effetti di questo incalcolabile disastro.
Ma tutto questo, per ENI, sembra non essere affatto un problema insormontabile: secondo la multinazionale, basterà l’uso di qualche strumento digitale per assicurare che anche con i prodotti provenienti da aree così contaminate si possano realizzare paste, latticini, minestre etc. assolutamente sicuri e perfettamente sostenibili sotto il profilo ambientale.
Ancora una volta la multinazionale del petrolio ripropone la sua solita comunicazione: “non c’è da preoccuparsi, perché le nostre potenti risorse scientifiche e tecnologiche sono in grado di superare qualsiasi ostacolo e di dare soluzione a qualsivoglia problema eventualmente causato dall’attività estrattiva”.
La stessa comunicazione, d’altro canto, è stata utilizzata anche nel progetto di realizzare accanto al COVA di Viggiano un impianto ultramoderno che dovrebbe essere in grado di trattare direttamente gli scarti di lavorazione dell’attività estrattiva i quali, lo precisiamo, sono caratterizzati da radioattività e dalla presenza di metalli pesanti e varie altre sostanze cancerogene. Dopo questo miracoloso trattamento -che, per inciso, permetterà all’azienda di risparmiare sul trasporto degli scarti verso Centri idonei a trattarli- l’acqua residua verrà sversata nei corsi d’acqua adiacenti –affluenti del Pertusillo- basandosi sul presupposto che essa sarà stata perfettamente “depurata” (anche dalla radioattività!) e resa innocua.
Ma quale fiducia possiamo avere nelle millantate capacità tecnologiche di un’azienda che ha provocato un immane disastro ambientale per non aver riparato dei banalissimi fori –peraltro segnalati dal lattoniere interpellato- in serbatoi di acciaio che non erano stati dotati neanche del doppio fondo prescritto dalle norme? Quale sarebbe l’affidabilità tecnologica di un’azienda simile e, soprattutto, quale l’affidabilità etica di dirigenti che, pur conoscendo perfettamente la situazione, hanno preferito anteporre il guadagno personale e della compagnia alla sicurezza di intere popolazioni?
Non è più probabile, invece, che i nuovi inquinanti sversati nel Pertusillo si sommino agli attuali con conseguenze davvero inimmaginabili?
E va detto che una lavorazione molto simile a quella di ENI è stata prevista anche da Total a Tempa Rossa, dove l’acqua “depurata” verrà sversata nel torrente Sauro che si collega alla diga di Monte Cotugno, l’invaso che fornisce acqua per uso potabile ed irriguo a Basilicata, Puglia e Calabria settentrionale.
Tutti annunci di disastri certi, di cui sembra che nessuno di coloro che dovrebbero tutelare la nostra incolumità si preoccupi, visto che la firma di questo memorandum è stata apposta nel silenzio più assordante di tutte le forze politiche locali, eccetto il Sen. Saverio De Bonis –espulso dal M5S per aver protestato contro la norma giallo-verde che consente di spandere fanghi agli idrocarburi sui terreni agricoli- il quale ha presentato, insieme al senatore Carlo Martelli, un’interrogazione parlamentare al Ministro per le politiche agricole, alimentari, forestali e del turismo Gian Marco Centinaio.
Speriamo che il Ministro corra in nostro soccorso ma, intanto, è assolutamente necessario evitare il rischio che domani, se qualcuno starà male per aver mangiato prodotti agli idrocarburi provenienti dalla Basilicata, la sfiducia e le ricadute negative colpiscano tutti gli agricoltori lucani e non solo chi si è lasciato abbagliare da quest’ennesimo miraggio di ricchezza.
Ed allora diamoci da fare per difendere da operazioni strumentali e deleterie come questa la nostra agricoltura di qualità e la possibilità di autodeterminare il nostro futuro.
Occorre distinguere la lucanità autentica da quella fasulla ed è ormai maturo il momento per contrapporre alle multinazionali “compradore” ed ai loro servi sciocchi il più vasto schieramento possibile di associazioni di produttori agricoli e zootecnici, singoli o in cooperative, tutti chiamati a firmare questo appello ed a costruire insieme un programma di intenti alternativo che nasca, finalmente, dal basso.