Basilio Gavazzeni, presidente della Fondazione Lucana Antiusura Monsignor Vincenzo Cavalla, ha inviato alla nostra redazione i testi diffusi in occasione della ripresa del Sinodo della Chiesa di Matera-Irsina.
All’interno di una cultura
È necessario prendere atto che ogni uomo vive all’interno di una cultura.
Rifacendosi al concetto di cultura dell’antropologia culturale, la Gaudium et spes la definisce come “l’intero corpus di credenze, comportamenti, conoscenze, sanzioni, valori e obiettivi che segnano il modo di vivere di un popolo”.
“Creature nuove”, grazie al Battesimo, appartenenti alla Chiesa inverata in quella locale, vegliati dal nostro Vescovo (episkopos), “pastore con l’odore delle pecore” , che ha il triplice munus dell’annuncio della Parola (kerigma- martyria), della celebrazione dei Sacramenti, (leiturgia) e del servizio della carità (diakonia), noi siamo impegnati in un cammino sinodale in cui è viva la presenza di Gesù Cristo che è il Vangelo al quale è chiamata la nostra sequela.
Abbiamo bisogno di essere da Lui rievangelizzati, per procedere con Lui a riannunciare il Vangelo agli uomini del nostro tempo, credenti e non credenti, che respirano la nostra medesima cultura.
La “nuova evangelizzazione” è un mandato missionario che esige una rinnovata relazione con gli uomini che incontriamo ai quali è destinata universalmente la salvezza divinizzante di Cristo (theosis la chiamavano i Padri greci) , secondo il disegno del Padre.
Il dialogo ad intra
Bisogna per questo recuperare il servizio del dialogo sia ad intra sia ad extra della comunità cristiana.
Nel dialogo ad intra ci si ascolta e ci si confronta, l’io riconosce il proprio sé e l’alterità del tu, si rinuncia agli arroccamenti personali e ci si apre agli orizzonti degli altri, si definiscono con maggiore precisione le sfide da affrontare, insieme si diventa fecondi e performativi, perché solo insieme si può osare che cosa fare, l’azione giusta, in una unità che, rifiutata l’uniformità, può concertare con efficacia le risorse della pluriformità .
Alla fine, dialogare è imitare Dio – Padre Figlio e Spirito Santo dialoganti nell’unità e nella distinzione – che ama intrattenersi in dialogo con l’uomo.
Il dialogo è preghiera
Il dialogo con Dio è immanente a ogni altro dialogo.
Qualcuno distingue fra dialogo dialettico e dialogo dialogante. Ovviamente gli aggettivi accentuano sfumature che non annullano la forza del sostantivo.
Il dialogo in funzione di verità e misericordia
“Avere la testa dura e il cuore tenero” fu il suggerimento di Jacques Maritain a Jean Cocteau.
Traduciamo la metafora per noi: nella evangelizzazione, niente testa dura e cuore insensibile e, nello stesso tempo, niente testa flebile e cuore tenero.
Anche nella nostra Chiesa c’è chi teme che una pastorale secondo compassione affievolisca la certezza delle verità fondamentali e dei princìpi morali, aprendo il varco al relativismo; e c’è chi teme che la rigidezza dottrinale e morale scoraggi i fedeli più deboli o “feriti”.
Papa Francesco, Vescovo di Roma, che presiede nella carità tutte le Chiese, ci insegna a uscire verso il mondo con “l’eloquenza dei gesti” di “verità e misericordia” (Discorso alla 68a Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, 18 maggio 2015).
Nessuno si illuda: sia la rigidezza dottrinale che disconosce la misericordia sia la mollezza pastorale che disconosce la verità contravvengono l’indicazione del Papa e rompono la comunione, l’unità e la pace all’interno della Chiesa e con la società alla quale dobbiamo riannunciare il Vangelo.
Il dialogo ad intra ne prenda atto con franchezza (parresia). Vi sono rotte e polarizzazioni pastorali da correggere? Videat Episcopus.
La secolarizzazione
Dentro la Chiesa, nella luce dello Spirito, i credenti hanno il dovere di esaminare la cultura che li riguarda, per tesaurizzarne gli aspetti positivi e, nel contempo, rifiutarne gli aspetti negativi, dissentendo quando si oppone a Dio, non rispetta la dignità dell’uomo o la calpesta , e hanno il dovere di impegnarsi a risanarla.
Da molti decenni, nel mondo occidentale, il cristiano è messo alla prova dalla cosiddetta secolarizzazione. Charles Taylor, il massimo studioso del fenomeno, la definisce con tre accezioni :
1. gli spazi pubblici sono stati svuotati di Dio o di qualsiasi riferimento alla realtà ultima;
2. la credenza e la pratica religiosa diminuiscono;
3. la fede anche per il credente più devoto è solo una possibilità fra le altre.
Nei giorni del Concilio Vaticano II, i Padri dovettero convenire che erano finite l’era costantiniana e la cristianità che legava organicamente cultura, politica istituzioni e Chiesa.
Forse alcuni tra noi non tengono ancora conto né della secolarizzazione né della fine della cristianità, mentre, addirittura, si parla di società post-cristiana.
Tuttavia il cristianesimo e, nel suo centro, la Chiesa cattolica sono tutt’altro che irrilevanti. Alle prevaricazioni di certa secolarizzazione, che grazie a Dio ha le sue incrinature, contrappongono con vigore e mitezza un’antropologia che non ignora la fragilità ontologica dell’uomo, ma, nel contempo, testimonia l’esperienza esaltante della compagnia con Cristo Risorto.
La cultura della secolarizzazione assembla filoni culturali di varia provenienza. Oggi, avvalendosi di tutti gli strumenti della comunicazione sociale potenziati dalle tecnologie della rivoluzione digitale, penetra in ogni ambito della vita privata, della società civile e delle istituzioni dello Stato
L’uomo secolarista, nonostante le apparenze moderne, è incline a una regressione culturale: tende a considerarsi la misura di tutte le cose, ad aderire alla loro materialità come fosse esauriente, ad appiattirsi nella “eternullità” (Jules Laforgue) del presente in balia della pura istintualità, nella logica del consumismo, del carpe diem e del “doman non c’è certezza”.
Quando poi la secolarizzazione diventa assoluta laicità – la denuncia è di Benedetto XVI – presenta “Dio come antagonista dell’uomo […]” e non lascia posto “per Dio, per un Mistero che trascenda la pura ragione, per una legge morale di valore assoluto vigente in ogni tempo e in ogni situazione”.
In realtà, nel contesto culturale della secolarizzazione, pochi negano Dio e gli sono ostili, ma molti vivono come non esistesse, con gravi contraccolpi sul piano etico.
La secolarizzazione offusca anche la cultura del nostro territorio. Anche qui si possono rilevare indifferentismo e relativismo.
Il dialogo ad extra
Nel discorso ai partecipanti alla Conferenza internazionale per la pace, svoltasi ad Al-Azhar (Cairo, Egitto) il 28 aprile 2017, Papa Francesco ha ricordato che un dialogo esige l’osservanza di tre regole fondamentali:
1) il dovere di rispettare la propria e l’altrui identità;
2) il coraggio di accettare le differenze;
3) la volontà di riconoscere la sincerità delle intenzioni altrui.
La vera apertura implica la fedeltà alle proprie convinzioni più profonde e la comprensione di quelle altrui, nella consapevolezza che il dialogo è un arricchimento reciproco (cfr. Evangelii gaudium, n.251).
Sul dialogo ad extra si rimanda al Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune (Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti, febbraio 2019), firmato dal grande Imam Al-Tayyib di Al-Azhar “a nome dei musulmani d’Oriente e d’Occidente” e da Papa Francesco “a nome dei cattolici d’Oriente e d’Occidente”.
Necessità di memoria storica
La nuova evangelizzazione della nostra Chiesa può contare sia sulle pietre di un paesaggio che, del Creatore, conserva una particolare orma antecedente all’antropizzazione, sia sulle pietre scavate ed elevate soprattutto dai padri cristiani, ponendo al vertice la Cattedrale. Il cinema cristologico ha loro riconosciuto una morfologia e una luce da terrasanta che ormai sono divulgate come un luogo comune.
L’imprinting cristiano le contrassegna in maniera indelebile. Si può constatare: qui e nel territorio circostante, l’esistenza dei padri, nonostante difficoltà inenarrabili, è fluita nell’alveo della historia salutis .
È un retaggio che merita la massima attenzione da parte della stessa Chiesa che, forse, ha trascurato troppo la propria storia, nonostante qualche esemplare eccezione.
Abbiamo bisogno di una storia rigorosa, scevra da ignoranza, pigre amplificazioni sentimentali e ipotesi fantasiose.
Come non desiderare di conoscere la realtà ecclesiale che ci ha preceduto nei secoli, la vita cristiana qui incarnata, la pietà, la carità e la santità anonime praticate prima di noi, e di gioirne e, fosse il caso, di chiedere perdono di quel che non fu coerente con il Vangelo?
Oltre una interpretazione difettiva
Ci è noto che, dalla pubblicazione di Cristo si è fermato ad Eboli (1945) di Carlo Levi, la Basilicata divenne la regione privilegiata da antropologi etnologi e sociologi quali George Peck, Frederick G.Friedmann, John Davis, Tullio Tentori, Ernesto De Martino ed Edward Banfield.
Da alcuni di loro sono uscite letture negative della pratica cristiana del mondo contadino. Panteismo, politeismo, esteriorità, eccesso di devozione mariana e del culto dei santi, superstizione e magia, furono le parole con cui stigmatizzarono quella condizione religiosa.
Così si perpetuò un complessivo pregiudizio sul cristianesimo lucano di cui pure alcuni Vescovi conoscevano e curavano le devianze,ma che non meritava una interpretazione così riduzionistica.
Si può dubitare che quel lontano vissuto religioso, afflitto da una estrema penuria di mezzi materiali, fosse totalmente riconducibile ai parametri culturali di quei valorosi ricercatori.
Uno studioso di vaglia, testimone credibile perché lucano, quale fu don Giuseppe De Luca e lo storico Gabriele De Rosa con la sua scuola ci hanno insegnato a valutare in maniera meno riduttiva e più veritiera i fatti e le tradizioni religiose del nostro passato.
I nostri beni culturali
Noi siamo sicuri che, in ogni condizione, quale che sia, il senso religioso pulsa nell’esistenza e nelle attività dell’uomo, e che l’incontro con Cristo innalza tale dimensione naturale alla salvifica verticalità del mistero soprannaturale.
Ciò si è verificato qui: lo prova la consistente massa di beni culturali che, nei nostri giorni, le Chiese lucane riscoprono, censiscono, recuperano, restaurano, riorganizzano e digitalizzano, per offrirli alla fruizione dei fedeli e dei visitatori.
Beni culturali in senso stretto: dalla Cattedrale alle chiese ipogee e al Piano e ai santuari, con patrimoni di vasi e libri sacri, crocefissi, statue, dipinti, organi antichi, oggetti, arredi e paramenti, che condensano l’evangelizzazione di ieri e possono essere cooptati nella nuova, esegesi e catechesi del “visibile parlare” (Dante Alighieri, Purgatorio, canto X, v. 95). Oggi c’è da gestirli secondo liturgia, buona amministrazione e legge, e bisogna accrescerli con creatività.
Beni culturali in senso lato: attorno all’Eucarestia e agli altri Sacramenti, le varie celebrazioni liturgiche, le processioni, i pellegrinaggi, le rappresentazioni e le feste religiose del popolo cristiano.
Il turismo inaudito che interessa Matera 2019 non è attratto solo dalle performances della cultura mainstream e dalla enogastronomia locale. I turisti, magari homines saeculares, sono stati iniziati alla conoscenza della nostra terra da film come Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini e The Passion (2004) di Mel Gibson. Quando giungono, non possono non cogliere il genius loci cristiano che fa di Matera un luogo “altro”, una “eterotopìa” (Michel Foucault), un varco sull’oltre.
La categoria mitica
Pio XI ha detto: “I popoli li ha fatti Dio attraverso la geografia e la storia”.
Papa Francesco sostiene che le categorie della logica non sono sufficienti a stabilire l’identità di un popolo che sorge da un processo di generazioni, ha una vocazione condivisa e un senso che lo trascende.
Il popolo è vicino a Dio perché è in rapporto con la natura e il destino.
Nella natura Dio si manifesta al popolo “ come Colui che tutto crea, governa e muove e che si incontra nell’umile esistenza quotidiana”.
Mondo naturale e vita umana si fanno nelle mani di Dio, in una unità vigilata dal suo cuore.
La categoria mitica non idealizza il popolo. Ne coglie anche la corruzione, il degrado, il male, il dolore, le tensioni e i traviamenti.
Le sue negatività possono essere superate “per la forza unificatrice e irradiante di un cuore redento”.
La trasformazione redentrice del popolo può compiersi solo “nell’obbedienza e nella pazienza davanti al destino” il quale gli svela il mistero stesso di Dio.
Il mondo è segnato da imperfezioni, ma è avvolto dalla sollecitudine amorevole di Dio.
Alla prima Creazione si è aggiunta la nuova con la Redenzione.
Cristo è il Creatore che, incarnato nel mondo, lo ricrea e offre agli uomini di partecipare alla trasformazione del mondo.
Il destino è appunto la volontà di Dio a ricreare insieme all’uomo il mondo.
“Per capire un popolo bisogna entrare nello spirito, nel cuore, nel lavoro, nella storia e nel mito della sua tradizione. Solo così capiremo quali sono i valori di quel popolo. Questo punto è davvero alla base della cosiddetta teologia del popolo. L’idea è di andare con il popolo, vedere come si esprime”. Papa Francesco l’ha dichiarato a Dominique Wolton in una intervista del 2017.
Alla fine, soltanto la categoria mitica e la prossimità introducono nella cognizione complessa del popolo.
Il nostro mito
Qual è il mito della nostra tradizione?
Impresso nella geografia e nella storia per secoli, con la più intensa epifania nei Sassi di Matera, è quello dei “santi padri contadini” (Rocco Scotellaro). L’espressione del poeta va allargata alla moltitudine degli umili e anonimi Lucani le cui vicende furono relegate nei sotterranei della storia.
Il meglio di tale mito: i valori più elementari dell’esistenza e le passioni più sane; il senso dell’onore; l’attaccamento al buon nome della famiglia; la vergogna e la paura dei debiti; una certa spiccia ma elegante ruvidezza; il sentimento solidale della vicinanza; la pazienza, nonostante tutto; il pudore nel celare le proprie necessità; la sottomissione franca al mistero.
Valori che erano accompagnati dalla pietà nel senso inteso da don Giuseppe De Luca, cioè sotto il segno di Cristo, nella carità e nella speranza, nonostante la corona di spine dei crudi determinismi insorgenti dalla miseria.
La verità esistenziale di quel mondo contadino resta soltanto confinato nella calcarenite cristianizzata del paesaggio, o il nerbo del suo capitale morale è ancora spendibile in questi giorni in cui muta un’epoca?
La lavanda dei piedi
In questo annus mirabilis di Matera, mentre un annus horribilis travaglia l’Italia, il Sinodo dell’Arcidiocesi Matera-Irsina entra nel vivo dei lavori .
Se centrerà l’obiettivo di riforma ecclesiale e di rinnovata evangelizzazione, sotto la guida della Spirito Santo, sarà il migliore contributo che la Chiesa fedele alla Rivelazione, alla Creazione e alla Redenzione, recherà alla città e al territorio.
Per ascoltare Papa Francesco, non sogniamo da soli, sogniamo insieme non sogniamo contro nessuno.
La Chiesa innaffi pure con attenzione il mito e le radici cristiane di questo territorio, ma non pretenda egemonia.
Si vive una stagione di multipolarità e poliedricità che richiede la sfida di un’armonia costruttiva con tutti gli uomini di retta volontà.
Citando un maestro che ama, Erich Przywara, il Papa ha dichiarato che “l’apporto del Cristianesimo a una cultura è quello con la lavanda dei piedi”, il servizio, la vita data, la condivisione, con Cristo oltraggiato, della sorte che patiscono gli esclusi fuori delle mura della città.
Inculturazione ed evangelizzazione
Quando il Verbo si fece carne si compì ante litteram, mossa dalla caritas della Trinità, la massima inculturazione di Dio. Il Verbo assunse l’umanità culturalmente diversa, affinché questa, attraverso la forma Christi, venisse assunta in Dio.
È il prototipo e la norma di ogni inculturazione.
Secondo Giovanni Paolo II, “l’evangelizzazione e l’inculturazione sono tra loro in naturale e intima relazione”, e “una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.
La nostra cultura – paesaggio e storia segnati dalla fede cristiana costituenti un mito di singolare forza – offrono la base alla nuova inculturazione del Vangelo.
Come parvenus che si vergognano dei genitori, potremmo stendere un velo di oblìo sulla verità storica, ma non riusciremo mai ad abolire le pietre che grideranno fin che il mondo sussisterà.
È pur vero che registriamo l’attacco della secolarizzazione che diffonde la tentazione presentistica dello Jetztzeit, letteralmente tempo adesso, (Walter Benjamin), del profitto e del consumismo e, più ancora, dell’ateismo pratico e del relativismo.
Nella miscela della cultura attuale vediamo poi ripercuotersi i nuovi problemi sociali e politici (povertà, immigrazione, sovranismo), la varietà delle questioni etiche (dalla bioetica alla morale sessuale, gli interrogativi su gender, intelligenza artificiale, transumanesimo, neuroscienze, biodiversità, nuove tecnologie, digitabilità et cetera).
Non di rado appuriamo una maggiore curiosità per gli aspetti più marginali ed esteriori della fede e delle credenze e per argomenti che, tuttavia, ci devono spingere più a capire che a sorridere della credulità e della frivolezza.
Davanti a tutto ciò non sembri lapalissiana l’affermazione che l’evangelizzazione si fa con l’annuncio del Vangelo, come il pane si fa col pane e il vino con l’uva.
Certo è necessario il medium di un linguaggio proporzionato. Molto cosiddetto “ecclesialese” non funziona più. Si accolga la lezione del Papa, non solo i contenuti, ma anche la sobrietà, l’arte retorica e le immagini di una “svolta comunicativa” invidiata.
Evangelizzazione e compassione
La nostra Chiesa particolare, partecipe di quella universale per il suo sensus Ecclesiae, vuole essere testimone del discendere di Dio nella storia con noi uomini (synkatabasis).
Tale movimento di misericordia ci fa scorgere “come una seconda Incarnazione di Cristo nel corpo del prossimo” (A.Gesché), e spiega il traguardo delle opere di misericordia corporale. È san Paolo che ce lo dice: “Voi siete il Corpo di Cristo” (I Cor 12,27); “Siamo membra del Suo corpo” (Ef 12,27).
Si tratta di corrispondere alle viscere (rahamīn) generative del ventre materno che sono la metafora di Dio compassionevole nell’Antico Testamento e allo scotimento delle viscere (splanchna) provato dal padre del figlio perduto (Lc 15,20), dal buon Samaritano (Lc 10,33) e da Cristo stesso, mentre passava il corteo funebre del Figlio unico della vedova di Nain (Lc 7,13).
Evangelizzazione e progresso
L’esperienza performativa (dire=fare) del cammino sinodale apre per forza una proiezione profetica nella società.
La sinodalità in fondo è cattolicità perché intende unire tutti anche nella costruzione di una polis fondata sulla giustizia e sul rispetto nell’affrontamento delle sfide odierne.
Sinodo e nuova evangelizzazione non offrono soluzioni tecniche per lo sviluppo ma l’umanesimo necessario.
“L’amore al bene integrale, inseparabilmente dall’amore per la verità, è la chiave di un autentico sviluppo” (cfr. Oeconomicae et pecuniariae quaestiones, n.2).
Il Rapporto Svimez del 2018 sull’economia e la società nel Mezzogiorno e ancor più, quello drammatico del 2019 sono segni dei tempi che dobbiamo conoscere e soppesare.
Una carenza cui rimediare
Urge l’assunzione della teologica “funzione regale” del laicato nella partecipazione alla vita pubblica, ancor più all’agone politico, senza nostalgie di forme, modi e schieramenti passati.
La nostra Chiesa non pare in grado di formare uomini all’impegno politico. Nel passato c’è stato perfino un non expedit (non conviene, non giova) sussurrato a credenti di valore perché non partecipassero a quella politica che, volta al bene comune, può essere un’autentica carità istituzionale, come ha scritto Papa Ratzinger.
Chi si è peritato a cercare ruoli di responsabilità politica è rimasto solo.
Per decenni abbiamo visto le amministrazioni lucane dominate dalla nomenklatura della stessa parte politica. Non ci è sfuggita la pratica rovinosa del clientelismo e del voto di scambio. Il senso civico e la speranza di molti ne sono stati intaccati e la stessa vitalità dei corpi intermedi talora ne è apparsa corrotta.
È necessario rilanciare il bene comune come fine della politica e la cittadinanza consapevole come condizione per progredire nella giustizia sociale.
Umanesimo secondo Cristo
Il nuovo umanesimo in realtà è un umanesimo cristificato, si potrebbe anche dire eucaristizzante.
Bisogna riconoscere che la nostra Chiesa è sempre più penetrata dalla logica del buon Samaritano e la testimonia con una solidarietà di notevole consistenza.
I poveri assurgono sempre più a traduttori speciali della presenza di Cristo e della manifestazione della sua volontà.
Un anno fa, in Lettonia, il Papa ha compendiato il processo di “fare la storia” in tre atteggiamenti: “radicamento nel passato”, “creatività nel presente”, “fiducia e speranza nel domani”.
Fare la storia è fare il progresso.
Per fare il progresso occorre la vera carità che non è dare qualcosa a un bisognoso ma renderlo capace di esercitare lui stesso la carità.
La caritas è la conditio sine qua non del progresso che, in ogni suo passo, è un tessuto di relazioni.
Riprendiamo il Sinodo
Se il nostro Vescovo deve ricordare, le famose parole di sant’Agostino: “Se mi atterrisce l’essere per voi, mi consola l’essere con voi. Perché per voi sono Vescovo, con voi sono cristiano. Quello è nome di un dovere, questo di una grazia; quello di pericolo, questo di salvezza” (Agostino, s.,Serm. 340,1: PL 38, 1483, citato anche in Lumen gentium, n.32 ), il popolo di Dio di Matera e Irsina deve ricordare che “in virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr.Mt. 28,19).
“Affascinati da tale modello (Gesù), vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti […] , viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo […].È bello essere popolo fedele di Dio (Evangelii gaudium, nn.269; 270; 274).
Matera, 8 settembre 2019
Natività della Beata Vergine Maria