Riportiamo di seguito il testo dell’Omelia che l’arcivescovo di Matera-Irsina Monsignor Pino Caiazzo ha pronunciato stamattina durante la Messadel Santo Natale nella cattedrale di Matera.
La Chiesa ci dona la possibilità, attraverso la liturgia, di celebrare la solennità del Natale di Gesù, usando diversi formulari arricchiti dalla Parola proclamata questa notte, durante la Veglia, questa mattina, nella messa dell’Aurora, e in questo momento, quella del giorno. Tre schemi diversi di annuncio della Parola, lo stesso Dio che parla. Tre momenti diversi della giornata, notte – aurora – giorno, illuminati dall’unica Parola che in Gesù si è fatta carne, così come abbiamo appena ascoltato.
«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi».
Il significato di questi versetti si può chiarire in questi termini. Il Verbo è la Parola di Dio che si è fatta carne. Perché tutto ciò potesse accadere, si è completamente svuotato della sua Onnipotenza, diventando bambino. E un bambino appena nato, quindi un infante, non parla. Non a caso il termine in-fante significa esattamente non-parlante. Ora se il Verbo è la Parola, quindi Dio che parla, con la decisione di diventare infante, è diventato silenzio che abita tra il parlare della gente, il rumore assordante della storia, gli eventi tragici o belli della vita.
La Parola, fattasi silenzio nella fragilità di un bambino, entra in punta di piedi nel cuore del mondo senza imporre alle sue creature, in particolare all’uomo, nessuna volontà. Chiede, nella tenerezza di un bambino, di essere accolto e amato.
Non ci troviamo di fronte a un eroe storico, nemmeno mitologico, ma a un Dio che, svuotandosi di se stesso, si è rivestito dell’infanzia umile e messa ai margini della società, quell’infanzia scartata perché per lui non c’è posto in nessuna casa. In un bambino cogliamo la debolezza, l’ingenuità, la vulnerabilità. Tutte queste caratteristiche Gesù le ha realmente assunte.
Ma Gesù è onnipotente. Tanto da nascere dal seno di Maria, intatta nella sua verginità, ma nello stesso tempo bisognoso di cure da parte dei genitori.
Purtroppo non è scontato che questo avvenga. Sono tante le storie di sofferenza muta, che ogni giorno accolgono il grido silenzioso di tanti bambini soffocati nel grembo di quelle mamme che decidono autonomamente o sono costrette da altri a vivere la sofferente esperienza dell’aborto.
Si ripetono, in questo senso, storie di bimbi appena nati e abbandonati. Non siamo giudici della storia di nessuno, ma possiamo almeno dire che come cristiani affermiamo la sacralità della vita? Possiamo dire che la nostra fede che annuncia Dio fattosi Bambino ci impone di difendere la vita che viene dall’Alto come dono prezioso? Possiamo dire che non è l’uomo a decidere se nascere o morire?
L’umanesimo cristiano integrale ci dice che Dio si è fatto uomo per il bene dell’uomo e non di alcuni uomini soltanto. Gesù ha incarnato tutti i colori della pelle, è nato e nasce in ogni angolo della terra, è capace, nel suo silenzio di infante, di parlare tutte le lingue e di incontrare tutte le razze facendole diventare figli dell’unico Dio. La Parola che abbiamo ascoltato ci ha ricordato: «A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi».
Mi piace citare S. Ireneo di Lione, che diceva: «Il Verbo di Dio Gesù Cristo Signore nostro, per il suo sovrabbondante amore si è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso».
Quanto contempliamo in questo giorno ci ricorda che il nostro credo, la nostra fede, la religione è diversa da tutte le altre: noi crediamo e professiamo un Dio che si è fatto uomo, carne, per stare con noi, in mezzo a noi, condividendo la nostra umanità che perde la sua identità, perché rivestita della sua Divinità. Così l’uomo ritrova la sua dignità perduta.
Questa verità dovrebbe farci sentire il bisogno di rimanere sempre più uniti come i tralci alla vite, Gesù. La linfa vitale non la si attinge se il terreno, sul quale è posta la nostra esistenza, è arido. Ricordo quanto ho già detto nel messaggio di auguri per questo santo Natale: non si può essere o vivere da cristiani senza conoscere e vivere con Gesù, il vero festeggiato: la sorgente dalla quale le radici attingono acqua.
Riflettiamo chiaramente sul rischio che stiamo correndo: ogni nostra festa religiosa, quindi anche il Natale, tende a coltivare più l’esteriorità e il bello emozionale fatto di luci, musiche e feste varie, che l’interiorità e la crescita spirituale, nutrita dall’ascolto della Parola, dalla partecipazione alla vita sacramentale, dalla preghiera e dall’impegno concreto nel sociale con attenzione verso gli ultimi.
Ecco perché non dobbiamo formalizzare il Natale ma umanizzarlo. Solo in questa logica riusciamo a capire il mistero dell’Incarnazione di Gesù.
Gesù non ha rivolto auguri a nessuno: è venuto nel mondo per condividere l’esistenza dell’uomo e lo ha liberato dalla schiavitù dei ritualismi religiosi e civili, dai formalismi ripetitivi. Ha condiviso gioie e dolori di ogni uomo, ha riempito di contenuto il senso della vita; illuminando, come sole che sorge, il buio della notte di un’esistenza spesso mortificata ed emarginata; dando calore a cuori freddi e induriti; portando speranza nei luoghi di solitudine, di sofferenza; annunciando la pace per popoli in guerra vittime di regimi e fanatismo religiosi; elargendo energia positiva capace di far guardare avanti con determinazione e progettualità.
E’ esattamente quanto abbiamo ascoltato nella prima lettura: Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». Parola che era, è e sarà vita e luce per l’umanità intera. Nel corso della storia, questa luce, nessuna oscurità ha prevalso: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta».
Celebrare il Natale di Gesù significa celebrare la forza dell’amore: è questo il motivo per cui Dio non solo si è fatto uomo, ma addirittura infante. Ha lottato, fin dai primi giorni della sua esistenza terrena, contro le ingiustizie del potere terreno e ha vinto ogni persecuzione. Da Giuseppe e Maria, suoi genitori, ha imparato. Colui che insieme al Padre e allo Spirito Santo è il Creatore del mondo, diventa Figlio di sua Figlia, accogliendo Giuseppe quale padre putativo che lo istruisca nell’arte della falegnameria.
Celebrare il Natale di Gesù significa che sarà veramente tale se saremo capaci di mettere fine a conflitti e divisioni familiari, se il perdono disarmerà i sentimenti di odio e di vendetta, se saremo capaci di essere costruttori e operatori di pace.
Dalla grotta di Betlemme s’irradia la luce di Dio per arrivare in ogni angolo della terra, per entrare in ogni casa abitata dall’uomo, in ogni cuore desideroso di tornare ad essere di carne per tracciare solchi di vita nei quali seminare la pienezza dell’amore, della pace, della fraternità.
Dalla culla dell’infante Gesù, il suo vagito e il suo sorriso dicono più di tante parole o bei discorsi senz’anima, a volte di circostanza, altre volte di opportunismo. E’ la voce di un Dio Parola che si è fatto silenzio, cioè non Parola ma vita, concretezza; entra nelle fenditure delle rocce che trasmettono l’eco di una voce di salvezza capace di attraversare valli e colline, navigare mari in tempesta, ridare pace e quiete a cuori affranti e luce a occhi senza più lacrime.
Celebrare il Natale di Gesù significa uscire dalle tenebre ed entrare nella luce, rinnegare la menzogna ed accogliere la Verità. Gesù ha scelto la nostra carne per stare accanto a noi e condividere la nostra esistenza, debole e per questo bisognosa. Quindi, Dio ha scelto quale via principale da percorrere quella della fragilità.
Il desiderio di ognuno di noi è quello dell’amore intrecciato di rapporti veri, autentici per crescere nell’amicizia, nella fraternità. Desiderio che trova nel Natale di Gesù la vera risposta per uscire dalla tentazione di restare ai margini della vita. Diventa bisogno, necessità che irrompe come desiderio di amare e di essere amati.
Ecco il Natale che stiamo celebrando fatto di attenzione al Dio bambino che ci riporta alle responsabilità di adulti perché possiamo spalancare il cuore verso il mondo che ci circonda. E’ questo il vero presepe: al centro Gesù, circondato dall’affetto unico e infinito di Maria e Giuseppe e dal calore del bue e l’asinello. Attorno a questo luogo tanto umano ma tanto divino c’è l’uomo nel suo bisogno di amore, di luce, di pace, di misericordia per vivere la propria esistenza gustandone la bellezza.
Siamo tutti bisognosi di qualcuno che renda la vita più vera, più aperta al trascendente, all’eternità: uomini ricchi o poveri, professionisti o contadini, commercianti o venditori ambulanti, star dello sport o della musica o cinema, italiani o europei, cittadini del mondo o immigrati, politici o sindacalisti, ecclesiastici o laici, disoccupati o in cerca di lavoro, sani o ammalati, bambini o ragazzi, giovani dai sogni svaniti o adulti.
Si, Signore Gesù, siamo tutti bisognosi di te e siamo i personaggi dell’oggi di questo presepe che tutti contempliamo e che nel tuo nome siamo invitati a godere la bellezza divina che s’irradia e avvolge l’umanità intera.
Maranathà! Vieni Signore Gesù. Amen.
✠ Don Pino