Una cerimonia durante la quale si è richiamato il valore della memoria per condannare odio e violenza. Al termine del messaggio del Presidente del Consiglio la lettura brani a cura dell’attore Epifania e un omaggio musicale di D’Amato e Cella
A pochi giorni di distanza dal “Giorno della Memoria” il Consiglio regionale della Basilicata torna a parlare del valore della conoscenza, del dovere del ricordo, della difesa degli ideali di libertà e di democrazia, del rispetto dei diritti, dell’affermazione della centralità della persona umana. Lo fa, oggi, 10 febbraio, celebrando – come ha ricordato il presidente dell’Assemblea, Carmine Cicala – “la solennità civile nazionale del ‘Giorno del Ricordo’, così da commemorare le vittime torturate, assassinate e gettate nelle foibe e i tanti italiani costretti all’esodo dalle ex province italiane della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. I sanguinosi eventi che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, taciuti per molto tempo – ha ricordato Cicala rivolgendosi ai consiglieri in Aula – appartengono alla storia del popolo italiano e devono continuare a essere commemorati e ricordati perché orrori simili non si ripetano più. Il lungo silenzio ingiustificato e le tante informazioni confuse sul massacro delle foibe furono definitivamente chiariti nel 2004, quando, grazie ad un dibattito approfondito di alto livello, venne istituito con largo consenso del Parlamento, il ‘Giorno del Ricordo’ con la legge numero 92: ‘La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale’”.
Il Presidente del Consiglio ha richiamato l’attenzione sul “valore del ricordo che si esprime con l’etimologia della parola stessa, dal latino re-cordor che significa ‘richiamare al cuore’: un termine attinente ai sentimenti che esprime non solo l’esigenza di non dimenticare il tragico eccidio ma ci invita rivivere quelle pagine di storia, per molto tempo oscurate, che portarono al dissolvimento dell’identità, delle radici, della cultura e delle tradizioni di più di 350 mila italiani che furono costretti ad abbandonare la propria terra, la casa e il lavoro, sotto il terrore del regime comunista di Tito. L’esodo fu solo l’epilogo delle barbarie che si intensificarono dopo lo scioglimento del partito fascista, l’armistizio dell’8 settembre del 1943 e l’annessione di Trieste e dell’intera penisola istriana al Terzo Reich. Fu proprio in quel periodo che ci fu la prima ondata di violenza nella quale si consumarono arresti arbitrari e sanguinose vendette contro gli italiani. Da quel momento in poi iniziò l’uso sistematico delle foibe, profonde e strette cavità naturali dell’altopiano carsico, dove venivano gettati vivi e morti uomini, donne, giovani e bambini vittime di atroci violenze. Gli infoibati venivano legati l’uno all’altro con un filo di ferro e a massi pesanti. Una volta sospinti verso l’orlo della gola, i partigiani jugoslavi, sotto la guida di Tito, aprivano il fuoco sparando solo ai primi che, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con loro gli altri, condannati a morire patendo sofferenze inimmaginabili. Soltanto nella zona triestina, tremila innocenti furono gettati nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso. Tante le testimonianze che riportano ogni tipo di violenza, dalle esecuzioni sommarie, alle fucilazioni fino agli abusi sessuali, nota è la tragica vicenda della studentessa Norma Cossetto. La dimensione del massacro si intreccia con i terrificanti gulag jugoslavi, veri e propri lager, di cui, a differenza di quelli nazisti, non ci sono testimonianze filmate e gli archivi nel percorso della ricostruzione storica sono stati per molto tempo inaccessibili. Le testimonianze degli italiani sopravvissuti ai gulag, delineano un quadro di orrore e odio. Molti prigionieri morirono di torture o si suicidarono, altri vennero semplicemente lasciati morire di fame o di sfinimento. Nei campi di concentramento comunisti jugoslavi vennero deportate e persero la vita migliaia di persone, militari e civili, fascisti, antifascisti, membri della resistenza, numerosi reduci dai lager nazisti e persino molti comunisti. Il sistema lager fu talmente infernale, aggressivo e disumano che l’italiano Mario Bontempo dichiarò ‘Meglio un mese a Dachau che un’ora a Goli’ ed era stato in tutti e due i lager. Lo spargimento di sangue per mano dei partigiani jugoslavi non fu quindi una vendetta contro i fascisti, come venne sostenuto da alcuni storici negazionisti, ma colpì indistintamente tutti gli italiani, compresi molti antifascisti e democratici che, nel susseguirsi delle complesse dinamiche storiche createsi nel martoriato confine orientale, patirono prima il nazifascismo e poi il comunismo. Nel clima di terrore che si creò a cavallo del 1945, a guerra finita, le armate titine puntarono verso Trieste e Gorizia e le occuparono nei primi giorni di maggio dello stesso anno. Il susseguirsi di violenze, orrori, rappresaglie, esecuzioni e le note deportazioni di Gorizia verso Lubiana, costituirono un tassello dei tragici episodi contro gli italiani che si intrecciò con le vicende della guerra generale e dei conflitti etnici, politici e sociali che accompagnarono la nascita e l’affermazione del nuovo stato comunista jugoslavo”.
Il ‘Giorno del Ricordo’ riconferma la sua funzione di conoscenza su atti terribili che furono compiuti in quel periodo della storia italiana: “Dopo le atrocità delle Foibe – ha proseguito il Presidente del Consiglio regionale – il dramma delle terre al confine orientale proseguì con quanto deciso dal trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio del 1947. L’Italia consegnò alla Jugoslavia numerose città e borghi, rinunciando per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all’Istria e a parte della provincia di Gorizia. Oltre 350 mila italiani stavano già lasciando le loro case, le loro terre e la loro identità culturale, perdendo tradizioni e radici. Città come Pola vennero completamente svuotate, traducendo questa spartizione di territori come un vero disastro non solo per gli italiani ma anche per la stessa Jugoslavia. Il lungo esodo giuliano-dalmata fu aggravato anche da una non facile accoglienza in Italia, lenta e a tratti controversa che portò molti concittadini ad emigrare all’estero”.
“L’importanza dell’istituzione del Giorno del ricordo – ha affermato Cicala – ha permesso di sanare una ferita nella coscienza nazionale, legittimando l’importante ricerca storiografica iniziata successivamente alla caduta del muro di Berlino. Dopo troppo tempo, è stata restituita quella pagina che il Presidente della Repubblica Mattarella ha definito ‘strappata dal libro della storia’, permettendo a tutti noi, non solo di conoscere, ma anche di rivalutare con coerenza le parole di inclusione, pluralità e multiculturalismo che, accompagnate all’omertà di quel lungo periodo e al negazionismo ingiustificabile, sono state svuotate di significato”.
Cicala ha concluso il suo messaggio soffermandosi sul valore della cultura della memoria, intesa come conoscenza critica, non di parte o strumentalizzata ma autentica e condivisa, presupposto per edificare una società diversa: “Il compito delle istituzioni, delle famiglie, della scuola e degli educatori è di attualizzare il significato dei processi storici, richiamando il valore della memoria per condannare i totalitarismi, l’odio e la violenza, perché i capitoli bui della storia non si ripetano più. Il significato del ricordo, dunque, funge da ispirazione morale e politica, per far fronte alle sfide del mondo contemporaneo e per promuovere e diffondere la tolleranza, l’equità e la fratellanza tra i popoli”.
Al termine dell’intervento del Presidente Cicala è seguita la lettura di alcuni brani e poesie a cura dell’attore Tonio Epifania e un omaggio musicale della violoncellista Giovanna D’Amato e del fisarmonicista Salvatore Cella.