Riceviamo e pubblichiamo l’intervento di Padre Basilio Gavazzeni sull’emergenza Coronavirus.
L’ultima domenica che ho celebrato la Messa con la comunità parrocchiale di S.Agnese, rifacendomi in sostanza alla spiritualità di sant’Ignazio di Loyola e allo stesso Santo Padre, ho incitato i fedeli a pregare come se tutto dipendesse da Dio e a operare come se tutto dipendesse da noi.
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Testimonial e Presidente della prima Fondazione Antiusura in Basilicata (non scordiamolo) mi chiedono come vanno l’usura, il racket e l’economia, anzi come andranno. È chiaro che sono abituato a tenere tali realtà sotto la lente di ingrandimento. Ma la loro lettura più larga e puntuale compete ai Gratteri e ai Tremonti (assumo i due nomi per riferirmi a quelle categorie di cittadini cui soprattutto si addicono simili problemi e che sono all’altezza del compito). Il mio dovere fa tutt’uno con Dio, le anime affidatemi e i poveri indebitati a rischio d’usura sul territorio lucano, e me ne avanza. Pontificare fuori dei miei confini sarebbe ridevole.
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I soccorritori non devono sottrarsi all’urgenza. Non manca qualche difficoltà ad appurare i veri bisognosi. Si può sbagliare a causa sia della fretta sia della lentezza. Forse è meglio sbagliare a causa della prima. Istituzioni e volontariati vogliamo muoverci rigorosamente, accettando di incappare in qualche errore pur di soccorrere tempestivamente chi è nel bisogno? Non possiamo riposare sul latino festina lente (affrettati lentamente) né sul manzoniano adelante Pedro con juicio.
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Prego il Signore di liberarmi dalla vanità del benefattore. È vero che la comunicazione del bene compiuto può giovare alla partita della solidarietà suscitando emulazioni virtuose. Non dimentichiamo che lo stesso Vangelo osserva che il lume non si mette sotto il moggio ma sopra il lucerniere per far luce. Tuttavia devo riprendere me stesso: “Ranocchio, non gonfiarti!” E alla gente della mia specie devo dire: “Non possiamo imitare qualche gallina che, deposto un ovetto, fa coccodè per tre giorni”.
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Cantare, davanti alla turbinante dismisura del Covid-19 (da COronaVIrus Disease-2019)? “Chi è nato per cantare/anche morendo canta.” Perfino nell’incuranza di chi muore o è morto, come abbiamo visto. I mattini buoni, sotto la doccia, canto la patriottica “Vola colomba”, pensando, si licet, al simbolo dello Spirito Santo e al volatile più volte ridisegnato da Pablo Picasso. In questi giorni non mi riesce, però, come ognuno, attendo di veder liberarsi col giusto ramoscello la colomba che attesti un’altra volta la fine del diluvio.
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Cantare? Conviene ricordare “Alle fronde dei salici” di Salvatore Quasimodo: “E come potevamo noi cantare […]/Alle fronde dei salici, per voto,/anche le nostre cetre erano appese,/oscillavano lievi al triste vento.” La poesia è una ripresa del celeberrimo Salmo 137 (136) che attacca: “Lungo i fiumi laggiù in Babilonia/sedevamo in pianto/[…] Ai salici, là, in quella terra/appendemmo mute le cetre”; E che prosegue: “ ci chiedevano canzoni,/ canzoni di gioia chiedevano/[…] come cantare/i nostri divini canti/in quel paese straniero?” Leggetene la traduzione poetica di David M. Turoldo.
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A chi tocca, tocca, sembra che ragionino alcune persone. L’insularità della Basilicata le rassicura. Sembra che tali persone non abbiano una reale percezione del Calvario di non pochi, del fetore della morte, dello strazio delle case colpite. Non gli càle la fame altrui, la questione sociale che cova. Sognano di riprendere il commercio delle relazioni e di rientrare nelle danze della vita.
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Perché gli altri e non io, fra le vittime e gli eroi caduti e in azione?
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Qualcuno mi costringe ad ascoltare un predicatore che spiega la pandemia come un flagello di Dio. Zittitelo, silenziatene la voce. È una bestemmia sostenere antropomorficamente che Dio punisce con un morbo le nostre infedeltà. Dio è Gesù Cristo, con noi e per noi, dalla Creazione alla Redenzione, l’una e l’altra continue, nonostante i nostri peccati.
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L’altra notte ho riletto le poesie di Giuseppe Ungaretti. Obbligata la meditazione sopra “La madre”. Proprio una settimana fa ne avevo citato l’ultimo distico ai figli dolenti attorno alla bara della loro genitrice nel camposanto: “Ricorderai di avermi atteso tanto,/ E avrai negli occhi un rapido sospiro.” Il poeta immagina che la madre l’aspetti “in ginocchio, decisa”, “come una statua davanti all’eterno”, allorchè il “muro d’ombra” che lo separa da lei sarà caduto, dandogli “come una volta” la mano, per condurlo “sino al Signore”, senza guardarlo, fino a quando Dio non l’avrà perdonato.
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Silenzio. “In questo momento esseri umani sono condotti a forza, ogni secondo che passa, verso ciò che non possono sopportare e tuttavia dovranno sopportare.” (Simone Weil). Silenzio. “Aver l’anima vulnerabile alle ferite di ogni carne senza eccezione, come a quelle della propria carne, né più né meno. Ad ogni morte come alla propria morte”. (Simone Weil). Silenzio. “Donaci pace con Te/pace con gli uomini/pace con noi stessi/e liberaci dal male.”( Dag Hammarskjöld).
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Sono materano da 42 anni ma consentitemi di esclamare: “Ah la mia Bergamo, un tempo anche lei “città sconosciuta”, adesso assurta alla celebrità con l’aureola di un martirio inaudito!” La sorella che più rappresenta mia madre ha perduto il marito in ventiquattro ore. L’ha falciato una trombosi. Il coronavirus non c’entra direttamente, ma ipotizzo che la campana a morte imperversante sul paese, a causa di oltre quaranta vittime della nuova peste, abbia abbattuto la serenità interiore e il fisico pressocché intatto del mio generoso cognato.
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Ciò nonostante ripeto a me stesso con Clemente Rebora: “Campana di Lombardia,/ voce tua, voce mia,/ voce voce che va via/ e non dà malinconia./ Io non so che cosa sia,/ se tacendo o risonando/ vien fiducia verso l’alto/ di guarir l’intimo pianto,/ se nel petto è melodia/ che domanda e che risponde,/ se in pannocchie di armonia/ risplendendo di trasfonde/ cuore a cuore, voce a voce-/ Voce, voce che vai via/ e non dài malinconia.”
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Mio nipote, sacerdote della diocesi di Bergamo, docente alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale a Milano e alla Pontificia Università Lateranense a Roma, membro ordinario della Pontificia Accademia per la vita e, perciò, dipendente del Vaticano sarebbe stato il caso “zero” del coronavirus appunto in Vaticano. I giornali ne hanno pubblicato la notizia prima che lui venisse a conoscenza del suo tampone positivo. L’ha scampata bella. Da quattro giorni è stato dimesso dallo Spallanzani, dopo tre settimane di degenza. “Avvenire” del 27 marzo ne ha pubblicato una intensa riflessione riletta alla luce della resurrezione di Gesù Cristo. È stato asperrimo il suo Venerdì Santo: con i polmoni compressi come da uno strettoio, la febbre, la tosse, la nausea, la perdita di olfatto, l’inappetenza, i dolori alle articolazioni, la diarrea e lo sfinimento.
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Tanti morti ci ingiungono di guardare al di là dell’orizzonte che ci richiude. Sorgono fatalmente le domande sul senso della vita. Miguel de Unamuno, in bilico fra ateismo e fede, ma tormentato dal pensiero della morte, a un amico che gli rimproverava l’anelito all’eternità, rispose in una lettera: “Non dico che meritiamo l’aldilà, né che la logica ce lo dimostri; dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d’eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Ne ho bisogno, ne ho bisogno! Senza di essa non c’è più gioia di vivere e la gioia di vivere non ha più nulla da dirmi. È troppo facile affermare: “Bisogna vivere, bisogna accontentarsi della vita.” E quelli che non se ne accontentano?”Aggiungeva: “Amo tanto la vita, che perderla mi sembra il peggiore dei mali. Non amano veramente la vita coloro i quali, se la godono, giorno per giorno, senza curarsi di sapere se dovranno perderla del tutto o no.”
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La gente cambierà dopo la burrasca? So che la gente può essere cambiata soltanto dalla grazia divina. È invece probabile che cambieranno le pratiche sociali soprattutto di massa. Vedremo ancora per esempio stadi e concerti in cui mareggiano tumulti di aficionados, spiagge fitte fitte di vacanzieri gli uni sopra gli altri, sagre straripanti di folle? Si può dubitare. Vi saranno revival dell’etica e dello Spirito. È auspicabile. Fanciullo, sentii mia madre raccontare che, appena finita la guerra, le osterie rigurgitavano di uomini e donne che, dopo tanta distretta, si ubriacavano e che la gente inferociva come non mai. La normalizzazione e il riscatto non furono immediati.
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In “Mio fiume anche tu” Ungaretti canta: “Cristo, pensoso palpito,/Astro incarnato nell’umane tenebre,/ Fratello che t’immoli/ Perennemente per riedificare/ Umanamente l’uomo,/ Santo, Santo che soffri./ Per liberare dalla morte i morti./ E sorreggere noi infelici vivi, / D’un pianto solo mio non piango più,/ Ecco, Ti chiamo, Santo,/ Santo, Santo che soffri.
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Domenica delle Palme, ore 10.00, portale della chiesa socchiuso, benedizione all’esterno delle fronde d’ulivo in due fasci. Due anche i celebranti, un’unica voce per schola cantorum esegue i canti gregoriani Hosanna filio David; Pueri Hebraeorum, Gloria, laus et honor tibi sit; Ave, Regina caelorum. Durante la proclamazione della Passione secondo Matteo, a quando a quando, le lacrime mi velano gli occhi. Alla benedizione di congedo la commozione mi travolge. Non la dimenticheremo questa liturgia mirabile in apparenza deserta ma colma di presenze invisibili, celesti e terrene intorno al Martire.