“Ora al Sud può nascere un Nuovo Meridionalismo”. Di seguito le riflessioni della domenica a cura del giornalista Michele Rutigliano.
Subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia, in diverse regioni del Mezzogiorno sopravvissero sacche di resistenza e ribellione al nuovo ordine costituito. Per un bel po’ di anni, filoborbonici, briganti e camorristi dettero filo da torcere ai “conquistatori” piemontesi. Il generale Cialdini, inviato al Sud prima per domare il brigantaggio e poi per “normalizzare” le Calabrie, in una lettera indirizzata a Cavour, scrisse testualmente: “Questa è l’Africa. Altro che Italia! I beduini, a confronto di questi cafoni, sono latte e miele”. Forse il generale Cialdini non vide mai Tropea, Sibari o Maratea, né soggiornò neppure per un giorno a Capri, a Ischia o a Positano. Per la sua missione militare, si diresse subito nelle aree interne, in quelle zone aspre e isolate, piene di miseria e povertà, dove più forte divamparono la protesta e il terrore. Se mettiamo da parte il duro giudizio che la Storia ha espresso su di lui, per aver sterminato, insieme ai briganti, tanti contadini e oppositori politici, dovremmo avere l’onestà intellettuale di dire che il generale Cialdini non aveva per niente torto. Anzi. Un secolo dopo, scrittori, antropologi e meridionalisti come Carlo Levi ed Ernesto De Martino, Rocco Scotellaro e Manlio Rossi Doria descrissero quei territori, non con quei toni sprezzanti e razzisti, ma, nella sostanza,con giudizi identici a quelli pronunciati dall’emissario di Cavour. Per questi paesi, che da secoli vivevano fuori dal mondo e dalla Storia, né i Borboni, né tantomeno i Piemontesi fecero alcunchè. Per non parlare di tutti i governi della destra e della sinistra storica. Ce ne fosse stato uno che avesse affrontato di petto almeno la questione della povertà. Fecero esattamente l’opposto. Con tutte quelle odiose tasse imposte ai contadini, alimentarono il brigantaggio e con esso tutta una scia di devastazioni, violenze e sorprusi. Alla fine dell’Ottocento, è vero, il Governo di allora realizzò la ferrovia Salerno-Taranto. Un’opera grandiosa per quei tempi, che collegò la Basilicata alI’Italia e al mondo intero. Ma a cosa servì davvero la Ferrovia? A facilitare i commerci? Ad attrarre viaggiatori? A favorire la mobilità sociale tra il Sud e il resto d’Italia? Ma per carità! Servì soprattutto, allo scoppio della grande guerra, a spedire al fronte migliaia e migliaia di giovani meridionali. Ragazzini lucani, calabresi e pugliesi mandati a combattere sul Piave, per cacciare gli austriaci e ridare all’Italia Trento e Trieste. Grazie a quei giovani che combatterono e morirono in quelle trincee – fu scritto- i meridionali finalmente potevano sentirsi a pieno titolo italiani. Prima furono i Savoia a liberare il Sud, adesso erano i giovanissimi“borbonici” che liberavano l’Italia dall’oppressore straniero. Quella vittoria, come ci raccontano i libri di Storia, si caricò di tante, troppe aspettative e l’Italia vittoriosa sarebbe diventata finalmente una nazione coesa, forte, moderna. E invece per il Mezzogiorno le cose anziché migliorare, si complicarono ulteriormente. Nel ventennio fascista, un grande intellettuale e scrittore torinese, Carlo Levi, con il suo “Cristo si è fermato a Eboli”, fece conoscere all’Italia e al mondo intero le tremende condizioni in cui viveva il mondo contadino, con quei drammatici contrasti tra chi inseguiva i sogni dell’Impero e chi viveva in condizioni di arretratezza e povertà.La seconda guerra mondiale e le tragedie che ne seguirono dettero il colpo di grazia al nostro Mezzogiorno, che nel 1945 stava letteralmente ai “piedi di Cristo”. Fu la Repubblica ad operare una mezza rivoluzione al Sud. Prima con la riforma agraria e poi con la Cassa per il Mezzogiorno. Fu l’intervento straordinario, più che il Piano Marshall, a cambiare il volto del Meridione. Senza l’intervento massiccio dello Stato, il Mezzogiorno anziché avvicinarsi alle Alpi, sarebbe precipitato sempre più verso le Piramidi. Ma quanto durò effettivamente questa “luna di miele” del Mezzogiorno con lo Stato Italiano? Azzardo io una risposta. Durò fino agli inizi degli anni settanta, cioè fino a quando nacquero le Regioni. Da allora in poi il ceto politico e burocratico, soprattutto quello meridionale, si mise in testa di essere autosufficiente e di procedere da solo, come se avesse alle spalle decenni di esperienze e competenze. In poche parole si comportò esattamente come fecero, in Europa, i re dei nascenti stati nazionali. Sempre più insofferenti al potere imperiale, questi giovani sovrani gli si rivoltarono contro, perché andavano dicendo che: “Rex in regno suo est imperator”. In poche parole, a casa nostra facciamo come ci pare. Tornando al periodo storico che stiamo esaminando, autorevoli studiosi, intellettuali e giornalisti hanno sostenuto proprio questa tesi. E cioè che fu soprattutto la nascita delle Regioni a decretare la fine del vecchio meridionalismo. Quel meridionalismo rigoroso, onesto e appassionato che aveva nutrito la mente e i cuori di Gaetano Salvemini, di don Luigi Sturzo , di Antonio Gramsci e di Giustino Fortunato. Subentrò proprio in quegli anni, in gran parte del Mezzogiorno, un meridionalismo rivendicativo, rabbioso e inconcludente. Una lagna, più che una protesta, che addossava allo Stato tutte le responsabilità di questo mondo. Se il Sud non decollava, la colpa era dello Stato. Se i giovani riprendevano ad emigrare, era colpa dello Stato. Se la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta dettavano legge negli appalti, nel mercato del lavoro e nel credito era per complicità o assenza dello Stato. E invece le cose non sono andate proprio così. Anzi,è stata questa filosofia del lamento, questa sindrome da oppressione perenne che ha rovinato, in questi ultimi trent’anni, il Mezzogiorno. Ne ha fiaccato lo spirito civile e ne ha compromesso le capacità di riscatto. E’ questa mentalità che, sempre più spesso, fa dire a sindaci inconsistenti e pittoreschi che lo Stato non c’è, che lo Stato è un ladro e un traditore, che lo Stato li ha abbandonati. Ecco, questa singolar tenzone con lo Stato, noi meridionali ce la portiamo dietro sin dal tempo del brigantaggio. A sentir loro, cosa sono i ministri, i sottosegretari e i parlamentari se non una massa di disonesti, furfanti e malfattori? Non se ne salva uno, perché una volta entrati nella casta, i politici si dedicano a tutt’altro fuorchè al bene pubblico e al servizio dei cittadini. Questa declinazione del meridionalismo, dagli oggi e dagli domani, è sfociata in un viscerale e rabbioso populismo che ha scatenato contro la politica solo rancore, rabbia e tanta frustrazione. E con quali risultati? Il grande sociologo Max Weber diceva che la politica si fa con il cervello e non con le altre parti del corpo. Le responsabilità dello Stato nella mancata crescita del Mezzogiorno, in questi ultimi trent’anni, ci sono state. Eccome che ci sono state. Ma, per i meridionali,continuare con questo mantra ossessivo che è tutta colpa dello Stato e ora anche dell’Europa e di Gesù Bambino, è un atto di profonda disonestà intellettuale. Oltre che un falso storico clamoroso. La Riforma agraria, nel Mezzogiorno l’ ha realizzata lo Stato. Vogliamo parlare della nostra Basilicata, da sempre una delle Regioni più “povere” d’Italia? Parliamone, allora. Da noi, fu la Cassa del Mezzogiorno (e quindi lo Stato) a costruire strade, scuole, ospedali, acquedotti, opere di civiltà nelle campagne, impianti industriali, reti elettriche e del gas, linee telefoniche e grandi arterie di fondovalle. Una regione in cui, fino agli anni cinquanta, la stragrande maggioranza dei contadini era analfabeta. Una regione in cui, spostarsi da un paese ad un altro non era un viaggio ma un’avventura. Una regione in cui era altissima la mortalità infantile, dove si moriva per un nonnulla, oltre che di malaria o polmonite. E tra i più poveri, si moriva anche di stenti e di fatica. Sembra che stiamo parlando di due, tre secoli fa. E invece no! Fino agli anni cinquanta, così viveva gran parte della “società civile” lucana. In termini storici stiamo parlando di ieri e avantieri. Non di cinquecento anni fa. Tutte le volte che rientro a Ferrandina da Roma, se non ho impegni familiari da sbrigare, nel pomeriggio mi piace andare a Matera per una passeggiata nel corso o, in estate, andare a Metaponto, a respirare un po’ d’aria di mare. Quattro ore e mezza, massimo cinque, il tempo che impiego per fare Roma- Ferrandina. Venti, al massimo trenta minuti, per raggiungere Metaponto o Matera. Ebbene non potrò mai dimenticare un episodio che mi raccontava spesso mio padre. Nel 1917, l’anno prima che terminasse la grande guerra, fu convocato a Matera, insieme ad altri giovani diciassettenni di Ferrandina (mio padre era del 1900), per essere sottoposto a visita medica. L’anno successivo, il 1918, fu chiamato comunque sotto le armi, ma non andò al fronte. I diciottenni che non sapevano nemmeno cosa fosse un fucile, furono spediti a Procida, per sorvegliare il carcere militare. Sapete quanto impiegarono mio padre e i suoi coetanei per fare il tragitto Ferrandina-Matera? Non ci crederete, ma nel 1917 ci impiegarono un giorno intero. Dovettero “circumnavigare” Taranto, a bordo di una vecchia carretta militare e poi rientrare da Laterza e Altamura, fino a raggiungere Matera. Allora la Valbasento, come zona di transito, era interdetta. Regnava la malaria. E questo perché non esisteva uno straccio di strada decente che collegasse la collina materana alla Città dei Sassi. Un tragitto che oggi facciamo tranquillamente in 20 minuti, allora, nel 1917, era una lunga traversata che toccava sei, sette paesi per raggiungere finalmente la città di Matera. Ecco cosa ha rappresentato per la Basilicata la Basentana. Ecco a cosa è servita la strada a percorrimento veloce Ferrandina-Matera. Un secolo fa queste erano le condizioni non solo in Basilicata, ma nella stragrande maggioranza dei paesi e paesini del Sud. Si è fatto un gran parlare, per tornare alle questioni di attualità, di un Piano strategico per il Mezzogiorno, illustrato solo a metà febbraio dal Ministro Provenzano. Ma, ahinoi, è stato solo illustrato, perché poi è arrivata questa terribile pandemia. E’ vero che si è abbattuta in forma molto più virulenta al Nord che al Centro-Sud. Ma è l’emergenza economica che si è creata che può compromettere il già fragile assetto economico-sociale del Mezzogiorno. E’ stato scritto da più parti che “Non tutti i…virus vengono per nuocere”. Sarà anche così, e infatti per le Regioni del Sud, il biennio che si apre potrebbe essere un momento di svolta. Il Piano di ricostruzione europeo, il Recovery Fund, ha stanziato per l’Italia ben 172 miliardi di Euro. Una cifra enorme, se consideriamo il drammatico calo del Pil che viene stimato per l’Italia nel 2021. Non sarà così semplice, però, ottenere quei finanziamenti. In Basilicata, ad esempio, è giunta l’ora di predisporre progetti efficaci e sostenibili per far rinascere l’agricoltura, l’artigianato, il turismo, la piccola e media impresa. Ci sarà bisogno di predisporre un grande progetto per la rinascita dei centri storici, ma non per generare un’ economia da sussistenza, come opportunamente diceva l’architetto Stefano Boeri, ma per renderli nuovamente vivibili, lontano dalla frenesia dei grandi centri urbani, per trasformarli in centri di aggregazione funzionali e connessi con le moderne tecnologie del terzo millennio. Assisteremo forse alla fine delle grandi città e alla rivincita delle aree marginali, come ha previsto l’architetto Massimiliano Fuksas? Chissà. Questo scenario potrà realizzarsi se, come ha scritto il Presidente dell’Ifel, l’Istituto per la finanza e l’economia locale, Guido Castelli, sarà predisposto “un disegno che attivi tutte le potenzialità delle aree interne, in una logica di interdipendenza e connessione con le aree più urbanizzate, per esaltare il carattere “metro-montano” della Penisola. Connessione digitale, scuole, medicina territoriale, trasporti: sono solo alcune delle misure su cui concentrare l’attenzione di quanti hanno compreso che la densità urbana non è il destino ineluttabile dell’uomo moderno”. E’ su questi obiettivi che dovranno concentrarsi i sindaci, gli amministratori locali, le università, i centri di ricerca e le istituzioni culturali del Mezzogiorno. Non sono traguardi irraggiungibili. E questa volta è l’Europa che scommette su di noi. E’ l’Europa che vorrà mettere alla prova le nuove generazioni meridionali. Quelle nuove generazioni che hanno saputo dimostrare il loro valore, tirando fuori professionalità e competenza. Un patrimonio di capacità imprenditoriali che tantissimi giovani, anche al Sud, hanno saputo mettere a frutto anche nei contesti più complicati e difficili.
Michele Rutigliano