Dopo nove udienze di requisitoria i pm del pool per i reati ambientali della Procura di Taranto hanno chiesto 28 e 25 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva dal 1995 al 2013, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel processo chiamato Ambiente Svenduto sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. Sono accusati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.
Cinque anni di reclusione sono stati chiesti per l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola che è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far “ammorbidire” la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva. Assennato ha sempre negato ingerenze da parte dell’ex governatore che oggi ha detto sentirsi “deluso” perché ritiene di aver “sempre operato nel rispetto della legge”, e ha aggiunto che attenderà la sentenza “con serenità”.
Per l’ex presidente della Provincia Gianni Florido chiesti 4 anni di reclusione per concussione e altrettanti per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. Secondo la procura, un ruolo chiave era quello di Girolamo Archinà, che gestiva le relazioni esterne della fabbrica, soprattutto nei rapporti con la politica. Per lui chiesti 28 anni, così come per l’ex direttore del siderurgico Luigi Capogrosso.
Le parti civili sono un migliaio, 3 invece le società e 44 le persone imputate (tra proprietari, amministratori e dirigenti, amministratori e funzionari). Da parte dell’Ilva targata Riva, per l’accusa, c’è stato «un abbraccio mortale, stritolando la città». E poi: «I motivi a delinquere sono i soldi, perché gli impianti dovevano marciare al massimo della produzione, il resto veniva meno».
Tra le altre richieste: 8 mesi per Nicola Fratoianni, ex assessore regionale e attualmente parlamentare, 17 anni per l’ex consulente della procura Lorenzo Liberti e altrettanti per l’ex presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, 1 anno per l’ex direttore generale di Arpa Puglia Giorgio Assennato. Infine, chiesta la confisca degli impianti del siderurgico di Taranto e di 2 miliardi e 100 milioni – per equivalente- tra Ilva, Riva Fire e Riva Forni Elettrici.
Nel corso delle nove udienze si sono alternati i magistrati Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano. Il processo nasce dall’inchiesta del 2012 che portò i primi arresti e il sequestro dell’area a caldo dell’acciaieria, la stessa nuovamente nel mirino della magistratura con la decisione del Tar di Lecce di spegnere gli impianti entro due mesi. I giudici amministrativi, nei giorni scorsi, hanno dato ragione al comune di Taranto, respingendo i ricorsi di ArcelorMittal e ministero dell’Ambiente, parlando di «grave pericolo per la salute e la vita dei cittadini». Era stato il sindaco Rinaldo Melucci a emanare, esattamente un anno fa, un’ordinanza in cui si diceva pronto a fermare l’area a caldo- tuttora sotto sequestro con facoltà d’uso- qualora non fossero superate le criticità delle emissioni inquinanti. Ma sulla decisione del Tar sono arrivati i ricorsi di ArcelorMittal e commissari straordinari al Consiglio di Stato. Dure critiche dai sindacati. «Fermare l’area a caldo- aveva commentato la Fim- significa mettere Taranto in ginocchio e mettere a rischio il futuro degli altri stabilimenti del gruppo». Insieme a Uilm e Fiom, chiesto un incontro urgente al governo. «La fermata- si legge nella lettera- avrà come conseguenza la distruzione irreversibile degli impianti coinvolti, il blocco di tutta la produzione di laminazione e la perdita di migliaia di posti di lavoro».
Intanto, proprio nel giorno della requisitoria, sono tornati a protestare gli operai di Ilva in amministrazione straordinaria. 1600 famiglie il cui futuro appare incerto e che chiedono venga ripristinata l’integrazione salariale della cassa integrazione. «Non siamo lavoratori di serie B»