Giovedì 19 aprile 2012 presso la Galleria Porta Pepice in via delle Beccherie 18 a Matera è in programma l’inaugurazione della mostra “Manifesti Immaginari – indicazioni terapeutiche ed effetti collaterali della pubblicità”.
Il progetto artistico nasce dall´esperienza quotidiana di chi riflette sullo stesso oggetto da una duplice angolazione: da quella del “fruitore” e da quella di colui che è chiamato a realizzare la pubblicità per rendere “manifeste” le qualità di un prodotto o la bontà di un´idea.
Con il massimo impegno e la più autentica passione…
di Maria Teresa Chidichimo
Il progetto Manifesti Immaginari – indicazioni terapeutiche ed effetti collaterali della pubblicità nasce dall’esperienza quotidiana di chi riflette sullo stesso oggetto da una duplice angolazione: da quella del “fruitore” e da quella di colui che è chiamato a realizzare la pubblicità per rendere “manifeste” le qualità di un prodotto o la bontà di un’idea.
Tra le forme di comunicazione visiva la pubblicità è, nelle sue varie declinazioni e applicazioni, quella più popolare e diffusa e rappresenta oggi una delle più compiute sintesi di tutti i linguaggi, di tutti gli stili, di tutti i punti di vista condensati e sovrapposti; recupera e utilizza a suo modo la figurazione simbolica, sommatoria di significati che si potenziano l’un l’altro, ed è uno specchio attraverso il quale si “riflette” (specula) sulla realtà, uno strumento con cui questo mondo può essere decodificato.
La sua prepotente influenza sulla vita sociale odierna viene amplificata da un evidente abbassamento della soglia di filtro critico nei confronti dei messaggi che ci pervengono: sottomessi ad una continua ed eccessiva “esposizione” ad immagini e parole, non rimane spazio per riflettere, stato che provoca una sempre maggiore difficoltà nel distinguere quanto vale da quanto è inutile o menzognero. Le “false valutazioni” come scorie si insinuano nell’immaginario comune e logorano la corretta percezione della realtà rendendo centrali “valori” senza consistenza, forme vuote del solo verbo “vendere” a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo.
Invece di abbandonarci a una “mestizia esistenziale” o di cavalcare una generica demonizzazione della pubblicità è bene conoscerne e valutarne i meccanismi: impariamo quindi a sciogliere le trame e a svelare i meccanismi di cui si serve questa pervadente “ammaliatrice” senza rinunciare ai suoi aspetti positivi ma impedendole il suo ruolo di “sirena”; riveliamone gli aspetti celati sotto un apparenza rassicurante, a volte paradossali se non addirittura neri, inquietanti, come spesso accade quando si porta un ragionamento, un’indagine alle sue estreme conseguenze… sono i bambini a indicarci una delle strade da percorrere per riacquisire un ruolo attivo e cosciente; imitiamoli nel loro smontare un giocattolo per vedere come è fatto, per svelarne mistero e meccanismi e poi, soddisfatti della scoperta, abbandonarlo o tentare di rimontarlo con intenti ed esiti a volte paradossali… negli adulti, da questa “fase seconda”, spesso scaturisce una risata, a volte serena, a volte amara, a volte simulata ma sempre vivificante e costruttiva se alimenta il giusto senso critico necessario per affrontare il quotidiano di tutti.
A fianco della motivazione “pedagogica”, il progetto “multifocale” Manifesti Immaginari si fa carico, nella scelta degli strumenti con cui dispiegarsi, del tentativo di riscoprire il disegno e di riportare il manifesto – non solo quello pubblicitario – alla qualità compositiva, tecnica ed espressiva delle sue origini; questo passaggio è necessario per riqualificare la difficile professione di grafico sottraendola alla tecnica di assemblamento di foto e testi – frequentemente noiosi, banali, e tristemente ripetitivi – per restituirla alla nobiltà delle sue radici artistiche quando la preparazione teorica e pratica, molto solida, generava autentici piccoli capolavori che ancora oggi, in un’epoca satura d’immagini, ci stupiscono e ci affascinano. Una forte riqualificazione artistica e tecnica, un deciso recupero del disegno inteso anche come progetto – che in quanto interpretazione della realtà e non solo “rappresentazione” può recuperare una comunicazione “simbolica” e, quindi, polisemantica, troppo spesso usurpata dall’uso standardizzato e “meccanico” di una fotografia eccessivamente didascalica – significa rimettere al centro della comunicazione la persona cui è destinata, progettando lavori di qualità comprensibili e “belli” che rispecchino fantasia, creatività, preparazione e impegno di chi li produce e che rispettino sempre l’intelligenza e la sensibilità del pubblico destinato a riceverla.
Con questo spirito sono stati chiamati a collaborare al progetto allievi motivati e versati nelle discipline delle arti visive, ricostruendo una “bottega d’arte e mestiere” che vive dell’esperienza del docente e dell’attivo contributo del “discepolo” che partecipa alla creazione dell’elaborato; un modo di operare che si contrappone al troppo facile accesso a strumenti informatici che, azzerando tempi tecnici, si va sostituendo in tutto al lavoro meditato, al “progetto”, appunto, che richiede la creazione e ha fatto proliferare in questo campo una schiera infinita di “addetti ai lavori” spesso digiuni di qualsiasi conoscenza base, ignoranza che si manifesta in difficoltà tecniche di realizzazione – elaborati impossibili da stampare, marchi che non hanno visibilità, impaginazioni illeggibili, etc. – e in esiti estetici che lasciano perplessi, quando non disgustati, molti.
Oggi nella comunicazione sembra sparita la forma, la “bella forma”, non solo nelle immagini, ma anche nella lingua, nelle espressioni, nel comportamento. In genere si adduce come scusa per questa sciatteria espressiva l’accelerazione dei tempi, la fretta che privilegia il cosiddetto “contenuto”… ma nessun contenuto può sopravvivere ad un brutto contenitore per il semplice motivo che nessun “interno” può essere veicolato senza un adeguato “esterno”: i due concetti sono strettamente interdipendenti tanto che la forma è essa stessa contenuto e il contenuto “in-forma”, come ci suggerisce la lingua con il verbo “informare”, così abusato e forse così poco compreso. Usando un’altra espressione potremmo anche dire che il “buono” ha bisogno del “bello” e viceversa per arrivare alla verità.
Allora la “bella forma” potrà rivestire di nuovo un ruolo decisivo e non soltanto “estetico” nel senso di superfluo, marginale, trascurabile, relegato ad ambiti circoscritti ed ultradefiniti ma, viceversa, essenziale per vivere una vita degna sotto tutti i suoi aspetti.
L’ultimo punto di riflessione insiste sulla labilità dei confini tra arte “pura” e arti “applicate”, sulla differenza tra il “fatto a mano” e la creazione che sfrutta la tecnologia. Queste categorie sono alquanto arbitrarie e rischiano sempre più di assomigliare ad etichette di comodo piuttosto che a vere distinzioni. In un mondo che sembra sempre più un grande frullatore, non sono più tanto importanti le definizioni quanto la qualità delle cose, il loro valore: un po’ di assoluto nel mare dell’indistinto e indistinguibile. A questo punto, occorrerebbe addirittura ridefinire il concetto stesso di creazione artistica ed anche qui ci viene in soccorso la lingua, deposito della saggezza di secoli: non si dice forse per qualcosa di ben fatto “eseguito ad arte”, od anche, per qualcuno il quale in qualsiasi campo lavori in maniera eccellente, che è “un artista”?
E allora, senza addentrarci in un dibattito filosofico senza fine, accontentiamoci, con un po’ di umiltà – non fa mai male – di lavorare al meglio, di imparare e di insegnare bene quello che si fa e di farlo, trasmettendolo con il massimo impegno e la più autentica passione.
Dissacrante sfrontatezza
di un’anarchica iconofaga
La donna che uccise la pubblicità e resuscitò i simboli
di Fabrizio Broccoletti
Nello scritto Con il massimo impegno e la più autentica passione Maria Teresa Chidichimo illustra i processi di significazione che stanno alla base di Manifesti Immaginari – indicazioni terapeutiche ed effetti collaterali della pubblicità, ponendoli in relazione con il discorso pubblicitario tradizionale e “vero” ed esponendo sistematicamente rilievi ricognitivi che esplorano il carattere dirompente e critico della riflessione dell’Autrice rispetto al linguaggio pubblicitario. Analizza inoltre i meccanismi di senso che governano la cruda ironia con la quale vengono affrontati i temi della fame, della necessità dei consumi sostenibili, dell’ecologia, della violenza, del bisogno del recupero della responsabilità personale e della coscienza critica individuale e collettiva e dichiara l’irriverente sfrontatezza con la quale viene messa a nudo la totale autoreferenzialità dei marchi e delle griffe.
Due sono le caratteristiche essenziali dell’impresa. Da un lato la sua peculiarità in relazione allo strumento utilizzato: il disegno, tecnica originaria e “classica” della figurazione – anche di quella pubblicitaria – recuperato e portato a nuova esaltazione nella rappresentazione del mondo contemporaneo e post-moderno; dall’altro l’utilizzo di contenuti e significanti della pubblicità contemporanea per rivelare una deriva ormai cieca ed irresponsabile dell’advertising.
Manifesti Immaginari si caratterizza per l’intento dissacratorio contro la ieratica solennità dei brand – divenuti ormai simboli vacui ed evanescenti privi di ogni legame referenziale – e rivolge la sua critica alla pubblicità mediante i meccanismi e gli strumenti della pubblicità medesima; critica che, d’altro canto, è di natura “colta” muovendosi dalla riflessione sull’utilizzo che la pubblicità fa del “simbolo” inteso nella sua accezione scientifico-accademica. Aderendo alla classificazione tradizionale dei segni di tipo triadico propria della letteratura semiotica prevalente (segni indicali, segni iconici e segni simbolici), l’analisi metalinguistica di Maria Teresa Chidichimo denuda l’arbitrarietà del rapporto segnico che pubblicità e marchi intrattengono con i loro referenti. Se nella tradizione religiosa e letteraria il simbolo è un segno motivato e ricco di implicazioni emotive e narrative, qui si recupera la consapevolezza dell’assenza di un legame tra significante e significato che non sia puramente storico e convenzionale e, quindi, arbitrario.
Per Chidichimo la potenza del simbolo risiede nella vastità del suo alone semantico, che ha una valenza fortemente e “pericolosamente” connotativa. Attraverso un’operazione profondamente consapevole, l’Autrice conduce alle estreme conseguenze la polisemia del discorso pubblicitario, riportando il simbolo ad una potenza originaria che lo rende in grado di unire poli opposti della significazione. L’effetto finale sta nella logica sconcertante di un paradosso: si torna – o si arriva per la prima volta – ad un uso etico, responsabile ed utile della pubblicità. Si restituisce al discorso promozionale la sua efficacia rendendone inoffensivi gli aspetti deleteri.
L’atto anarchico e sovversivo di Chidichimo stravolge l’uso consueto ma improprio della pubblicità. Quest’ultima conserverà la sua funzione di “fabbrica del desiderio”, ma non sarà più solo lo strumento per mostrare come il mondo sia un ammasso di merci ed una ierofania di loghi, bensì diverrà il motore di un sistema etico di consumi, di un uso consapevole dei media, di una riflessione sulla responsabilità dei comportamenti individuali, sulla necessità di discernere l’effettiva validità informativa dei messaggi ai quali siamo esposti.
Utilizzando i segni simbolici, il linguaggio pubblicitario rientra nel campo della comunicazione arbitraria proprio dei codici. Maria Teresa Chidichimo ne scardina le regole attraverso un atteggiamento tanto ludico quanto raffinato, li depriva di ogni efficacia comunicativa, ne annienta la capacità interpellante dando al lettore/spettatore nuovi strumenti di interpretazione.
Con ironica e micidiale disinvoltura l’Autrice rade al suolo un intero sistema di simboli, resuscitando a nuova vita questi ultimi ed il nostro intelletto. Ci costringe a pensare.
E ce n’è veramente bisogno.