La Messa col Papa, domenica 25 settembre, a coronamento del Congresso eucaristico nazionale, è stata spostata alle ore 9.00, per consentire ai delegati accorsi a Matera da tutte le Diocesi italiane di far ritorno alle città di provenienza in tempo utile per votare. Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, ha ringraziato papa Francesco per la sua disponibilità. Non ha mancato di sottolineare che il 25 è «una giornata particolarmente importante per il nostro Paese chiamato a disegnare attraverso il voto il suo futuro», essendo il voto «un diritto e un dovere di tutti i cittadini».
Le elezioni, il Papa e la liturgia del popolo di Dio faranno di quel giorno un hapax storico che resterà memorabile. Le nostre Istituzioni pubbliche e la Chiesa di Matera-Irsina avranno un gran daffare. Potrà succedere che le rispettive organizzazioni, tendendo al massimo le loro corde, creino contrattempi e scomodità, ma siamo sicuri che insieme centreranno un apprezzabile risultato a vantaggio di tutti.
Ai chiamati alle urne, forse messi alla prova e un po’ schifati dalle soggettività contrapposte dei leader in campo, i congressisti avranno il compito di offrire l’esempio di un popolo che, pentito dei peccati personali e sociali, festante e condotto dal successore di Pietro, celebrerà l’unità attorno a ciò che gli è più prezioso. Sopra ogni cosa i convitati cercheranno il Pane che viene dall’alto, ma, divenuti un solo corpo e un solo spirito, testimonieranno pure il bisogno di pace, eguaglianza, fraternità, riconciliazione e creatività, del pane quotidiano, insomma, che ogni politica buona è chiamata a garantire.
In piazza San Pietro, all’udienza generale di mercoledì 7 settembre, continuando una riflessione sul discernimento, papa Francesco ha spiegato che Dio lavora e consegue i suoi obiettivi anche attraverso gli accadimenti imprevisti che, a tutta prima, sembrerebbero deluderci. È una lezione di cui far tesoro con riconoscenza il 25 settembre, per non brontolare, visto che il Papa stesso, nonostante la difficoltà a camminare, vi si adatterà senza pretese.
Sia chiaro: papa Francesco verrà a innalzare l’Eucaristia circondato dai rappresentanti di tutte le Chiese locali d’Italia. Il Papa sarà a Matera in funzione dell’Eucaristia e del proprio ministero di servus servorum Christi. Ci pare di vederlo, le vesti rituali perfette, capo scoperto, che eleva l’Ostia tutto occhi adoranti e che, nel contempo, supplice universale, parroco dell’umanità, le si afferra con la fede, l’intelligenza e il cuore che ognuno di noi vorrebbe albergare nel petto.
Tre anni fa, padre Bartolomeo Sorge, manifestando la speranza che la Chiesa Italiana compisse l’auspicato salto di qualità sulla via del rinnovamento conciliare e ritenendo necessario che puntasse a un Sinodo, indicava come prima fra due sfide da affrontare «la crisi che oggi rischia di incrinare i rapporti di fede e amore che legano strettamente la Chiesa Italiana al Vescovo di Roma. Si tace su questo problema essenziale della vita ecclesiale. Possibile che la nostra comunità cristiana non sappia che cosa fare davanti agli attacchi violenti e frequenti, contro papa Francesco, provenienti in gran parte dal suo stesso interno […]? A poco servono le dichiarazioni formali di filiale attaccamento e adesione: c’è bisogno, piuttosto, di rassicurare i fedeli […] che l’essenza del servizio petrino nella Chiesa rimane sempre immutata, anche se cambia il modo di esercitarlo, come fa papa Francesco».
Sussiste ancora questa sfida, dopo nove anni di laboriosissimo e affabilissimo pontificato di questo Papa che potremmo definire «uomo di tutti in tutti i momenti» come Erasmo ebbe ad aureolare Thomas More? Ispirato dalla gioia liberante del Vangelo, eccolo il 266esimo successore di Pietro ospitare in Vaticano 5mila imprenditori radunati da Confindustria, bramosi di una riflessione alta sui loro problemi; eccolo porgere il Messaggio per il XXXVIII Gmg locale e internazionale; eccolo in Kazakistan al Congresso dei leader sui temi della fraternità e della pace. Il Papa non è un monarca né una star, non indulge all’autoreferenzialità, si riconosce peccatore, raccomanda sempre di non dimenticare di pregare per lui, è padre, fratello e guida.
Amiamo il Papa, noi? Amo il Papa, io, e a ragione? Forse lo amo perché nell’infanzia mio padre e mia madre me ne inculcarono la venerazione; e perché la sera dell’ 11 ottobre 1962, giorno che iniziò il Concilio Ecumenico Vaticano II, ero fra quelli che, in piazza San Pietro, udirono «il discorso della luna» improvvisato da papa Giovanni; e perché, due giorni dopo la morte di quel santo, avvenuta il 30 giugno 1963, in sette novizi di cui facevo parte, guidati da un compagno devoto e intraprendente, talare e cotta indosso, riuscimmo a penetrare in Vaticano e a raggiungere senza intralci la camera ardente del Papa, pregammo, ne baciammo le mani e, lento pede, serafici, ritornammo sui nostri passi; e, infine, perché l’8 marzo 1971, con cinque compagni novelli sacerdoti, potei incontrare singolarmente per pochi minuti Paolo VI, al quale in ginocchio chiesi una preghiera per la mia perseveranza, ricevendone la benedizione e un rosario.
Sì, anche per queste evenienze fortunate, amo il Papa, ma in verità amo il Papa perché è successore di Pietro. Il quale si chiamava Simone. Gesù come lo incontrò (cfr Gv 1,42) gli cambiò il nome. Da quel momento sarebbe stato Cefa, dal lemma ebraico maschile che vuol dire pietra, in italiano, per forza, Pietro. Gesù mutandogli il nome covava per lui un progetto sconfinato: fu chiaro quando all’apostolo che, unico, lo riconobbe come «il Cristo, il Figlio del Dio vivente», replicò: «[…] Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (cfr Mt 16,16-19). Nell’ultima cena, poi, gli affidò il compito di confermare i fratelli (cfr Lc 22,32). Dopo la risurrezione a lui che l’aveva misconosciuto tre volte ma si era pentito, conferì il primato promesso ripetendogli tre volte di pascere le sue pecore (cfr Gv 21,15-17). E in realtà, negli Atti degli Apostoli, lui fra i Dodici esercita l’autorità di “primo”, riconosciuto dall’intera Chiesa neonata. Il ruolo di Roccia della Chiesa non venne meno con la sua scomparsa, ma è durato nella Chiesa in cammino per i millenni e si prolunga nei successori, Vescovi di Roma, poiché Pietro fu crocifisso, testa all’ingiù, Vescovo di Roma, negli anni sessanta del primo secolo.
Amo il Papa perché amo la storia, la possibile storia onesta, compresa la storia della Chiesa e dei Papi, scevra dai condizionamenti ideologici sia di una malintesa apologetica sia di un astioso anticlericalismo, unendomi ai Papi che hanno pubblicamente riconosciuto gli errori e soprattutto i peccati del passato e recenti, hanno chiesto perdono alle vittime e disposto rimedi.
È noto che, nel 1870, i Padri del Concilio Ecumenico Vaticano I, con una solenne formulazione accollarono al successore di Pietro un sovraccarico di responsabilità senza nessun bilanciamento, al quale hanno dovuto provvedere la collegialità e oggi la sinodalità che conosciamo. Secondo Hans Urs von Balthasar, quella formulazione, per quanto «pomposa e gonfia», conserva la sua verità. Una luce che proviene da altrove può illuminarla, sostiene il grande teologo del Novecento, e ricorda che Gesù, dopo aver affidato a Pietro l’ufficio di pascere le pecore, «senza soluzione di continuità né preparazione», soggiunse: «“In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”. Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo, aggiunse: “Seguimi”» (cfr Gv 21,18-19). È «la predizione di una successione sulla croce quale adesione esplicita a Cristo», una profezia che supera le contraddizioni dello stesso Pietro e gli eccessi di potere praticati da alcuni successori o scaricati sulle loro spalle da altri. Alle scuola di san Paolo, papa Francesco conosce la forza del suo potere spirituale (cfr 2 Cor 10,4) e il prezzo: «Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte». E si rallegra per il guadagno del suo gregge che vi trova forza e perfezione (cfr 2 Cor 13,9).
Beato papa Francesco che, fedele alla sua missione, porta umilmente la Croce con noi e per noi! Per questo lo amiamo. Se è lecito paragonare le cose grandi alle piccole (stravolgo un verso di Virgilio) per noi il Papa è il Papa è il Papa è il Papa, come per la poetessa americana Gertrude Stein «Rose is a rose is a rose is a rose».