Presepe pisticcese di Maria Pagliei e Felterino Onorati all’Archivio di Stato di Matera. Di seguito il report con intervento di Basilio Gavazzeni e foto.
Un inaspettato “Presepe tradizionale di Natale”, grazie al patrocinio del Comune di Pisticci e alla perizia artigianale dell’Associazione Arte, Cultura e Tradizione, guarda sulla strada dall’ingresso dell’Archivio di Stato materano. L’opera è stata allestita da Maria Pagliei e Felterino Onorati, due soci dell’associazione pisticcese. Una testimonianza di resilienza, nell’ora buia che batte nel cortile del mondo. Alla prima il visitatore si domanda perché enfatizzare l’aggettivo “tradizionale” che di per sé può essere rivendicato dalla maggior parte delle ricostruzioni presepistiche. Ma i due artigiani tengono a sottolineare che i loro pastori sono stati plasmati con l’argilla dei calanchi pisticcesi e sottoposti alla tecnica della cottura ripresa dai locali fornaciai d’una volta. Tutt’altro che secondo tradizione, però, appaiono le figure della sacra famigliola di Betlemme. Che non trova riparo in una grotta, non dispone di una greppia, non staziona presso uno “scoglio” napoletano di vetuste rovine. A cielo aperto, in cima a una valletta, ritto e frontale, domina un Giuseppe sfarzosamente drappeggiato, dal copricapo ai piedi, come un dignitario orientale. “Fa il carpentiere, è una partita IVA” spiega, sorridendo, uno dei due artisti. A sinistra la Vergine tiene in braccio un Bambino che, mentre si assopisce, il ghiottone, protende ancora la manina alla bottiglia della sua mammella destra prorompente. Ha il manto azzurro, la veste bianca guarnita di stoffa preziosa, d’attorno le dilaga d’ogni lato un grande strascico di tulle. Poco più sotto c’è il viluppo oscuro dell’asino e del bue, questo con il testone a riposare sul dorso dell’altro. Alle spalle del gruppo, un alberetto secco i cui rami sono costellati di fiorellini per significare la rigenerazione messianica delle cose. A metà valloncello ecco un personaggio di chiara nobiltà che esibisce il dono di quattro caciocavalli rigorosamente podolici; ecco una popolana col cesto ricolmo di uova e un campagnolo con un agnello al collo, accanto a tre sacchi da cui occhieggiano melograni, peperoncini e uva. Una rete di lucine copre il terreno di paper clay ruvido, come brinato, con chiazze qua e là di muschio autentico, ovviamente dei calanchi, dove sono sparsi una cinquantina di pecore e di agnelli dal vello finemente ricciuto, quali in movimento quali dormienti. Sovrintende il proprietario del fondo panneggiato non meno sontuosamente di Giuseppe e Maria, una pecora madre sulle spalle e un agnello in braccio, mentre una popolana si avvia a far benedire il figlioletto dal neonato Figlio di David e un acquaiolo seduto stringe la cuccuma. Sul basso, all’entrata del campo, compaiono i tre Magi che, giunti alla mèta, non comprendono che il loro Polo Nord è lì dietro. D’altronde, al ritrovo brulicante delle stelle che punteggiano la notte blu dello sfondo non partecipa la cometa del divino Re. Undici statuine, alte circa 40 cm, sette con i corpi e i panneggi integralmente di ceramica, cinque rivestite anche di stoffa. Tradizionale, ma, insieme, controcorrente questo presepe che, mentre raccoglie materiali e aspetti della “pisticcesità” rompe con i modi topici delle figurazioni presepiali. Un’opera ragguardevole e deliziosa in cui si sbriglia il virtuosismo di mani esperte in decorazione. Un’adesione più attenta ai racconti dei cosiddetti Vangeli dell’Infanzia le avrebbe assicurato un calore di intimità che un poco latita.
Il presepe è stato inaugurato il 3 dicembre, volutamente in anticipo rispetto ad analoghe intraprese. Per l’occasione Pietro Sannelli, Direttore dell’Archivio di Stato, mi ha chiesto appunto una riflessione sul Natale che pulsa nel presepio. Oh, anche il migliore resterebbe solo una splendida cornice culturale se la dovizia del pittoresco accantonasse l’Evento, il Protagonista che deve esaltare! Nell’inverno antropologico senza fine che ci travaglia, è un dovere pregare con l’ateo Bertolt Brecht: “Oggi siamo seduti, alla vigilia di Natale, / noi, gente misera, / in una gelida stanzetta, / il vento corre fuori, il vento entra. / Vieni, buon Signore Gesù, da noi, / volgi lo sguardo: / perché tu ci sei davvero necessario”. Parlare di Gesù impone di non cederne la figura né al mito e all’affabulazione teologica, né alla pretesa di storicità assoluta. Da questa posizione metodologica è possibile rileggere con guadagno di conoscenza e di fede anche l’evangelo del Bambino che Matteo (Mt 1,1-24; 2, 1-23) e Luca (Lc 1,5 – 72; 2,1-52) narrano in maniera diversa, ma coincidendo nelle informazioni essenziali. Poiché la figura di Gesù è saldamente ancorata alla storia, ma i più non ne conoscono i dati più fondamentali, ne fornisco subito la carta d’identità: nome: Gesù, in ebraico Jeshữ, abbreviazione di Jehosữ a (“Il Signore salva”); cognome: semiticamente ben-Josef “figlio di Giuseppe” (Lc 4,22); paternità legale: Giuseppe, in ebraico Josef; maternità: Maria, in ebraico Myriam (forse “la elevata, esaltata”); luogo di nascita: Betlemme di Giudea; data di nascita: forse intorno al 6 a.C.: “Ai tempi del re Erode” (Mt 2,1), durante “il primo censimento” di Quirinio, governatore della Siria (Lc 2,1-2); residenza: prima Nazaret in Galilea, poi senza fissa dimora; stato civile: celibe; professione: prima carpentiere, poi rabbì ambulante e guaritore; segni particolari: forse capelli lunghi alla nazirea (Mt 2,23); luogo di morte: Gerusalemme; data di morte: forse intorno al 30 d.C. Val la pena ripetere che se Erode il Grande con certezza morì nel 4 avanti Cristo, Gesù, nato sotto il suo regno, venne alla luce almeno due o tre anni prima di quella morte. Perciò bisogna collocare la nascita di Cristo nel 7 o 6 a.C. A far accorrere Josef e Myriam a Betlemme fu un censimento dei focolari originari delle famiglie mirante alla riscossione delle tasse. Colui che sarebbe morto in croce fuori della porta di Gerusalemme (Eb 13,12), nacque fuori della porta di Betlemme. Colui che si sarebbe offerto in cibo, alla nascita fu deposto in una mangiatoia (Lc 2,7). L’ateo Jean Paul Sartre, nella prima prova di drammaturgo, Bariona o il figlio del tuono, per il Natale del 1940 in un campo di concentramento nazista a Treviri, descrive la vertigine dell’Incarnazione attraverso l’umanissimo sentire della puerpera di Betlemme: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi assomiglia. È Dio e mi assomiglia”. Ad “alcuni pastori” della contrada in veglia a guardia dei greggi un angelo annunciò: “Oggi, nella città di Davide è nato per voi un Salvatore che è Cristo Signore” (Lc 2,11). Pastori, una categoria ai margini della vita sociale, considerati impuri, inaffidabili, disonesti, furono gli ultimi che arrivarono primi. Tutto l’esercito celeste, come Luca chiama gli angeli, irrompeva inneggiando: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini da Lui amati”. Qualche tempo dopo, da un imprecisato Oriente arrivarono Magi, prosternandosi in adorazione e donando oro, incenso e mirra al Re Dio tanto cercato. I Vangeli apocrifi dai doni arguirono che i Magi fossero tre, poi li incoronarono re, li chiamarono Gaspare, Melchiorre, Baldassarre, li immaginarono uno bianco, uno nero, uno olivastro. Più in là la tradizione popolare li elesse a rappresentare uno la giovinezza, uno la maturità, uno la vecchiaia. I Magi erano forse sapienti dediti all’osservazione degli astri o discepoli di Zarathustra. Che ne sappiamo della stella che li conduceva? Forse Matteo si rifà alla profezia del pagano Balaam: “Una stella spunta da Giacobbe” (Mm 24,17). In conclusione, mentre Luca celebra la manifestazione del Salvatore agli ultimi di Israele, Matteo, invece, la destina a stranieri guidati da un fenomeno luminoso di quel cosmo che racchiude la primordiale rivelazione di Dio. Entrambi, diversamente, immettono nelle narrazioni un soffio di universalismo, il primo evocando Cesare Augusto, apparente signore del mondo, un’ombra a petto del nato Principe della Pace, il secondo, riconoscendo la ricerca e il viaggio dei santi della religione naturale alla volta del vero Dio che si è incarnato. All’uditorio che in piedi mi sopporta da 45 minuti, non posso risparmiare almeno un’allusione all’innico Prologo di Giovanni (Gv 1,1 – 18) che, onda su onda, si innalza fino alla cresta: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Che è quel che ogni presepista, lo sappia o no, inscena con la propria opera, umile o superba che sia. Ad ascoltatori bramosi, come questi di stasera, davanti al presepe pisticcese ospitato dall’Archivio di Stato materano per volontà del Direttore Pietro Sannelli, ne parlerei volentieri. Promesso: senza “battaloghéin” (Mt 6,7), ciarlare.