Basilio Gavazzeni: “Sotto la stella di Covid 19”. Di seguito la nota integrale.
VIGILIA DI NATALE
Ho addosso il Covid. Recluso nella stanza, spalancata la finestra perché l’aria è mite, sono ricoverato in una poltrona avuta in dono qualche anno fa che a comando distende e rialza l’ospite. Due coperte raddoppiate mi coprono fin sotto il naso. Sarebbe una felice condizione marsupiale se una tossaccia liquida non mi squassasse il torace che sembra tener prigionieri un paio di gattini lamentosi. Prego un prozio sacerdote che morì ultranovantenne: “Caro zio don Giovanni, non posso defungere a Natale, come te nel 1965, al freddo e al gelo, senza nemmeno le lenzuola, visto che ti privavi di tutto. Lo testimoniava mia madre che accorse in bicicletta sotto la neve, a portartele. Bisogna essere santi per morire il giorno del Dio bambino”. Quando arriva una festa, il silenzio si allarga qui nella periferia. Mentre cala l’ombra, mi assopisco, mi ridesto, la mente associa e crea analogie con i materiali che la memoria servizievole le apparecchia da ogni parte. Bandito, cioè messo al bando dal morbo, compito le terzine di un sonetto “barbaricino” di Sebastiano Satta che mi commuoveva fino alle lacrime nell’antologia delle Medie: Vespro di Natale! Dentro il core / ai banditi piangea la nostalgia / di te, pur senza udirne la campana: // e mesti eran, pensando al buon odore / del porchetto e del vino, e all’allegria / del ceppo, nelle lor case lontane. Messe d’antan nelle notti di Natale! Mi spingevo a celebrarne tre, cantate, piena la navata di gente in fervida compartecipazione. Era un titanismo celebrativo che giustificavo con la strategia missionaria. In verità ero un forsennato pelagiano. Gli ultimi anni mi adeguai alle norme liturgiche cui l’Arcidiocesi richiamava, consapevole io stesso che l’Eucarestia prima di tutto è Cristo all’opera, poi, con Lui, noi. Al canto alla Comunione, incastonata nel coro, la voce del soprano Nunzia Rizzi, ancor oggi la più espressiva a Matera: Tota silescit / curia coeli / carmine rapta / suave sonanti / Matris ab ore / dum Deus infans / dulce quiescit: era la contemplazione dell’assemblea celeste in silenzio, rapita dalla soave ninnananna della Madre al suo bambino Dio e, nelle strofe a seguire, della vis erompente dagli occhi del neonato che, pur chiusi, trafiggono di ardore amoroso i cuori dei fideles. Alla fine cedo al sonno. A metà della notte mi scuotono i botti di quelli che, incorreggibilmente, prendono la Notte Santa come una primizia di san Silvestro.
IL GIORNO DI NATALE
Il 25 dicembre è pur sempre il caso di onorare, se non il Bambino di Betlemme, la rinascente solarità. Devono così pensarla gli operai che, a un tiro di schioppo dal complesso parrocchiale – ne odo sfiatare il cannello della fiamma ossidrica – asfaltano un tetto, forse predisponendolo ai pannelli solari. Il Deus infans, riconosciuto Sole invitto che splende per tutti, benedica committenza e manodopera e li trattenga da ogni pericolo. Inghiottiti sei biscotti in tre dita di latte, assumo quattro milligrammi di cortisone e quattro hard capsules molnupiravil Lagevrio che mi dovrebbero tirar fuori dalla fossa covidica. Esulto sui testi della Liturgia delle Ore: Iesu, tibi sit gloria / qui natus es de Virgine, / cum Patre et almo Spiritu, / in sempiterna saecula Amen. Aggiungo un Rosario. Poi sfoglio un libro d’arte dedicato a Maria attraverso la pittura di Vincenzo Francia. L’iconografia mi è pressocché nota. Verifico se l’interpretazione iconologica sia pertinente o vi appaia qualche particolare che mi è sfuggito. Davanti alle opere riguardanti l’infanzia di Maria e Gesù mi chiedo: quale sarà stata la realtà effettuale dell’educazione impartita a simili creature? Gli artisti, tenendo conto della Grazia che rese tuttasanta la futura madre del Cristo, e che, ovviamente, inabitò il fanciullo Dio di Nazaret, li aureolano di luce e d’importanza. Nella normalità terragna che anche loro condivisero, come si provvedette a cesellarne le acerbe personalità? Ore e ore di meditazione ininterrotta, luminosa, viva, stupore e rimorsi, desiderio di essere rinnovato e di un nuovo Battesimo, dell’unica scienza che conta, di sentirmi togliere il cuore maleodorante e di avere il cuore di Cristo, come è dato a santa a Caterina da Siena, nella raffigurazione della Madonna del Rosario di Luca Giordano. Mi chiedo con il filosofo Lev Šestov che cosa sarebbe accaduto se Adamo non avesse peccato e, con Paul Claudel, da quale inferno dovevamo essere liberati, se è stato necessario che il Verbo piantasse la tenda fra noi. Nel capodopera di Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo, prima di involarsi definitivamente, il protagonista erudisce i suoi: “Vivete dunque, figli del mio cuore. Tutta la saggezza umana sta in queste due parole: attendere e sperare”. Cioè, che cosa? Non si può vivere soltanto dentro i limiti del tempo e dello spazio, senza un progetto che varchi la soglia aperta della Trascendenza. Natale è. Nessun similnatale può subissarlo, come nessuna similparola può insediarsi al posto del Verbo. Distrazioni e disinganni non prevarranno mai su di loro. Sono convinto che, dopo la nascita di Cristo, la realtà, fuorché il male, sia naturaliter cristiana.