Si è spento Domenico Riccardi, scrittore e pioniere della nuova agricoltura materana: il ricordo del giornalista materano Pasquale Doria.
Aveva sviluppato una capacità unica nel narrare le vicende di un passaggio epocale per Matera e, in generale, riguardante l’intero Mezzogiorno. Si tratta delle trasformazioni che hanno segnato il settore primario con l’avvento della meccanizzazione e il definitivo addio alla trazione animale. Le ha descritte magistralmente in un romanzo del 2004, dai connotati decisamente antropologici, intitolato “L’ultima estate di Mazzapede – La malannata”.
Si è spento all’età a di 89 anni Domenico Riccardi, erede di una lunga tradizione imprenditoriale ed esponente di punta della modernizzazione agricola del territorio materano. Laureato in legge, si è distinto nell’ambito delle associazioni del settore primario, ma anche zootecniche e commerciali. Al punto di dare vita a una società, l’Agricola lucana, che riuscì a scalare la vetta del fatturato nazionale nell’ambito della commercializzazione di macchine destinate al settore primario.
Più che da un impulso di carattere imprenditoriale, lo sanno bene quanti lo hanno conosciuto, Riccardi era spinto dal sacro furore di una vera e propria missione, unire le radici dell’appartenenza all’evoluzione dei tempi, andare incontro ai cambiamenti senza cancellare i migliori valori del passato. Una passione incontenibile che lo portò a ricoprire varie cariche ai vertici nazionali e locali di diversi enti, tra cui l’Unione agricoltori e allevatori, la Camera di commercio e il Consorzio di Bonifica di Bradano e Metaponto.
Fortissima la propensione a non disperdere quei saperi legati a una vicenda, prima di tutto umana, che non avrebbe dovuto essere bruscamente archiviata oppure inutilmente banalizzata per un malinteso senso di adeguamento a esigenze piegate a presunte novità spesso inconfessabili. Una propensione esplicitata in una vasta produzione pubblicistica veicolata tramite i quotidiani e i periodici locali. Pagine in cui, al piacere di raccontare la storia locale, si univa l’utile necessità di indicare un cammino che veniva da lontano, bussola efficace per orientare le scelte future, senza stravolgere quella qualità ambientale che ha decantato con particolare fervore tutte le volte che ha avuto la possibilità di farlo pubblicamente.
Vicende di masserie e massari, di campagne e contadini, di umili braccianti che, dopo secoli di subalternità, venivano chiamati finalmente a entrare nella storia con i loro panni, sono solo alcuni degli ingredienti di una narrazione fitta di rimandi e annotazioni salvati dall’oblio della memoria. Una sorta di atlante capace di districarsi tra contrade e loro peculiarità colturali, riordinate secondo una geografia territoriale che illumina magistralmente la ricchezza di un fecondo territorio agricolo in cui i cereali svolgevano la parte di protagonisti assoluti.
Il mondo contadino, faceva notare Riccardi, come altre realtà, non è immune dall’alternarsi di momenti di fulgida luce a ombre profonde. Ma gli agricoltori hanno una dote particolare, è legata al loro modo di vivere il tempo, condizionato dal ciclo delle stagioni. “Gli zappatori sanno aspettare”. Un attesa tra gli altri impegni che lo hanno visto spendersi in prima linea, nella necessità di dotare di adeguate infrastrutture il territorio. La sua battaglia per il completamento dell’itinerario Bradanico resta quale monito a futura memoria. Riccardi lo ha visto completare, ma è inutile aggiungere, come ha più volte dichiarato, che avrebbe desiderato la fine di un’attesa non così remota e, fino all’ultimo, ha sempre provato a immaginare quale e come sarebbe cambiato il destino della sua amata terra se quell’opera viaria fosse stata completata a tempo debito, negli anni Settanta.
Pasquale Doria
Addio, Mimì, avvocato della campagna lucana, il ricordo di Giovanni Caserta
Apprendo con dolore e con costernazione della morte di Domenico Riccardi, anzi Mimì Riccardi. Mi sento lo scrupolo di non aver mantenuto la parola di andare a trovarlo. Non lo vedevo dal tempo della pandemia. Recentemente avevo preso accordo con un comune amico. Volevamo fargli una sorpresa. Purtroppo, come capita spesso in questi casi, il fato o il caso decide per noi. Son contento, però,di essergli stato vicino in una delle fatiche cui teneva di più. Mimì aveva una straordinaria capacità affabulatrice. In gioventù aveva molto letto di letteratura americana. Attraverso il padre, aveva conoscenze lontane e profonde delle tradizioni materane e della storia cittadina, sempre carica di aneddoti riguardanti il ceto agrario e nobile della città, ai più ignota. Era miniera inesauribile anche nelle lunghe telefonate. Son contento di averlo sempre citato per il romanzo L’ultima estate di Mazzapede – la malannata, 2004. Ancora ieri, arrivandomi l’ultimo numero della “Vetta di Picciano”, vedevo di aver ricordato, in nota, questo suo fortunato libro, che mi piacque collocare tra i migliori prodotti della letteratura lucana del secondo Novecento. Ecco quel che di lui lascio nel volume Disegno storico della letteratura lucana,Villani, 2020.
“Agli afrori della campagna lucana, al caldo e alla polvere, allapula e alla sete dei calanchi e delle argille, è dedicato l’unico romanzo di Domenico Riccardi, nato a Matera nel 1934. Figlio di proprietari agricoli fattisi con il callo alle mani e con la schiena rotta, la morte precoce del padre costringe don Ninì – l’autore – a curare le terre difamiglia, raccolte intorno alla masseria di Mazzapede. Nel romanzo(L‘ultima estate di Mazzapede- La malannata), uscito nel 2004, si ricorda l’ultimo anno della stessa e, a ritroso, si ripercorrono gli anni della fanciullezza e adolescenza del ragazzo, quando, d’estate, libero dagli impegni scolastici, visse tra i foresi che, alle dipendenze del padre, ne lavoravano le terre. La masseria era, allora, quasi un piccolo villaggio o borgo, erede della curtis medievale, autarchica, popolata da famiglie eaddetti stabili, compresi bambini cenciosi, scalzi, assetati, malati. Era un mondo bruto e brutale. Accanto alle famiglie stabili per tutto l’anno,nei lunghi e defatiganti lavori della mietitura e della trebbiatura, neimesi più caldi di giugno-agosto, arrivavano gli stagionali, normalmente dalla vicina Puglia, terra di braccianti e di Giuseppe Di Vittorio.
Domenico Riccardi racconta in uno stile scabro, duro, comedura è la fatica dei foresi. A questi egli si mescola, pur essendo ilfiglio del padrone, da tutti – vecchi, giovani e piccoli – chiamato con l’appellativo signorile di “don” Ninì. Ma egli non scrive da padrone.Scrive nello stile degli scrittori americani, di cui si nutrì da giovane.È facile riconoscere lo stile di Hemingway, di Faulkner e, soprattutto,dello Steinbeck di Furore. Il romanzo si chiude, simbolicamente, conl’arrivo del trattore, che accorciava tutti i tempi di lavoro e eliminava le braccia da lavoro. Era l’ultima estate della vecchia masseria Mazzapede,presto smobilitata.
È un racconto epico e tragico. Non è eccessivo direche, chi vuol capire che cosa fu la masseria e che cosa era il lavoro delle campagne del Materano e del Preappennino lucano, prima ancora di leggere il più famoso romanzo La masseria di Giuseppe Bufalari, è bene legga il romanzo di questo avvocato, imprenditore agricolo, arrivato all’unico romanzo in vecchiaia. Ma è un romanzo cavato dal profondo del tempo e del cuore>>.
Addio, Mimì.