Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha riaperto il dibattito sul patriarcato in Italia. Di seguito le riflessioni di Vincenzo Maida del Centro Studi Jonico Drus.
Patriarcato sotto attacco. E se il problema fosse invece la sua crisi o la sua assenza, cioè la mancanza di una autorità nel processo educativo?
In questi giorni il termine “patriarcato” imperversa sui media e sulle bocche degli opinion maker. Sembra che sia stato individuato l’origine di tutti di mali di cui soffre l’intera società con riferimento ai rapporti tra i due sessi, alla condizione della donna vittima di soprusi a cui a volte è sottoposta fino ai casi di femminicidio.
L’occasione scatenante è stato il tragico fatto di sangue di cui si è reso protagonista il ventiduenne Filippo Turetta.
Premesso che anche un solo caso di femminicidio è troppo e inaccettabile, occorre rilevare che l’Italia tra i paesi europei si colloca, in termini percentuali, agli ultimi posti per incidenza in questa mostruosa casistica, mentre ai primi posti vi sono le nazioni del Nord Europa ritenute molto più avanzate della nostra in quanto a rapporti di parità tra i sessi, a emancipazione femminile e ad assenza di qualsiasi traccia di patriarcato.
Altro dato interessante è quello che ci offre la statistica per l’Italia: circa il 50% dei casi di donne uccise si verificano nel Nord Italia, che si ritiene più progredito del resto dello stivale, il 30% nel Sud e il 20 nel Centro.
Gli studiosi del fenomeno ancora non hanno individuato una causa certa di tale fenomeno che in alcune nazioni dell’Europa “progredita” fa registrare il doppio rispetto all’Italia dei casi di donne uccise per mano degli uomini. Si era pensato che fosse l’alto consumo di alcool, ma ad analisi approfondita questa ipotesi non ha retto, per cui si sta ancora indagando.
Quasi tutti gli opinionisti tengono a precisare che nel caso di Filippo e Giulia il patriarcato non ha avuto alcun ruolo, ma che comunque rappresenta il terreno fertile in cui possono maturare i casi di violenza sulle donne.
Per fortuna c’è qualche voce dissonante che individua invece la causa principale dello scatenamento di una violenza brutale e apparentemente irrazionale nella fragilità dell’Io, nella incapacità a saper affrontare e proseguire autonomamente l’esistenza, senza essere dipendenti da un amore, da rapporto di coppia che si interrompe per volontà della donna, dalla debolezza della personalità del soggetto a saper gestire una delusione d’amore ed a trovare la forza interiore per reagire in modo sano ed equilibrato.
L’assenza di un’autorità, di un “padre”, e nella nostra società in passato tale ruolo soprattutto veniva svolto anche dalle donne quando il “capo-famiglia” per vari motivi veniva a mancare, anzi per il Sud Italia spessissimo era più corretto parlare di “matriarcato” perché erano le donne a provvedere all’educazione dei figli e non solo, ha creato una generazione di deboli che non è abituata ai “no”, al rifiuto, all’autonomia interiore.
Questo potrebbe spiegare anche l’aumento della violenza tra i giovanissimi in misura spoporzionatamente maggiore proprio nel Nord rispetto al Sud.
Abbiamo seri dubbi che il provvedimento governativo di inserire nel programma scolastico qualche ora di “educazione ai sentimenti” possa risolvere alcunché: è l’autorità che va ripristinata, dalla scuola alla famiglia, il valore educativo dei “no”. Una volta il maestro della scuola primaria era per gli alunni il Signor Maestro e il padre era il Padre, gli amici erano i coetanei con i quali crescere insieme anche nel conflitto, e con la capacità di sopportare privazioni e delusioni. Parafrasando Mao Zedong, che si riferì alla Rivoluzione, potremmo concludere che: “La vita non è un pranzo di gala”.