Messaggio di Monsignor Ligorio per gli elettori lucani, Basilio Gavazzeni: “In questi anni dove era?”. Di seguito l anota integrale.
Non so quanti abbiano letto il messaggio pasquale di Mons. Salvatore Ligorio, amministratore apostolico della Chiesa di cui è stato arcivescovo. È più facile che molti ne abbiano solo letto riassunti e udito qualche risonanza. Trabocca subito dal mistero della Resurrezione in una essenziale riflessione sulle elezioni. C’è l’invito “cattolico” agli elettori a non disertare le urne, ma anche la richiesta di fattiva responsabilità ai candidati. Mons. Ligorio sa dell’impoverita condizione dei Lucani. Si preoccupa soprattutto dei giovani che migrano dalla nostra terra. Alla maniera di papa Francesco li incita a gridare i loro diritti. Qualcuno gli ha replicato: «In questi anni dove era?». Non è il caso di rispondere infantilmente: «E lei dove era?». Rivolta a un uomo di Chiesa che ha presieduto la Conferenza Episcopale Lucana, la domanda interpella i nostri vescovi e ogni cattolico uso all’esame di coscienza e a percuotersi il petto con il triplice “mea culpa”. Dove eravamo noi, membri della Chiesa, discepoli del divino profeta di Nàzaret che «coepit facere et docere» (At 1,1) «potente in opere e parole» (Lc 24, 19), tutto prossimità e magistero salvifici sul campo? Ognuno si esamini. Dove ero io, quarantasei anni in cura d’anime a Matera? Mi trascorre sotto gli occhi il film della mia vita prossimo alle forbici che ne ultimeranno il montaggio. Scorrono i fotogrammi e le sequenze dei giorni che lottavo insieme al popolo a me affidato, per l’illuminazione pubblica carente, per gli asfalti sgranati, per il verde delle pinete attorno alla più meschina parrocchia di Matera, per gli edifici scolastici ammalorati e incapienti di una periferia diseredata. Penetrai dalle finestre di edifici privati e pubblici dismessi per consentire a famiglie di ricoverarsi sotto un tetto. A mie spese indirizzai malati in difficoltà a curarsi in una clinica di Torino dove, già prete, avevo prestato i servizi più umili. Liberai una ragazza dal pretendente che l’aveva sequestrata. Collaborai a rialzare l’infangata bandiera dell’Avis che risorse e oggi serve gloriosamente. Assicurai ospitalità e risorse all’Università della Terza Età “statu nascenti”. Ingrandii la parrocchia dotandola di casa canonica, di una nuova chiesa, di ambienti per le attività pastorali e di campi sportivi. Primo in Basilicata, fra i primi in Italia, contrastai l’usura e il sovraindebitamento, favorii l’accesso al credito legale di persone e famiglie escluse, nonostante un attentato dinamitardo e un incomprensibile attacco di malagiustizia, e questo impegno assorbe ancora ogni mia giornata. Il pudore mi vieta di insistere nel catalogo. Tienine conto almeno tu, Signore, se è vero che l’elemosina (dal greco: «generosità verso i bisognosi») espia un mucchio di peccati. «In questi anni dov’era?». «Casta e meretrix» come illustrava sant’Ambrogio, pur riconoscendo la tiepidezza e la piccineria di qualche suo rappresentante, la Chiesa anche in Lucania può rispondere che ha pregato, annunciato il Vangelo, educato alla fede, dissodato il terreno del prepolitico con la profezia della vita buona, della giustizia e della fraternità. Come il Risorto a Tommaso chiamato Dìdimo (Gv 20,26-27) ha mostrato mani e fianco bucati dalla carità. Chiunque ha bussato al suo cuore di madre ha trovato accoglienza, conforto, la risposta e l’aiuto possibili. Chi in Basilicata, con metodo, fa fronte alle povertà antiche, novissime e crescenti se non la Chiesa? Alla Chiesa non manca una lettura realistica della lucanità né le manca la franchezza quando è verità nella carità. La vede la zizzania, ma prima pensa al grano da salvaguardare. Che strana passione hanno certuni per lo sradicamento della zizzania, con la pretesa di farla sradicare agli altri, alla stessa Chiesa. Non si può pensare che la Chiesa non sappia che, qui come altrove, la democrazia è oligarchia della parte politica che prevale; che i membri della maggioranza e della minoranza godono stipendi sproporzionati e si assicurano altrettante pensioni anche per un modico servizio; che, oggi come nel passato, attorno ai candidati e alle persone da loro cooptate, v’è anche il brulichio di una fauna umana intesa soltanto al guicciardiniano “particulare”, gente idolatra di Mammona, ipocrita e rotta a tutte le slealtà; che gli elettori – altri l’ha rilevato – sono tratti come buoi a destra e a manca e sempre più sono tentati di secludersi nel limbo dell’astensionismo; che, nonostante l’imposta “quota rosa”, le donne lucane non assurgono mai a protagoniste nella politica; che il bene comune e l’opzione preferenziale per i poveri sono parole senza incarnazione; che ancora adesso i cittadini volenterosi sono all’oscuro dei programmi dei contendenti. Férmati, elenco. Alla Chiesa non sfuggono prevaricazioni, limiti e imperfezioni, ma le interessa il grano, il bene e le positività pur diffuse da cui attendere la pace e la fioritura umana, per dirla con Amartya Sen, delle popolazioni lucane. Deve forse portare legna alle divoranti braci del pessimismo che è sempre parte dei problemi? La Chiesa sta nella Storia, ma non è della Storia. Il dogma della politica totalizzante non appartiene al suo credo. C’è immensamente ben più che la politica a starle a cuore. Forse si pretende che, come in una remota stagione sotto la minaccia di drammatiche contingenze, sforni donne e uomini onesti e competenti capaci della maggiore carità politica. È una questione da porsi con serietà, ma non la più importante. Per intanto la Chiesa lucana, gerarchia chierici laici, sia quel che deve essere, senza potere e povera. Ogni cattolico sia fedele alla sua specifica vocazione e anche la vita sociale e la politica ne guadagneranno. Sortiranno le donne e gli uomini di valore di cui oggi lamentiamo l’assenza in politica. Benedetto chi ci chiede dove eravamo, dove stiamo. Lucani, il Risorto smuova le pietre dai nostri sepolcri d’impartecipazione e d’intransitività. Dentro e fuori della Chiesa è dovere dei morti risorgere.