Basilio Gavazzeni: “Levatrice fu la bomba all’origine della Fondazione Lucana Antiusura”. Di seguito la nota integrale.
Spirava la tramontana in piazza Sant’Agnese venerdì 6 maggio 1994, alle 22.45. La combriccola dei ragazzi di muretto era stata costretta a intanarsi. Di solito vi impazzava fino a tardi, fulminando pallonate contro i muri dell’ex-scuola. Sui campi dell’oratorio, concluse le partite, erano stati spenti i fari dell’illuminazione. Nella sala al piano superiore della canonica, davanti al televisore, mi godevo un film della serie “I bellissimi”. La mia mezzabretone Tommy (sì, al maschile) mi obbligò a lasciarla uscire. Poco dopo la udii guaire, come quando veniva accostata da pretendenti sgraditi.
Fu allora che un immane boato scardinò la quiete della notte. Gridai qualcosa a padre Severino Donadoni che, nella sua stanza, dormiva il sonno del giusto. Esitai a scendere. In piazza lampeggiarono prima le Gazzelle della Polizia in movimento nei paraggi. Il giornalista Franco Di Pierro della “Gazzetta del Mezzogiorno”, accorso dalla casa poco lontana, mi provocò: «Dov’è la tua gente?». Unico collaboratore sopraggiunto, Vito Giacoia, mi mormorò: «No, così non possiamo andare avanti». Attoniti, a distanza, come se vi si acquattasse un’insidia, guardavamo la chiesa. Le nicchie ai lati del portale sfondate; il portale di ferro e vetro giallo retinato senza più la parte inferiore; la bianca facciata lorda di fuliggine. Nessuno osò andare ad aprire. A mezzanotte inoltrata, in Questura, rispondevo a qualche domanda di rito e sporgevo denuncia contro ignoti. Tornato in canonica non potetti addormentami.
Agli albori di sabato, uscii con Tommy a prendere una boccata d’aria. Un odore di zolfo, attraverso il corridoio della vecchia canonica collegato alla chiesa, si era diffuso per la casa fino al solaio. Nelle due Gazzelle rimaste a guardia, i poliziotti, riversi, riposavano serenamente. Allora mi diedi animo di accertare i danni. Sventrato il confessionale. Schiantati, l’uno sull’altro, i banchi prossimi all’entrata. Scarificature su tutti, anche sul cotto fiorentino del pavimento. Dappertutto brandelli di vetro giallo retinato e frammenti contorti di ferro. Mi impressionarono quelli confitti nei tondi lignei delle Opere di Misericordia dipinte da Susanna Rossi. Uno aveva centrato l’altare di faggio dell’architetto Vincenzo Baldoni. Poco discosta, invece, su una colonnina di plastica, la Madonna di Fatima aveva resistito all’onda d’urto. Il murale del presbiterio, altra opera di Susanna Rossi, presentava scrostature e filature. Una coltre di polvere ricopriva ogni suppellettile. Il soffitto era chiazzato di nero.
Rientrai in casa. Telefonai a mia sorella Piera: «Mi è capitato qualcosa (“ű laùr”, in dialetto bergamasco), sarà già stato riferito in televisione, non lasciar andare la mamma a Messa e al cimitero, non vorrei che qualcuno la spaventasse». Poco dopo: «C’è già andata. Alla comare che la informava ha detto: «Signora, non si preoccupi, c’è suo padre che gli sta sopra». Cominciò il flusso dei curiosi. La città prendeva atto dell’accaduto. Fui subissato di interviste. Fotografi piombarono da ogni parte a riprendere lo sconquasso. Una donna di Altamura mi strappò un autografo: «Non si sa mai». Si illudeva, la poveretta, di aver a che fare con un potenziale martire. « Caro, adesso devi adattarti» mi incoraggiò il giornalista Mimì Notarangelo. Venuto per conto di TRM, mi sapeva riluttante alle interviste televisive. Di fatto l’intervista imbastita per Raitre con il giornalista Oreste Lopomo, anche lui alle prime prove, fu laboriosa sia per lui sia per me.
Nel pomeriggio le visite si infittirono. Giungevano le autorità. Intensa solidarietà mi dimostrò Angelo Tataranno, Presidente della Provincia. Ebbi l’abbraccio rattenuto del Prefetto Tommaso Blonda. L’Arcivescovo Mons. Antonio Ciliberti mi recò cinque milioni, perché procedessi alle prime riparazioni. Li rifiutai: «Altri deve pagare». Di un siparietto fu protagonista Emilio Colombo. Giunto con la scorta, stretta di mano, parole secondo prammatica, una busta che intascai ringraziando: era già ripartito. «Quanto ha messo dentro?» fece uno degli accompagnatori che non lo avevano seguito. «Veda lei». Passai la busta. Trasecolò: «È vuota». «Lei l’ha aperta». Si gettarono in macchina a rincorrere l’illustre distratto. Mezz’ora dopo erano di ritorno sventolando un assegno di mezzo milione. Fui avvicinato da Paolo Cristalli, delle omonime Pompe funebri: «Questo milione l’ho raggranellato per comprarmi finalmente un vestito. Prenda, serve più a lei». Un gesto d’oro che non mi sarei mai aspettato. Cominciavo a vacillare, avevo freddo. Non so quale gruppo per le pulizie si era fatto avanti e nettava alla meglio la chiesa. I coniugi Duni, amici provvidenti, mi trascinarono via. Sul sofà della loro cantinetta, tiratomi addosso un plaid, affondai in un sonno minerale. Mi svegliarono che era buio. Non volli cenare. Mi riportarono a casa insonnolito.
Domenica 8 maggio, quinta di Pasqua per la Liturgia, mi fu di consolazione la Messa “grande” delle dieci, ritrovandomi, con il “pusillus grex” affidato alle mie cure, a condividere Parola ed Eucarestia. L’antifona d’ingresso recitava: «Cantate al Signore un canto nuovo,/perché ha compiuto prodigi;/a tutti i popoli ha rivelato la salvezza./Alleluia». A mezzogiorno, il garzone di una macelleria mi recapitò un’enorme misura di carne, commessa malavitosa che respinsi. Nel pomeriggio il cardinale Michele Giordano, Arcivescovo di Napoli, ex di Matera, m’intrattenne a lungo al telefono. Era preoccupato che con padre Severino Donadoni continuassi ad abitare a pianterreno nella vecchia canonica. Non immaginavo quanto avrei patito, pochi anni dopo, per averlo difeso, solo solo, anche nel clero materano, dall’accusa fuori luogo contestatagli da un Procuratore di Lagonegro! Invitato da don Giovanni Mele, celebrai la Messa vespertina nella Parrocchia di Piccianello che raggiunsi steso sul fondo dell’automezzo parrocchiale. Questo mi aveva imposto l’autista volenteroso ma terrorizzato dall’idea di essere visto con me. Tornai a Sant’Agnese che Mons. Antonio Ciliberti era alla fine della Messa vespertina. Mi rimproverò l’assenza non giustificata dall’impegno preso in antecedenza.
I giorni tra il 9 e il 12 maggio, piazza Sant’Agnese fu ingombrata dai furgoni e dalle strumentazioni dei canali televisivi nazionali. Lunedì sera comparvi al centro della trasmissione “Mi manda Lubrano” insieme agli abitanti di Agna e Cappuccini che mi facevano ala. Mio fratello Gigi mi telefonò di farla finita (“desmèt”: smettila) con la comunicazione sociale, quasi dipendesse da me. Gli risposi piccato: «Non sei tu che mi devi consigliare». Maggiore, temeva per me, gli chiedo perdono. I giorni seguenti fui a disposizione dei giornalisti di “Unomattina”. Al congedo qualcuno mi consigliò: «Adesso compri una pistola». Venerdì, finalmente solo, mi posi il problema delle riparazioni. Non contavo sulle collette che senza il mio consenso avevano avviato più persone fra le quali non mancarono profittatori. Avevo in mano soltanto alcune oblazioni straordinarie tutt’altro che bastanti a intervenire in maniera risolutiva. Che fare?
Un amico, della consorteria che mesi prima mi aveva messo in croce in seguito a un’intervista da me fatta a Egidio Tamburrino, il massimo imprenditore edile della città, invidiatissimo, per conto del settimanale “Città domani”, mi soffiò con un pizzico di malignità: «Ora non ti resta che chiamare quello». Replicai: «L’hai detto». Indimenticabile l’incontro con l’innominato che, grazie a una solerte mediatrice, si presentò all’istante. Al centro della navata, con semplicità e commozione, io: «Tamburrino, lei, deve aggiustare, gratis»; capo chino, gli occhi inumiditi, lui: «Le mando una squadra». L’indomani, diretti dal leggendario “Mest” Cosimo della COGEM, sei operai erano all’opera. In trenta giorni ripristinarono Sant’Agnese, dentro, fuori, perfino il tetto che era stato scosso, non lesinando sui materiali costosi, sul rame e su vernici particolari. Ai banchi provvidi con la liquidazione di padre Severino che restituii prelevando da casa mia.
Per sei mesi la Prefettura mi assegnò una scorta. Piazza Sant’Agnese, dietro disposizione della Questura, fu considerata punto sensibile, ma non mancarono periodici dispetti malavitosi: lettere anonime di cui una minacciava mia madre («Sappiamo dove trovarla»); ordinazioni a mio nome di cassette di vini e scatole di “lingerie”; un pacchetto confezionato alla perfezione con il mittente della Consulta Nazionale delle Fondazioni, contenuto molle, irriferibile; un teschio nel cortile; l’ossame bovino, chissà quando e come issato a colmare l’intera veranda di 30 mq davanti alle portefinestre delle camere da letto; il catrame lanciato sul davanzale della stessa per localizzare dove dormivo. I disturbi sarebbero cessati solo a fine settembre del 1998, quando un maresciallo dalla Procura materana mi consegnò un improvvido avviso di garanzia.
Maturava l’idea di trasformare in Fondazione il Comitato Lucano Antiusura sorto il 21 gennaio 1994, a opera di Angelo Festa, responsabile dell’Adiconsum lucana, di Severino Donadoni e di me, Padri Monfortani al servizio della Parrocchia di Sant’Agnese dal 1977. Il Prefetto, l’Arcivescovo e il Presidente della Camera di Commercio concordi caldeggiavano il progetto. L’attentato mi costrinse a mutare vita e cassò i progetti che vagheggiavo. Avevo quarantott’anni. Il poeta Borìs Pasternàk mi suggeriva: «E non devi recedere di un solo/briciolo della tua persona umana,/ma essere vivo, nient’altro che vivo/vivo e nient’altro fino alla fine».