Nel decreto sul lavoro del governo non c’è niente su salari, precarietà e sicurezza. L’effetto annuncio questa volta non funziona. Di seguito la nota integrale.
Una lunga fila di ministri guidati dalla Meloni per annunciare ben poco: cento milioni per un bonus una tantum a gennaio del 2025, la detassazione dei premi di produttività per il welfare aziendale e miliardi di sgravi per le aziende che assumono i giovani e le donne.
Nell’incontro che si è tenuto lunedì sera a Palazzo Chigi, il governo ha provato a condire la minestra con l’annuncio del decreto sui Fondi Coesione che modificherà la gestione – finora disastrosa – dei fondi europei e rinnovando l’annuncio (funesto) della prossima approvazione della riforma dell’IRPEF verso un sistema di aliquote ancora più piatto di quello in essere.
Alla vigilia del Primo Maggio la delegazione dell’USB ha segnalato che la fretta di dare l’annuncio di un decreto sul lavoro poteva essere giustificata solo dalla notizia che finalmente il governo si fosse deciso ad intervenire sulle grandi priorità che oggi riguardano il mondo del lavoro e cioè i salari, la precarietà e la sicurezza. Ma su queste tre priorità non c’è assolutamente niente di significativo.
Sui salari il governo lamenta di non avere risorse per poter intervenire. Ma gli aumenti non li vogliamo dal governo – fatti salvi quelli dei dipendenti pubblici che si ritrovano davanti a rinnovi contrattuali che coprono appena un terzo dell’inflazione – li vogliamo dai padroni. E per questo il governo dovrebbe introdurre una legge sul salario minimo e ripristinare meccanismi di indicizzazione delle retribuzioni.
Sulla precarietà, sui tempi determinati senza causale, sul part time obbligatorio, il governo non ha niente da dire e circolano in questi giorni proposte di legge a firma Fratelli d’Italia che spingono per un’ulteriore liberalizzazione.
Sulla sicurezza pensano di aver risolto il problema con la patente a crediti e il riconoscimento della stessa retribuzione in tutta la filiera degli appalti, ignorando la proposta di legge sul reato di omicidio sul lavoro, la richiesta di rafforzare il ruolo degli RLS e le proposte di USB sul ripensamento del sistema degli appalti, a partire dalla ridiscussione della legge Biagi del 2003, da cui è partita la liberalizzazione di tutti questi anni.
Il governo Meloni è completamente subalterno alle richieste dei grandi gruppi industriali e bancari del Paese che in questi anni hanno lucrato dall’inflazione che, come oggi è risaputo e documentato, è una inflazione da profitti (e non certo da salari). E continua a far affluire risorse pubbliche nelle mani delle imprese, che è la stessa politica che ha contraddistinto i governi degli ultimi trent’anni: una politica che ha favorito la deindustrializzazione e l’impoverimento di massa.
A poco più di un mese dalle elezioni europee la Meloni ha provato a bissare l’operazione dello scorso anno, cogliendo l’attenzione che ad ogni Primo Maggio si registra sui temi del lavoro: l’anno scorso c’era il taglio del cuneo fiscale, discutibile ma capace di fare notizia. Quest’anno non c’è neanche quello, sul lavoro questo governo non sa più cosa dire.