Basilio Gavazzeni: “Appunti per la ritornante riflessione su cattolici e cultura”. Di seguito la nota integrale.
I
Si fa presto a dire cultura, ma cos’è? Nella seconda metà dell’Ottocento, alla definizione classica di cultura che privilegiava l’idea di un sapere alto, stampato, elitario, si è affiancata quella dell’antropologia culturale. Classica la definizione di E.B. Tylor (1832-1927) nel libro Cultura primitiva (1874): «…È quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società». Di questa concezione è debitrice la stessa Costituzione conciliare Gaudium et spes che alla cultura dedica il capitolo secondo (nn. 53-62). Impossibile non citare la definizione-concezione di cultura proposta nel 1985 in un Congresso Internazionale da J.M. Bergoglio futuro papa Francesco: «… Chiamiamo “cultura” il meglio dei popoli, il culmine della loro arte, il vertice della loro tecnica, ciò che permette alle loro organizzazioni politiche di perseguire il bene comune, alla loro filosofia di dare ragione del proprio essere, e alle loro religioni di legarsi al “trascendente”. Ma questa sapienza dell’uomo, che lo porta a giudicare e a ordinare la sua vita a partire dalla contemplazione, non si dà né in astratto, né individualmente, né istantaneamente: piuttosto, è contemplazione di ciò che si è lavorato con le mani, contemplazione che ha origine dal cuore e dalla memoria dei popoli; contemplazione che si fa attraverso la storia e in base al tempo».
II
Nessuno è monoculturale. Si nasce in una cultura, ma subito siamo raggiunti dalle culture altrui. A sette anni, di famiglia praticante e democristiana, litigavo con una coetanea di famiglia comunista e refrattaria alle cose chiesastiche. Qualche anno dopo, già seminarista e aggrappato a un libro, mi scontrai con un’altra coetanea che, con disprezzo, affermava che lei, i libri, li aveva dati «da mangiare alla mucca» (sic!): già lavorava con il padre, grande invalido, di sottobanco piccolo gioielliere. Oggi signoreggia una delle più rinomate gioiellerie di Bergamo bassa. In quegli anni, nelle prediche cui accorrevo avidamente, sul pulpito della chiesa parrocchiale gli oratori “sacri” non mancavano mai di scatenarsi contro un tal Voltaire di cui più tardi conobbi i vili e malefici attacchi alla Chiesa. Insomma, in maniera sia pure minimalissima, fin dalla fanciullezza, percepii che oltre la mia c’erano le culture comunista, del commerciante e laicista e, in qualche modo, ne rimasi influenzato. Oggi, pur fedele a una precisa visione culturale, sono come tutti un autobus di culture.
III
Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, concludendo l’introduzione ai lavori della 79ₐ Assemblea generale dei vescovi, ha affermato che la Chiesa deve «fare i conti con la cultura nel suo insieme», tanto con le élite culturali laiche che con la dominante cultura di massa. Oggi abbiamo di fronte un mondo sociale «molto più estesamente scolarizzato e acculturato» che cinquant’anni fa. «Nonostante l’originalità e la determinazione di papa Francesco dobbiamo chiederci se non pecchiamo di “timidezze” e di mancanza di “fantasia creativa” in ambito culturale». Non rendere vivo e attuale il messaggio cristiano è una grave omissione. Vangelo e cultura sono reciprocamente necessarie. Dal canto suo la Chiesa «deve aiutare la discussione critica delle ideologie, dei miti, degli stili di vita, dell’etica e dell’estetica dominanti». Senza dubbio il cardinale Zuppi ha raccolto in pochi righi le analisi, i suggerimenti e le attese che da settimane affluiscono in “Avvenire” su cattolicesimo e cultura. Nella scia dei rompighiaccio Pierangelo Sequeri e Roberto Righetto, finora si sono inseriti con pertinenti riflessioni diciotto opinionisti di vaglia. È sicuro che si sono letti fra loro, ma quanti cattolici li hanno letti? quanti presbiteri? – sono irriverente – quanti vescovi?
IV
Nello stesso numero di “Avvenire” che ha divulgato il documento di Zuppi, il filosofo Massimo Cacciari esprime il parere che cultura cattolica e cultura laica, plurali in se stesse e talvolta antitetiche, devono interrogarsi sulle crisi epocali che attraversiamo. «Siamo in una situazione geopolitica che induce a ripensare intere storie, tradizioni, visioni del mondo. Siamo a una svolta d’epoca che potrebbe anche esprimersi in una catastrofe». Cacciari rileva che la Chiesa «non è più di fronte a un ateismo militante, ma a un’indifferenza radicale. Non si trova più di fronte a un Nietzsche che dice “Dio è morto” ma a chi dice “di Dio che me ne importa?”». Analogamente il non-credente pensante, che non crede in un ente trascendente, ma dovrebbe «credere al carattere trascendente della propria coscienza», dove è finito? Cacciari constata per ambedue le culture: « È la domanda di trascendenza che è stata acquietata». L’Europa presa dalla secolarizzazione non ha coscienza di sé, «si muove solo sul piano della totale immanenza mercantile» che, ovviamente, manda a fondo i deboli. «A questo punto è chiaro che la Chiesa deve insorgere. Così trova vicino a sé un pensiero laico radicalmente libero». Ma Cacciari deve ammettere che «entrambi non vengono ascoltati». Ribadisce, strenuo: «… Il pensiero è pensiero quando è segno di contraddizione e la Chiesa è Chiesa quando è segno di contraddizione».
V
Mi sono sempre interessato di cultura. Ripesco fra le mie carte disordinate un piccolo saggio intitolato “La questione della cultura cristiana” pubblicatomi nel 1976 dalla rivista interna del mio gruppo religioso. Si era verificata la clamorosa vittoria elettorale del PCI. Gaspare Barbiellini Amidei a luglio aveva pubblicato sul Corrierone nazionale l’articolo d’inciampo: «I cervelli senza cultura sconfitti il 20 giugno», accendendo negli accampamenti cattolici, laici (-sti) e marxisti tutto un fuoco di reazioni e controreazioni. Il mio saggio di diciassette pagine, scritto a trentun anni nei Quartieri Spagnoli di Napoli dove lavoravo, patendo limiti di tempo, luogo, esperienza e documentazione, non è male. Vi scorgo dell’attualità anche se consapevole delle faglie che si interpongono fra quell’anno di quarantottanni fa e il 2024. Per esempio ritengo di intramontata valenza il criterio “cristonomico” che il filosofo Italo Mancini indicava alla cultura cristiana. Val la pena riportare il nucleo della sua teorizzazione che citavo: «Come Cristo fatto uomo la cultura cristiana deve incarnarsi nel mondo, deve prendere corpo, forma, base biologica, nuovo sensorio, dimensione storica, invenzione inedita. Come Cristo crocifisso, la cultura cristiana deve resistere al mondo, attuare l’arte del sospetto e la scuola della diffidenza, rappresentando un perenne giudizio critico, mettere in attivo processi biologico-politici, come l’abbandono e lo svuotamento, deve progressivamente demondanizzarsi e rappresentare per il mondo stesso una riserva (luogo da cui attingere) critica, e per la sua teoria sociale la forza perennemente alternativa, tenendo desta la rappresentazione non utopica, ma basata sulla promessa di Dio di una patria sempre intravista e mai posseduta. Come Cristo risorto, la cultura cristiana deve aiutare il mondo a rigenerarsi, ad attuare prassi di liberazione, al di là delle realizzazioni che sono sempre mortificanti; una dottrina tra le altre, ma soteria, introiezione quasi istituale di fermenti contro ciò che è mortificante, alienante, oppressivo». Ammirevole l’effervescenza teorizzante del filosofo di Urbino Italo esaltata dall’estro onomaturgico. Non è proprio quel che propongono il cardinale Zuppi e il filosofo Cacciari, rispettivamente evocando militanza e insurrezione?
Matera 6 giugno 2024