Basilio Gavazzeni: Sei regole di vita secondo Josif Brodskij. Di seguito la nota integrale.
Poiché sopporto felicemente la calura, dopo pranzo, rovisto nella cassapanca cui ho affidato gli articoli pubblicati qua e là dal 1978, anno del mio approdo a Matera. Ho l’impressione che ne siano andati perduti alcuni che ritenevo importanti, altri che sono presenti non li ricordavo più. A rileggere cose che ho scritto quarant’anni fa constato che mi conduceva la stessa “curiositas” di oggi e la penna non era granché diversa.
Eccone uno di cui la fotocopia non ha tenuto conto della data. I lettori mi permettano di riproporne la sostanza. Riferisce le sei regole per la vita che, in una festa di laurea, Josif Brodskij propose agli studenti dell’ Università del Michigan, ad Ann Arbor, affinché imparassero a «succhiare il midollo stesso della vita» come l’insegnante di letteratura inglese erudiva gli alunni in Dead Poets Society ( L’attimo fuggente) di Peter Weir.
Il poeta russo, Nobel della letteratura nel 1987, esordiva affermando che «la vita è uno sport con molte regole, ma senza un arbitro». S’impara più guardando dagli spalti che dai libri. Chiedeva ai neolaureati sul punto di intraprendere il viaggio esistenziale di far cantare alla memoria i dieci comandamenti e i sette vizi capitali: «Posso soltanto sperare che alla distanza uno se la cavi meglio facendosi guidare da regole e tabù dettati da un essere totalmente impalpabile, piuttosto che da un qualsiasi moderatore».
Il poeta si domandava se avesse un viatico da porgere a quei giovani e quale fosse il modo migliore per trasmetterglielo. Dichiarava che un uomo maturo come lui, deluso da molte cose sulle quali potevano avventarsi gli appetiti dei principianti della vita, non doveva, tuttavia, cedere all’ironia nei confronti della loro generazione. Riconosceva di non essere Mosè sul Sinai e che loro non erano gli Ebrei dell’Esodo. Avrebbe, però, provato a sussurrare loro qualcosa. Sarebbe stato felice se l’avessero accolto. Altrimenti, assicurava, «la sua collera non sarebbe scesa su di loro». Brodskij, quindi, passava a suggerire sei regole di vita.
La prima: i ragazzi si costruissero un vocabolario ampio e preciso e lo trattassero come un conto corrente, perché «l’espressione resta indietro rispetto all’esperienza»: centinaia di pensieri e sensazioni pulsano in una giornata, ma il linguaggio si adagia in una inveterata immobilità.
Seconda regola: «cercate di essere buoni con i vostri genitori». I genitori, di solito, muoiono prima dei figli, «i vostri genitori, con ogni probabilità, vi lasceranno eredi di tutto quel che hanno […]».
Terza regola: non bisogna contare sulla politica. «Il mondo non è perfetto: l’età dell’oro non c’è mai stata, non ci sarà mai». La circonferenza della torta-mondo da spartire non è cresciuta in maniera proporzionale all’incremento delle bocche. Bisogna imparare a contare sulla propria cucina e a gestire il frammento di mondo che è disponibile.
Quarta regola: «cercate di essere modesti». Già è fatale che ci si pesti i piedi, perché, allora, montare sulle spalle degli altri? In basso e in alto, lo spettacolo umano non varia. È meglio confondersi nella moltitudine. «Il mimetismo è la difesa dell’individualità, non è una sua capitolazione». C’è sempre un prossimo da non tormentare, «cercate di pestargli i piedi con delicatezza; e se dovesse accadervi di desiderare la moglie altrui ricordate che questo dimostra la vostra mancanza di immaginazione, dimostra che di fronte all’illimitato potenziale della realtà siete increduli o ignoranti […]».
Quinta regola: «cercate di sfuggire, a ogni costo, alla tentazione di conferirvi il diploma di vittime». Bisogna frenare la vocazione accusatoria dell’indice. «Per quanto abominevole possa essere la vostra posizione, cercate di non incolpare qualcuno o qualcosa […]».
Sesta regola: «cercate di non badare troppo a quelli che tenteranno di rendervi la vita impossibile […] come a un incrocio, tirate avanti e correte via: trattateli come fossero semafori gialli, non rossi […] non occupatevi di loro, mentalmente o verbalmente […]».
Questa la lezione di vita impartita da Brodskij agli studenti del suo “campus” nel Michigan che compendiavo nell’articolo di non so quale anno prelevato dalla mia cassapanca. Altri Maestri probabilmente, in quella stagione, sciorinavano moralità più vistose, anzi folgoranti. Non so se, all’Università di Ann Arbor, i giovani uditori balzarono sui banchi gridando: «O capitano! Mio capitano!».
Minimalista, perché voleva far l’americano, Josif Brodskij? Non dimentichiamo che il grande poeta per anni aveva sperimentato le crudezze di un gulag. Riassumo: l’“understatement” in apparenza esopico delle regole che inculcava era un incitamento a fare incetta il più possibile di parole, a onorare il padre e la madre, a contare sanamente su di sé, a non fare i piagnoni, ad amministrare con avvedutezza i rapporti con il prossimo. Ce ne vorrebbero in giro di uomini e donne contrassegnati da questa pacifica e operosa “aurea mediocritas”, locuzione che è da interpretarsi come l’intendeva Q.Orazio Flacco che la coniò (Carmina 2,5,10). La mediocrità non c’entra nulla. Gli studenti della maturità sanno che «auream mediocritatem diligere» significa «amare la preziosa moderazione». Che consentì al lucano Orazio e al russo Brodskij di divenire grandi uomini prima che sommi poeti.