Basilio Gavazzeni: “Lucrezio: pietas contro superstitio”. Di seguito la nota integrale.
Ma nulla è più dolce (dulcius) che abitare gli elevati templi sereni/saldamente fortificati dei sapienti […], contemplando le disavventure di chi è impeciato negli affanni della vita e nella errante e vana ricerca di successi, e facendo esperienza del vero piacere (tre volte definito suave, infine dulcius) che per la dottrina epicurea era il valore primario. Lo sostiene il poeta Lucrezio – il più grande fra i latini secondo Josif Brodskij – nel prologo del libro secondo (vv.1-13) del De rerum natura. Su questo capolavoro ritorna Ivano Dionigi (L’Apocalisse di Lucrezio Politica Religione Amore, Raffaele Cortina Editore, 2023). Perché il lettore possa conoscere qualcosa di Lucrezio, mi soffermo sulla sua posizione contro la religione che il latinista espone con prezioso rigore (cfr 4, Il grande imbroglio, pp. 67-86).
Lucrezio si propose anzitutto di sciogliere l’animo dagli stretti nodi della religione (4,6-7). Tre tipologie di religione erano note ai Greci e ai Latini: la mitica (fabulosa) dei poeti; la cosmica (naturalis) dei filosofi; la politica (civilis) normata dallo Stato. Quando Cicerone dichiarava i Romani superiori a tutti i popoli per la devozione e il culto, si riferiva a questa tipologia. La religione romana era pubblica e politica. Per il principio della pace con gli dèi (pax deorum), si riteneva che la salvezza dello Stato fosse tutt’uno col rispetto della religione. L’omissione del culto era un crimine politico. Era una religio senza pietas, una devozione senza fede, ma prescritta. Per questo il Cristianesimo, non riconoscendone gli dèi, verrà considerata religio illicita, contro la legge.
Per Lucrezio, l’imperante e totalizzante religio civilis è un mostro da abbattere. Religio e superstitio sono la stessa cosa. Pensa egualmente della religione mitica che terrorizza gli insipienti con l’oltremondo dell’Acheronte: l’Inferno è l’aldiquà, la vita stolta (3,1023) – sostiene lui. E parimenti della religione naturale fondata sulla ignorantia causarum. Perfetta la formula con la quale Petronio ricapitolerà l’accoppiata paura-religione denunciata da Lucrezio: Fu la paura per prima nel mondo a creare gli dèi (primus in orbe deos fecit timor).
Ma è contro la religio civilis che Lucrezio mette a segno i colpi più efficaci. È falsa, inutile. Un comandante e la sua flotta non colano a picco nonostante le implorazioni innalzate al cielo (5,1226-1232)? Quando la peste infuria i santuari non rigurgitano di cadaveri (6,1276-1277)? Soprattutto è criminale: non risparmia né animali né umani. Scuote il quadro della giovenca alla ricerca del vitellino ignorando che è stato mactatus sull’altare (2,352-366); più ancora quello di Ifigenia immolata dal padre Agamennone perché Artemide con una tempesta continua a impedire agli Achei la partenza per Troia: un orrendo sacrificio per passare al delitto peggiore della guerra (1,84-100). Lucrezio incide: A così grandi mali poté indurre la religione (1,101: Tantum religio potuit suadere malorum): un verso imperituro per Voltaire.
Vera pietas per Lucrezio è poter guardare (….) tutto (omnia) con mente tranquilla (pacata mente). Lucrezio, iconoclasta e dissacrante, non solo oltrepassa il maestro Epicuro riformatore e sostanzialmente devoto, ma, identificando la pietas con la vista del pensiero, con la contemplazione (theoría), supera i pensatori che prima di lui l’hanno tematizzata, rivendicandone il primato. Il cristiano Lattanzio che ne utilizzerà i versi 5,1198-1202 in funzione antipagana e anti-idolatrica, ometterà il verso 1203 (pacata posse omnia mente tueri) dimostrando – glossa Ivano Dionigi – tutto il suo imbarazzo e anche settarismo di fronte a tanta novità e nobiltà pagana. Lo studioso, esperto anche di teologia, vi trova invece consonanze con Giovanni 4, 21 e 23 e con l’Antico Testamento, Primo Libro dei Re 19, 11-13, e conclude che le corrispondenze tra Epicureismo e Cristianesimo sarebbero da studiare.
Non dimentichiamo che Voltaire – oh meraviglia! – nel 1748, recensendo l’Anti-Lucretius di Polignac, fece pronunciare a Epicuro queste parole: Se avessi avuto anch’io la fortuna di conoscere il vero Dio, di essere nato anch’io con una religione pura e santa, non avrei certo rifiutato questo Dio rivelato […], la cui morale era nel mio cuore. Non ho potuto accettare gli dèi pagani […] ho distrutto i falsi dèi e se fossi vissuto con voi avrei conosciuto quello vero. Parole che il patriarca dell’Illuminismo avrebbe potuto affidare anche alla bocca del poeta del De rerum natura.
Nell’Appendice Ivano Dionigi mostra le sorprendenti affinità che intercorrono fra le vite di Lucrezio e di Dante, fra il De rerum natura e la Commedia. Entrambi poeti stranieri in Patria, poeti di cose grandiose (res magnae) e cose inaudite (res novae), poeti della conoscenza, poeti della luce, poeti la cui visione spinse a supplire alla povertà delle loro lingue forgiando parole originali e facendo lievitare forme stilistiche preesistenti.
Di Lucrezio sappiamo che visse nei giorni di Cesare e morì quarantaquattrenne nel 53 a.C., suicida dopo aver bevuto un filtro d’amore, secondo la falsa testimonianza di san Girolamo. Nel quinto secolo il suo capolavoro scomparve per più di un millennio e riapparve nell’inverno del 1417 quando, nell’abbazia di San Gallo in Svizzera, le mani dell’umanista Poggio Bracciolini, commosse, ne recuperarono al mondo il codice ammuffito e fu riudita quella voce solitaria che un tempo assai più lontano era suonata nel vigile silenzio delle notti serene (1,140-142) (Enzio Cetrangolo).