Consigliere comunale Pasquale Doria (Matera Civica): “Più autonomia, meno separazioni: la Basilicata esiste e resiste”. Di seguito la nota integrale.
La Terra d’Otranto è davvero distante, oltre 360 anni luce verrebbe da dire. Lontanissima da quel 1663 in cui mutò il destino geografico, e non solo, di una sua piccola frazione di territorio, tutta circoscritta nella municipalità della città di Matera. Senza turbare troppo la storia, la misura del tempo e delle sue accelerazioni non consentono oscillazioni orientate a ripercorrere nostalgiche traiettorie in direzione di un mondo che non esiste più. Intanto, non siamo stati neppure in passato completamente assimilabili alla Terra di Bari, questa sembra la ipotizzata direzione di marcia attuale. Era effettivamente la dorsale Bradanico-Salentina la nostra remota radice proiettata direttamente dalla subregione della Murgia in direzione della Iapigia Messapica, la circoscrizione amministrativa del Giustizierato Normanno-Svevo disegnata da Federico II sulla base dei vecchi confini bizantini. Un fitto asse di scambi, non solo commerciali, quanto innervato da pratiche mature entro un vasto bacino di culture e di millenarie civiltà scandite dalle pietre miliari della regina delle vie, l’Appia.
Tutto finito. Di più, lì dove è riapparsa in un drammatico teatro di guerra, non può non risultare oltremodo divisiva la trita retorica delle primigenie patrie. L’attuale scenario internazionale è tragico maestro. Il discorso vale per tutte le pratiche del rivendicazionismo e “secessioniste”, a cominciare da quelle agitate dall’autonomia differenziata. Ma la differenza di ché?
L’epilogo della vicenda non è tuttavia a portata di mano, perché se da una parte le questioni in punta di diritto continuano a dimostrarsi complesse rispetto ad un percorso per niente scontato, dall’altra non si registrano chissà quali reazioni sul versante pugliese. Possiamo ammettere una mini secessione senza particolari limiti e condizioni, per il semplice fatto che una certa parte di una comunità organizzata la voglia? Solo immaginando una vaga meta, poi, chi potrà costringerci a salire su un treno senza conoscere la destinazione e dove questo sia realmente diretto?
Se non è difficile cogliere una certa volontà provocatoria, quasi un sondaggio preventivo,
ammettere acriticamente una separazione per aggregazione, alimentare una temeraria volontà divisoria significa aprire la strada a forme di disgregazione progressive. Regressioni che potenzialmente possono spingersi all’infinito, sino a rompere qualsiasi legame comunitario, specialmente in una realtà cittadina che in questo momento appare più frantumata che mai. Il rischio di balcanizzazione non è remoto, tanto più che il discorso vale per tutte le istanze “separatiste” che si aggirano in Basilicata, pensiamo a chi guarda al Cilento, oppure ai comuni dell’alto Jonio, direzione Calabria e Taranto. Un orizzonte denso di individualismi territoriali che avrebbero senso come metodo per capire ed organizzare al meglio la convivenza, non come fine ad essa contrario. E non c’entra nulla l’autodeterminazione dei popoli. Chiedere di essere annessi, nel migliore dei casi, provoca instabilità e incertezza nella vita di realtà organizzate, impegnate nella affannosa, continua ricerca di stabilità e certezza quali presupposti imprescindibili di libertà e progresso. Non è remoto poi, nel quadro di nuove aggregazioni, il rischio che le comunità più ricche siano indotte a promuovere il proprio sviluppo con l’effetto deleterio di impoverire ulteriormente le aree meno popolate e facoltose, gettando così le basi per nuovi conflitti e impedire programmi di sviluppo locali da cui già a breve termine tutti avrebbero qualcosa da perdere.
Più coraggiosa è invece la puntuale denuncia di allarmanti derive centralistiche regionali, chiaramente illiberali e foriere di disfunzioni strutturali a detrimento delle istituzioni democratiche. Ma come districarsi da torsioni campanilistiche, da curvature tifose se non procedendo dai problemi alle soluzioni valide in una dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, puntando più che mai alle combinazioni di prosperità economica, efficienza governativa e compromesso sociale?
Liberandosi da una fatale coincidenza di sopravvalutazioni e sottovalutazioni, è più urgente che mai attuare pratiche democratiche come stile di vita, un habitus democratico irrinunciabile che possa mitigare contrapposte pulsioni in un territorio il cui futuro sia meno incognito. Per comprendere fino in fondo il film della nostra storia è necessario sbobinare dagli ultimi fotogrammi, citazione di Marc Bloch, fucilato ottanta anni fa dai nazisti dopo tre lunghi mesi di torture. Gli ultimi fotogrammi negano la transizione a un sistema politico innervato da autonomie locali radicate nei territori, come quelle comunali e provinciali, finalmente dotate di potere politico e finanziario per essere innovative e competitive. Una prospettiva di dinamiche connessioni che appare molto più promettente con l’istituzione di una terza provincia in una dimensione di reciprocità, riconoscimento frutto di una continua interazione tra la realtà materiale e gli incessanti radicali cambiamenti in corso.
Le trasformazioni non avvengono con la bacchetta magica. Molto meglio non sopraffarsi per sostenersi a vicenda. Occorre più vicinanza ai cittadini, ne abbiamo davvero bisogno. La Regione non diventi istituzione sempre più lontana come in effetti lo è la Terra d’Otranto. Con l’auspicio che una responsabile comunità all’altezza delle sfide locali decida di andare oltre il semplice rispecchiamento delle fratture territoriali, ma solo per spingersi convintamente più in là, esistere, resistere nello spazio e nel tempo.