Sabato 14 dicembre nel Polo Bibliotecario di Potenza si è svolto un incontro dibattito sul tema dei linguaggi simbolici utilizzati dalla mafia dal titolo “La mafia e i suoi linguaggi”, su iniziativa dell’associazione “Primavera Lucana”. Di seguito l’intervento di Leonardo Pinto.
Mi è stato chiesto, come può don Marcello Cozzi parlare contro la mafia dopo essere stato condannato in via definitiva per diffamazione? Ho risposto che non vi è alcuna incompatibilità, spiegandone i motivi, che ritengo ribadire con il presente intervento, essendo da sempre interessato alla necessità della cultura della legalità nella ns. regione, sorretta dal buon funzionamento degli Uffici Giudiziari che deve consentire la celebrazione dei processi e non la prescrizione, oltre che la durata ragionevole delle cause civili che a volte si protraggono stancamente 20-30 anni.
Premetto di non essere l’avvocato di don Cozzi, né lo sono mai stato, di cui seguo da anni l’impegno per l’affermazione della legalità in Lucania, afflitta da zone d’ombra che celano incompatibilità ambientali e funzionali, oltre che conflitti di interessi, cui vanno aggiunte sottovalutazioni di fenomeni criminosi non solo di delinquenza comune.
Ho ritenuto, pertanto, spiegare -senza essere sollecitato dal diretto interessato, lo ribadisco- che la Cassazione ha confermato una sentenza di condanna civile, non penale, che prevede il pagamento di una somma, a titolo risarcitorio per diffamazione, in favore di Michele Cannizzaro, ex direttore generale del San Carlo di Potenza, marito di Felicia Genovese, PM titolare delle indagini della morte della povera Elisa Claps. Ho spiegato qual è l’oggetto della diffamazione sotto il profilo penale, completamente estraneo alle fattispecie dei delitti contro la personalità dello Stato, la pubblica Amministrazione, l’ordine pubblico, cioè di quei reati che possano comportare eventuali incompatibilità o ragioni di opportunità a non occuparsi di legalità. Chiarendo e ribadendo che, tuttavia, non si tratta di condanna penale, ma di condanna civile a risarcire, cioè a pagare una determinata somma.
Ho letto i motivi della conferma della condanna; uno di essi mi ha colpito; secondo la Cassazione, don Marcello nel manifestare le sue critiche, non ha mai fatto richiamo al suo ruolo di ministro di culto, bensì a quello di rappresentante dell’Associazione Libera e che, in ogni caso, “né nell’una, né nell’altra veste, si potrebbe ritenere che la redazione dell’articolo in questione possa ritenersi scriminata”.
Per le mie non brevi esperienze professionali, impegnato anche in più e delicati processi penali, che hanno riguardato le vicende di “Toghe Lucane”, che ben conosco e tutt’altro che chiarite, sorgono perplessità sulla conferma della sentenza a carico di don Cozzi, anche in considerazione della giurisprudenza della CEDU in materia di diffamazione a mezzo stampa.
Infatti, ho letto l’articolo censurato; francamente, mi pare si tratti di un’appassionata requisitoria di un sacerdote impegnato sul piano etico contro omertà, omissioni, ritardi.
Come noto, le sentenze si rispettano ma non è vietato criticarle, né dissentire da esse.
Orbene, come noto a livello nazionale, don Marcello è uomo di fede, impegnato quotidianamente nella missione pastorale e nella lotta per la legalità, la verità e la giustizia.
Anche nell’intervento che ha svolto sabato scorso, si colgono frasi che vanno in tale direzione, tese a svegliare le coscienze dei Lucani, afflitte dalle peggiori patologie sociali: l’indifferenza e la rassegnazione; humus ideale del sistema mafioso. Ed ha ragione; ha infatti affermato «Quelli che ti mandano a dire certe cose dovrebbero avere la capacità di metterci la faccia, ma non ce la mettono perché in effetti hanno paura delle loro bassezze».
Altra «paura» confessata è stata quella della “mafia negata”. Riferimento ai tanti processi lucani che si sono arenati nel tentativo di provare la mafiosità di una serie di condotte e di personaggi della malavita locale e della zona grigia sopra di loro: medici, commercialisti, avvocati, editori ecc… Ha aggiunto «Mi fa paura quando la mafia non si chiama mafia», «E mi fa paura quel diffuso atteggiamento servile nei confronti dei grandi potenti.
[19:39, 17/12/2024] SassiLive MicheleCapolupo: Non mi fanno paura i padroni, mi fanno paura i servizi».
Il neo procuratore di Catania, Francesco Curcio, da par suo, ha spiegato che la mafia oggi -per radicarsi- usa le parole per fare paura e che spesso non ha bisogno della violenza per imporsi; questo fa pensare -ha sottolineato- ad una opportuna rivisitazione dell’art.416 bis cp, che punisce i sodalizi e le condotte mafiose, nel senso appunto che va valutato il linguaggio usato per sottomettere l’altrui volontà ad interessi illeciti di gruppi malavitosi organizzati.
Quella di sabato è stata un’importante iniziativa che, per affrancare i Lucani da soggezioni politiche fallimentari che ne hanno impedito la crescita socio-economica, dev’essere seguita da altra tesa a fare chiarezza sui conflitti di interessi soprattutto in ambito della sanità pubblica, estrazioni petrolifere e più in generale della Pubblica Amministrazione.