Giovanni Caserta ha inviato una note per porgere i suoi saluti a Monsignor Pino Caiazzo, che lascia la diocesi di Matera-Irsina per trasferirsi alla diocesi di Cesena-Sarsina, che guiderà dal prossimo 15 marzo. Di seguito la nota integrale.
Non ho avuto incontri diretti con il vescovo Giuseppe Caiazzo, che ora, dopo nove anni di vescovado a Matera, lascia la nostra città per raggiungere la diocesi di Cesena-Sarsina, nella terra di Giovanni Pascoli, a suo tempo docente di latino e greco a Matera. Ho però avuto con lui incontri, per dir così, paralleli e trasversali. Era arrivato a Matera dalla Calabria, terra non meno problematica della nostra, e spesso tragica. Lasciava da parroco Crotone; la lasciava col titolo di “don Pino”, che volle gli rimanesse. Voleva dire che, nel suo modo d’ essere e credere, il vescovo doveva rimanere parroco. Forse papa Francesco stesso, con quel nome che si è dato, ha voluto lui pure essere parroco. Avevo di don Pino queste notizie, quando, in omaggio, gli portai il mio volume fresco di stampa, Materani in trincera, dedicato alla prima guerra mondiale, come fu vista e vissuta da Matera, ma anche come fu direttamente vissuta da un altro parroco, materano, particolarmente attivo anche lui. Cappellano militare durante quella guerra, sulla guerra e sui suoi morti versò lacrime, pur tra contraddizioni patriottiche e nazionalistiche, legate alla retorica del tempo. In Padre Marcello Morelli – questo il nome del parroco materano – sussisteva ancora la distinzione tra guerra giusta e guerra non giusta. Quando si ebbe la presentazione di Materani in trincera, emerse invece, chiara, la condanna da parte di don Pino, e da parte mia, di ogni genere di guerra, sia che la si voglia chiamare di difesa, sia che la si voglia chiamare di aggressione. Negli anni successivi don Pino lo si è visto sempre presente nelle vertenze di natura sociale, e sempre a difesa degli ultimi, per questioni di generale interesse locale, ma anche nazionale e internazionale. Erano vicende che riguardavano il mondo del lavoro e dei lavoratori, o la sanità, o i trasporti, o l’accoglienza, o i migranti, o l’ autonomia differenziata, su cui vescovi di altre regioni potevano e possono avere posizione favorevole, diversa dalla sua. E’ stato accanto alla Associazione “Matera ferrovia nazionale” e accanto all’ANSB, nella lotta per la difesa della salute dei cittadini e dell‘ambiente, anche contro le ecomafie, dovunque si accampassero. Personalmente voglio ricordare una felice, emblematica coincidenza. Da sempre, anche quando a Matera si celebravano i fasti della sua nomina a capitale europea della cultura, da sempre – dicevo – i rimase il cruccio dell’abbandono della Ferrosud, ridotta a 45-50 dipendenti, addetti, ormai, alla sola vigilanza di macchine e capannoni abbandonati. Al punto di confluenza di tre importanti comuni – Matera, Altamura e Santeramo -, a cavallo tra regione Puglia e regione Lucania Basilicata, quella fabbrica aveva dato lavoro e pane a ben 800 addetti, cioè a 800 famiglie. Mi sorreggeva la CGIL di Eustachio Nicoletti. Al tempo in cui si parlava della “via della seta”, un po’ provocatoriamente, sicuramente con rabbia e nettezza, in data 1° aprile 2019, scrivendo, mi augurai che i cinesi venissero a prendersi la Ferrosud. Se fosse accaduto, conclusi retoricamente, avrei detto “Benedetto Confucio”, non potendo dire “Benedetto Iddio”. Il mio intervento, mi riferirono, fotocopiato, era stato esposto in una delle bacheche della fabbrica. Si avvicinava Pasqua. Non so se devo parlare di coincidenza o di altro. Certamente fu una felice decisione quella di don Pino, che volle celebrare la Santa Pasqua nella fabbrica semiabbandonata della Ferrosud. Durante la predica e la Messa, alla quale assistei, nella sua omelia di solidarietà a tutti i senza-lavoro, don Pino proclamò che, per lui, quel giorno, la fabbrica Ferrosud era la “sua” Cattedrale. Fu in quella circostanza che gli regalai un libro, in cui, curato da me, si parlava delle battaglie condotte da Vito Marcantonio, un lucano emigrato in America, originario di Picerno, che, diventato deputato nel Parlamento americano, si era votato, fino alla morte, alla difesa delle minoranze nere e messicane del Bronx.18:19
Perseguitato come comunista, sotto la camicia, da morto, gli trovarono la medaglietta di santa Francesca Cabrini, protettrice degli emigrati. C’è di fatto che, oggi, la Ferrosud, rilevata da altra fabbrica, la Mermec, fa sperare in una straordinaria ripresa, a vantaggio delle popolose comunità che le gravitano intorno. Don Pino se ne va e lascia un affettuoso ricordo di sé. Ci viene da pensare che, se tutti i cattolici avessero accettato il principio della guerra che mai è giusta, come per tre anni inutilmente ha predicato papa Francesco, oggi non avremmo i morti d’Israele, i 45.000 morti di una Palestina fatta deserto, e non avremmo una Ucraina non libera, ma schiava di un Trump, cui è costretta a cedere terre cui non ha alcun diritto. Paradossalmente, potrebbe averne Putin. In Ucraina, come la Palestina, fatta deserto, c’è oggi chi conta, come del resto in Russia, un milione di soldati morti giovani, a volte, appena adolescenti. Mancano uomini per coltivare i campi e riempirli di grano e girasoli, prodotti anche per noi, stupidi europei, che, fornendo armi che potevano diventare pane, scuole e ospedali, abbiamo contribuito al prodursi e protrarsi di una guerra dagli esiti scontati già dal primo giorno. Don Pino, a Cesena-Sarsina, troverà sicuramente migliori condizioni materiali di vita; ma avrà sempre spazio per condurre le sue battaglie per un mondo nuovo. Chi è abituato a guardarsi indietro, trova sempre, alla sue spalle, chi sta peggio di lui.
Buon viaggio, don Pino.