di Rosalba Demetrio, Capo Delegazione FAI Matera e Vicepresidente Regionale FAI Basilicata ha inviato alla nostra redazione una nota sulla vicenda che riguarda l’imminente taglio degli alberi in via Lanera a Matera. Di seguito la nota integrale.
Ogni volta che si abbatte un albero si ferisce un punto della Terra che l’ha generato.
Per celebrare l’Earth Day 2018 istituito dall’ONU nel 1970 tre giorni fa, il 22 aprile, milioni di alberi sono stati piantati in tanti angoli di mondo per dare concretezza a un obiettivo fissato nel 2016: 7,8 miliardi di nuovi alberi entro il 2020. Tutti sappiamo perché è importante.
A Matera un giorno dopo, il 23 aprile, associazioni ambientaliste e cittadini sono scesi in campo per fermare il taglio di alberi, che storicamente definiscono il paesaggio urbano della collina del Castello. La cronaca di questi giorni è nota. Note le motivazioni. Non è la prima volta che accade a Matera, Capitale Europea della Cultura nel 2019, sempre più logora e deturpata. Altre aree urbane sono state defraudate di alberi nel silenzio della comunità, forse perché più distanti dal centro.
Non vorrei farne un caso personale, ma circa tre anni fa sessantasette alberi sono stati tagliati intorno alla casa dove vivo, nel rispetto formale delle norme e perché malati (?). Che amarezza! A nulla è valso battersi nelle sedi ufficiali. Mentre una parte del paesaggio urbano veniva azzerata, moriva una parte del mio paesaggio interiore. E quegli alberi che per più di cinquant’anni avevano guardato nelle nostre case, testimoni delle nostre vite, non c’erano più.
E’ stato allora che ho pensato di coinvolgere la Delegazione FAI di Matera in un progetto culturale che fosse un’occasione per riparlare del verde urbano. Ed è nata la Giornata FAI con il titolo Il cuore verde delle architetture. E sempre allora ho pensato di dare voce a quegli alberi facendo scrivere delle storie a un gruppo straordinario di ragazzi, Ciceroni del FAI. E’ nato Storie di Alberi d’Autunno, una emozionante performance di Teatro-Danza, in cui gli alberi hanno raccontato le storie di cui sono testimoni, ovunque nel mondo.
Per dire ancora una volta no al taglio degli alberi, pubblichiamo il racconto scritto da Riccardo Strafella, un mio studente del Liceo Classico, letto e messo in scena nell’ottobre scorso. Un’altra pagina di storia consumata nel silenzio, in un punto della Terra che è la nostra città.
Fiamme di vergogna di Riccardo Strafella
Un lieve sospiro di tramontana faceva dondolare pigramente le mie fronde verso sud. Un concerto di acuti cinguettii rendeva l’atmosfera intorno a me magica, quasi paradisiaca. Il sole inondava di luce il bosco, la stessa luce che rinverdiva le mie foglie e che faceva crescere i miei frutti. Io ero un albero e questa è la mia storia.
Vorrei iniziare col dire che credo, e a buona ragione, che sia impossibile per chiunque provare a immaginare quale possa essere l’esistenza di un albero, forse considerata dai più banale e noiosa. Già, forse.
Eccomi lì, un albero come mille altri, una goccia d’acqua nell’oceano della foresta. Ero, o meglio, eravamo degli splendidi pini d’Aleppo, tanto vecchi e preziosi da essere sotto protezione ambientale, esistiti in quel luogo da sempre, appena più a sud dell’antica città di Matera. Io ero il più grande dei miei fratelli, con il mio tronco che svettava oltre i dodici metri di altezza, con i miei possenti rami che tanti rifugi offrivano agli abitanti del bosco, con la mia longevità secolare.
Ciò che ho avuto più a cuore durante la mia vita è stata la nostra casa. Abitavamo in una silenziosa pineta che, pur essendo di modeste dimensioni, si presentava rigogliosa e lussureggiante. Ci si arrivava attraverso uno stretto e buio sentiero per il sottobosco. Dopo qualche minuto di cammino, ci si ritrovava in una piccola radura esattamente al centro della pineta stessa, con tanto di laghetto per le anatre. Qui non vi era traccia della civiltà (o dell’inciviltà) umana. Qui tutto era ameno e puro, come il mondo dovrebbe essere.
Siamo esseri riflessivi, noi alberi, sempre da soli, a tu per tu con i nostri pensieri. Spesso mi facevo delle domande, nel mio perpetuo e assoluto silenzio, senza mai riuscire a trovare risposta, forse per la loro eccessiva astrattezza: chi, prima di noi, ha calpestato il suolo dove ora viviamo? Da dove siamo giunti fino a qui? E soprattutto, quando? Da quel che ricordo, noi siamo sempre stati in quel luogo. Quel posto esisteva da sempre e noi con lui.
Io ero solito considerarmi un semplice spettatore della commedia che racconta la storia del nostro mondo. Mi limitavo, insomma, a una pacifica osservazione di ciò che mi circondava. Ho, per giunta, un’ottima memoria.
Ricordo perfettamente quel giorno, un torrido 10 Agosto dell’anno 1971, quando vidi, per la prima volta nel corso della mia esistenza secolare, un essere umano in carne e ossa. Era alto e abbastanza magro, con una carnagione chiarissima che faceva risaltare il colore verde scuro dell’uniforme militare indossata. Sulle spalline aveva appuntata una stellina, simbolo del suo grado di ufficiale; completavano l’equipaggiamento una pistola di piccolo calibro riposta nella propria fondina nera e un capiente zaino.
Il militare era appena balzato giù da quei classici fuoristrada Jeep, usati dall’esercito americano dopo il secondo dopoguerra; al suo fianco, alla guida del veicolo, vi era un altro soldato, probabilmente di grado inferiore a colui che scortava, anch’egli con una carnagione chiarissima. Si avvicinarono con prudenza alla base del mio tronco, che a quel tempo esponeva il suo fianco direttamente sulla piccola radura. Preso qualche rapido appunto su un taccuino di pelle nera, se ne andarono pochi minuti dopo, non senza aver fatto una breve ricognizione dell’area circostante. Montati in macchina, indossarono subito dei caschi blu.
Da quell’incontro passarono ore, giorni, forse settimane, senza che ci fosse alcuna notizia, buona o cattiva. Nella mia mente, però, continuavo a rimuginare su quali sarebbero state le conseguenze di quella visita fatale. Mentre ero ancora immerso nei miei pensieri, quasi non mi accorsi che altri uomini dal caschetto blu si erano messi a gironzolare per la mia pineta. Fra di loro mi colpì particolarmente un individuo: basso e tarchiato, dava ordini a destra e a manca agitando convulsivamente le sue piccole braccia. Stringeva fra le mani alcuni progetti e un paio di cartine della zona. Il giorno dopo arrivarono al campo (perché ormai questo la zona era diventata) alcuni container stracolmi di materiali da costruzione e con essi, naturalmente, anche due dozzine di semplici operai.
Non nascondo che tirai un sospiro di sollievo nel non vedere alcuno di quei macchinari infernali usati dall’uomo per tagliare i miei simili: avevano deciso che non sarebbe stato necessario ripulire la zona, dato che spazio per costruire ve ne era a sufficienza. I lavori furono portati a termine in men che non si dica. Dopo poche settimane un vialetto con ai lati una decina di case diventò il fulcro centrale di quello che sarebbe stato un complesso militare a dimensione “familiare”. Dietro le coltri di filo spinato stese intorno al perimetro della pineta vi era infatti una vera e propria colonia per le famiglie dei militari stranieri di stanza a Matera. All’ingresso della zona protetta vi era una scritta a caratteri gigantografici: N.A.T.O.
Fu proprio durante questo periodo che venni a sapere qualcosa di più su un mondo che si stava evolvendo sempre più rapidamente. Ogni sera sentivo la voce della radio gracchiare notizie su notizie, tragedie su tragedie. E fu proprio allora che elaborai una teoria sul genere umano: credo che gli uomini abbiano due “facce”, l’una opposta all’altra, interscambiabili in caso ce ne fosse bisogno. La prima faccia, quella buona, viene fuori soprattutto nei momenti di tranquillità e gaiezza, specialmente nell’animo dei bambini. L’altra faccia, quella crudele, emerge nei momenti di contrasto con qualsiasi altro individuo. Feci amicizia con un bambino di nome George, uno degli ospiti del campo; era vispo e attivo, si metteva spesso a parlare con me e insieme trascorrevamo molte ore di ogni giornata. La cosa che più mi colpì di lui furono gli occhi di uno strano color verde, verde come la mia linfa vitale.
George, come è normale che sia, crebbe forte, sano e intelligente e, per quanto fosse diventato ormai grande, non mancava mai di salutarmi accarezzando con la mano la mia rugosa corteccia. Un brutto giorno, che mai dimenticherò, George fece le valigie e andò via, senza mai fare ritorno dal suo amico albero. Da allora tutto cambiò: i militari cominciarono a rientrare in patria e le famiglie, che avevano rallegrato le mie giornate fino ad allora, partirono con loro. La base divenne inutile e fu dunque abbandonata.
Mentre la città intorno a me si espandeva e migliorava la sua vivibilità, io e i miei fratelli decadevamo sempre più in uno stato di completo degrado, sommersi dall’immondizia e dalle catapecchie. Passarono diversi anni dall’abbandono della colonia, non so dire quanti di preciso. So solo che il mio momento stava per arrivare, la mia situazione andava peggiorando e il paradiso era ormai diventato un vero e proprio inferno per me. Caddi in un sonno profondo, quasi svenuto.
Mi risvegliai molto tempo dopo, non saprei nuovamente dire quanto, smosso leggermente da qualcosa di caldo e bruciante. Tornato in me, vidi una scena raccapricciante: la rigogliosa pineta era diventato un deserto di cemento, i miei fratelli erano tutti carbonizzati di fianco a me, una gigantesca fiamma lambiva i miei rami più alti. Stavo prendendo fuoco. L’ultima cosa che vidi fu un uomo in giacca e cravatta con una tanica di benzina in una mano e un accendino nell’altra. Era stato pagato per uccidere. Stava osservando la mia fine, di cui era direttamente responsabile. Aveva gli occhi di uno strano color verde, verde com’era un tempo la mia linfa vitale. Una lacrima gli rigava il viso.