Parco delle Cave, Matera Civica: “Alcune utili ragioni per non continuare a fare danni”. Di seguito la nota integrale.
Si potrebbe partire dagli antichi guardiani all’ingresso in città, quando non c’era l’ANAS, ovvero dal punto ritenuto più agevole per attraversare il torrente Gravina: veniva ben identificato da due strutture votive in tufo che ancora sfidano il tempo.
Un altro Parco tematico bolle in pentola. È quello delle cave di tufo affacciato sulla strada statale 7. Se ne parla da qualche mese, tra pochi addetti ai lavori per la verità, e i presupposti già non sembrano differenti da quelli pervicacemente perseguiti dopo il nefasto intervento che ha interessato Murgia Timone. C’è stato un primo incontro “telematico on line”, diciamo pubblico. Non sono mancate alcune osservazioni in termini di collaborazione spontanea, buoni auspici, ma ora si vuole passare direttamente alle conclusioni senza tenere conto di quelle che sono le peculiarità autentiche del territorio.
Durante l’incontro telematico, mi sono permesso di far notare che il Parco inizia prima dei confini convenzionalmente definiti dal progetto che s’intende realizzare. Nel senso che non sarà sicuramente sfuggita, neppure ai più distratti, la presenza che s’incontra alla fine della discesa di San Vito, all’incrocio della strada statale numero 7 tra Laterza e Santeramo.
All’ingresso della strada che conduce in contrada Pantano, dove sorge il nuovo cimitero, svetta una costruzione in tufo, un cippo di notevoli dimensioni che evoca nella forma un tabernacolo. Sembra una sorta di casello stradale, di involontario spartitraffico. Ma, in fondo, non fa altro che continuare a svolgere esattamente questa funzione, ormai antica, perché dovrebbe risalire al 1654. Facile l’obiezione di partenza. In tutta evidenza è uno dei tanti segni di cui è ricco il territorio, una presenza votiva, espressione di una inequivocabile devozione popolare rispetto a qualche episodio o ragione legata a particolari esigenze di fede. Anche questa non è una considerazione del tutto sbagliata. Ma la verità è un’altra, almeno secondo una concezione della viabilità molto lontana dalla nostra e in tempi in cui la cura della segnaletica non era compito dell’Anas.
La contrada, non a caso, si chiama Pantano ed è attraversata ancora oggi dal torrente Gravina, completamente imbrigliato in capaci argini di cemento. Prima di questa sistemazione idraulica, però, per lunghi mesi dell’anno, tutta la zona era completamente coperta dall’acqua, in alcuni punti alta o paludosa e comunque difficile da attraversare a piedi, figuriamoci con un animale da soma o un carretto.
Ecco spiegata compiutamente la presenza del manufatto in tufo. Un monumento in calcarenite dedicato alle antichi radici del territorio, perché indica senza tema di smentita una posizione del tutto favorevole. A cosa? Ma al guado del torrente e al superamento della zona del Pantano che, in questa zona, prosciugava più rapidamente che in altre.
Per avere contezza di quanto era importante questo guado – anche per chi si muoveva a piedi – è sufficiente affacciarsi sul ponte, ma prima doveva essercene un altro, che attraversa il torrente. Finalmente ho capito, dopo anni di domande senza risposte, perché si notano in posizione opposta, sulle due rive del corso d’acqua la presenza di gradonate, alcuni gradini tufacei. Sono scavati accuratamente nella parte rocciosa. Si tratta di vere e proprie scale ricavate a ridosso del torrente nel posto in cui era più facile scendere e risalire, agevolmente e con meno fatica.
L’argomento credo che possa essere approfondito ancora e probabilmente è da mettere in relazione con l’antica cappella dedicata a San Vito, oltre che al tratturo regio che conduceva a Castellaneta, sovrapponendosi all’antica via Appia. Insomma, i due tabernacoli in tufo ancora oggi sentinelle sulla strada statale 7 sono dedicati alla Madonna del buon cammino, veri e propri antesignani della segnaletica stradale. Indicavano la fine oppure l’inizio di un viaggio e, considerati i possibili esiti incerti del cammino – c’era anche chi faceva testamento prima di muoversi da casa propria – affidarsi a una celeste entità ausiliatrice era la regola, considerato che in passato spesso le regole non esistevano neppure.
Dentro l’area del parco suggerii, sempre nell’occasione dell’incontro telematico, di riprendere i temi delle tecniche proprie dei litotomi e di esporre gli attrezzi che i nostri progenitori usavano per estrarre i blocchi di tufo. Spesso dimenticati, i cavamonti, in dialetto “zuccatori”, sono gli artefici materiali di gran parte della città antica, dalle più umili abitazioni ai più fastosi palazzi e luoghi di culto. Narrare di tanta tecnica e fatica è un omaggio al loro duro lavoro, nonché un recupero certo di una memoria che stiamo lentamente perdendo. Allo stesso tempo, si sarebbe potuto pensare ai reperti consegnati al Museo archeologico Ridola tramite il geologo Salvatore Boenzi. È in queste cave del territorio che negli anni Quaranta furono trovati i primi reperti di cetacei vari, balene e delfini, anche in questi casi scambiati per dinosauri.
Immaginarli in un ambiente che racconta la fine del pleistocene, tra isole popolate da questi grandi mammiferi, le stesse che frequentiamo a piedi oggi, costituirebbe un momento didattico esaltante, molto di più del solito orto botanico proposto oggi alla comunità e destinato all’oblio domani. Di più, si potrebbe raggiungere il posto senza auto, spostandosi direttamente dalla stazione delle Fal, il cui binario raggiunge la banchina pronta da anni all’altezza del mercato di via Marconi.
Due ascensori, mai entrati in funzione, portano in superficie, accanto alla grande area dell’ex pastificio Padula, dove sarebbe il caso di allestire una mostra tematica dedicata alla grande epopea del polo pastaio più produttivo d’Europa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. L’area è a ridosso del Parco delle cave e, attraverso una dolce pendenza, collega idealmente il lucore della bianca farina prodotta dai mugnaia al candore della tufina macinata dai picconi dei cavamonti. Un solo biglietto per andare e tornare in questo viaggio nel tempo, è quello che ci vorrebbe, e non certo un nuovo viaggio senza ritorno nell’ignoto di progettazioni avulse dalle millenarie vicende del territorio.
Sembra la scelta giusta qualora non si persegua unicamente la spesa di risorse, soldi pubblici comunque da spendere, accada quel che accada, benché destinati a un obiettivo purtroppo deteriore, sconvolgere la sacralità dei luoghi della memoria a noi più cari.
Immagini
Nelle foto in basso i due tabernacoli in tufo del 1654 sulla strada statale 7 dedicati alla Madonna del buon cammino, veri e propri antesignani della segnaletica stradale, indicavano la fine oppure l’inizio di un viaggio e, valutati i possibili esiti incerti del cammino, affidarsi a un’entità ausiliatrice e superiore era la regola, considerato che spesso le regole non esistevano neppure.