Basilio Gavazzeni: “Asterischi di un luglio già bevuto”. Di seguito la nota integrale.
Constato che il mio articolo su piazza Sant’Agnese ha smosso un paio di interventi da parte dell’Amministrazione per garantire sicurezza e ospitalità ai cittadini che la frequentano in cerca d’aria più respirabile. Il giorno seguente, un faro è stato apposto al palo della luce più prossimo al nuovo parco giochi, così da diradarne il buio. Qualche giorno dopo, è comparsa la segnaletica verticale e orizzontale necessaria alla sicurezza di tutti. Restano da sfalciare le graminacee. E v’è bisogno di qualche panchina in più.
Un ragazzo mi dice che la madre non ha condiviso né il titolo né la sostanza dell’articolo di cui sopra. Ho l’improntitudine di non verificare mai il feed-back di quel che scrivo. Chiedo scusa. Dubito, tuttavia, che il ragazzo riferisca la verità. Fosse veritiero, ne inviterei la madre a condividere con me una modica spesa: i costi della scialbatura per ripristinare il candore che, fino a un mese fa, distingueva nettamente dai locali di cui è prolungamento la parete più vicina alla chiesa. Un mese fa, nel bailamme di una festicciola, nonostante le macchine interposte e gli adulti presenti, la parete è stata sansebastianizzata da pallonate i cui piedi esecutori sono noti. Impresse nel nitore quasi decennale della parete, è stato impossibile dilavarle. «Fa brutto!» osserva qualche parrocchiano sensibile. «Ci sono battesimi, nozze, funerali, la pratica religiosa di ogni giorno che richiedono un contesto di decenza …». Se la madre sopracitata esiste davvero, vuol condividere con me i costi dell’imbianchino?
Più che a causa dei problemi economici che quasi la ischeletriscono (la Liturgia delle Ore mi proporrà in giornata il giusto Salmo per bestemmiare l’ingiustizia e l’egoismo che riducono le persone in tal stato) una signora è inconsolabile perché, in sua assenza, i vicini di casa, hanno bacchiato i nidi delle rondini issati sugli alberi del condiviso ritaglio di terra che il Comune lascia perdere. Toh, i volatili , un tempo sacri, maculavano di sterco il gioiello di macchina appena acquistata dagli impietosi bacchiatori.
Non sono propenso a raccontare le storie delle persone che soccorro. La comunicazione sociale ne è avida, ma non cedo. Non sollecita una migliore generosità esporre al pubblico metri e metri di visceri altrui. Certo mi affligge l’impotenza a soccorrere non pochi bisognosi. A certe situazioni si potrebbe rimediare, insieme, se essi disponessero di qualità morali purtroppo introvabili. Manca lo spirito di sacrificio, manca l’amore autentico, manca la tenacia, manca la fede, sia agli individui, sia ai familiari, anche per la durata di poche stagioni. Mancano le virtù che rendono possibile la blasonata resilienza.
In Uscita di sicurezza, circa sessant’anni fa, Ignazio Silone scriveva: «In realtà, l’uomo d’oggi è abbastanza mal ridotto. Un’immagine dell’uomo moderno, che non voglia discordarsi troppo dall’originale ed evitare il verbalismo, non può non essere deforme, scissa, frammentaria, in una parola, tragica». Nessuno si illuda, nessuno ci illuda: questa è la condizione umana anche in questi giorni. È flagrante la contraddizione che oppone le chiacchiere alla realtà ormai drammatica per la cui salvezza occorre investire la totalità di noi stessi.
«Io sono il gigante e lei è un nano, inversamente a quel che pensavo». L’ho sentito pietrificato, l’interlocutore, cui davo le spalle per non guardarlo negli occhi. Cosa mi ha indotto a rivolgergli parole tanto deluse. E perché lui non le ha rintuzzate? Io, finalmente, avevo dato sfogo a una lunga esasperazione, e lui, nonostante l’abitudine a serrati contraddittorii, aveva accumulato un troppo lungo torto. Si sono complimentate, poco dopo, le mie collaboratrici, egualmente esasperate dalle procrastinazioni del personaggio da sempre infedele alla parola data, mentre ha in uso di curare puntuali apparizioni sul palcoscenico della socialità impegnata. A sera, chiamatomi a giudizio, la coscienza mi ha soffiato: «Chi credi d’essere?».