Basilio Gavazzeni: “Gentilezza e felicità sociale in emigrazione”. Di seguito la nota integrale.
Per quanto viva piuttosto appartato per non marinare un compito che mi assilla da trent’anni e rade volte goda di chiacchierare con la gente, sono informato su quelli che orbitano nello spazio pre-elettorale. Ne ho già scritto più di un mese fa: non tanto per distogliere qualcuno da una corsa che lo precipiterà in una penosa delusione, quanto per allertare gli elettori meno distratti nei confronti di candidati che, con troppo tiepida sensibilità per il comandamento del bene comune, insistono a incedere nell’ambito politico. Dal sotterraneo antidebito e antiusura constato che nella città crescono le ristrettezze economiche, persiste lo sfruttamento del lavoro nero, gli affitti sono esosi, alcune persone non possono permettersi un tetto, altre possiedono abitazioni gravate da mutui in mora, a rischio di essere tradotte dalle Banche nelle Società di recupero. È innegabile che la gentilezza e la felicità sociale vanno emigrando. Vengono meno, per dirla con parole antiche, humanitas: pienezza di valori umani; fides: fedeltà alle promesse; pietas: cura per i più deboli; virtus: operosità illuminata dalla giustizia. Di più, dilegua la charitas, che è grazia, bellezza e poesia prima che soccorso. Il logo, il discorso, che prevale in qualche circolo scarnito, è ispirato da pulsioni utilitaristiche, tronfio, fuori dalle concrete potenzialità di Matera. Quanti resistono a esternare una fiduciosa attesa del meglio e di una partecipazione responsabile alle urne?
Un orrendo confronto
In questa mattina fredda di marzo, investita dalla tramontana, chiara di sole e azzurro non trovo pace. Sono contristato. Ripenso allo scontro di Donald Trump e Volodymyr Zelens’kyj: il primo, trucibaldo, sicuro del cesarismo conferitogli da un largo consenso del popolo americano e, sostiene lui, da Dio, deciso a scoronare della rappresentanza riconosciuta da un popolo eroico e martoriato l’altro, umile carne nella solita mise testimoniale. Doveva essere una trattativa seguita da firme congiunte. L’uno divisava, straparlando di iniziativa di pace, di accaparrarsi vasti sottosuoli ucraini ricchi di materie critiche, dal litio al cobalto al nichel, come rimborso in odore di usura di erogazioni di aiuti militari fatti dal vituperato predecessore; l’altro era inteso a ottenere garanzie di sicurezza che mettessero la patria al riparo da altra invasione. Il colloquio di 45 minuti negli ultimi 10 è imploso. Onore a uno Zelens’kyj che, cereo nell’autocontrollo, non ha chinato il capo sotto la tempesta di farneticazioni di Trump e del vice J.D. Vance e le derisioni della claque dei giornalisti. Messo irritualmente alla porta, ha rilasciato un post trattenuto in una correttezza appena percorsa da un filo d’ironia, ribadendo la necessità di una pace equa e duratura.
La quiete dopo la tempesta?
Ieri notte mi sono esposto al lungo discorso di Donald Trump al Congresso. Il tycoon ha fatto il resoconto di quel che ha concluso rispettando le promesse elettorali in un mese e mezzo dall’insediamento e, in coerenza a quelle, ha dispiegato i prossimi intenti. Trump si è detto disponibile a riaprire il dialogo con Zelens’kyj che gli ha scritto pronto alla trattativa per la pace e le terre rare. Onore ancora all’Ucraino che per la salvezza della sua nazione e il risparmio del suo esercito ormai impari alla guerra, preferisce piegarsi ma non spezzarsi, mentre divisa, l’Europa è ferma alle parole e nell’impotenza.